venerdì 12 novembre 2021
mercoledì 19 maggio 2021
Povero Zoro!
Non guardo Propaganda live da mesi, dunque ho dovuto recuperare su rivedila7 la puntata andata in onda venerdì 14 maggio, che solo grazie ai commenti di chi seguo su Twitter ho appreso fosse stata disertata da Rula Jebreal, invitata a parlare dell’ennesimo riacutizzarsi del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi, ma non più disposta a farlo dopo aver saputo di essere la sola donna ad essere ospitata in quella puntata. Impegnato com’ero in un delizioso weekend su un’isoletta covid free, però, non ho potuto recuperare la puntata prima di lunedì sera, e qui non metterebbe conto di parlarne, se non fosse che quanto è parso interessante a me, ascoltando il monologo di Diego Bianchi che apriva la serata, non è parso degno di nota a chicchessia.
Si è rilevato, infatti, che il suo imbarazzo fosse
assai piccato, e che solo il rispetto per la propria reputazione,
così faticosamente costruita con tanti furbi ammicchi e tante
sapienti leccatine, lo trattenevano dal dare della stronza alla
Jebreal.
Non è sfuggito, parimenti, quell’«a
me non piacciono i social»,
che, detto da chi ci costruisce sopra tre quarti di trasmissione, suonava alquanto grottesco. Tutto giusto, certo,
ma non mi è parso sia stato questo l’essenziale.
L’essenziale,
a mio modesto avviso, è stato che l’incidente
ha finalmente sciolto tutte le ambiguità sulle quali Diego Bianchi
ha saputo fino a quel punto reggere da scaltro equilibrista.
Rivelatori, in tal senso, sono stati alcuni termini cui è ricorso in
quegli otto lunghissimi minuti di excusatio.
Ha esordito in questo modo: «È stata una settimana decisamente pesante, impegnativa, sul fronte degli avvenimenti, della storia che si fa, e anche di chi ovviamente cerca in qualche modo, con gli strumenti che ha, di raccontarla. Noi ci siamo preparati per tutta la settimana, come sempre, per questa puntata, e poi, a un certo punto, è successo che, nell’assurdità del momento, oggi la notizia siamo diventati noi, e questa cosa francamente sorprende. Diciamo che a noi piace rincorrere le notizie, scoprire le notizie, dare le notizie: essere la notizia già meno».
Mettendo da parte l’epica che accomuna, nella fatica, «la storia che si fa» e chi la racconta, Propaganda live ha mai dato una notizia? Ne ha mai «scoperta» una? Le «rincorre», questo sì, e, soprattutto, le commenta. Per meglio dire: fa suo il commento che su una data notizia dà il volto noto che è ospitato dalla trasmissione o il tweet scelto nella marea di tweet che l’hanno commentata. Nell’uno e nell’altro caso, come è ovvio, la scelta è legittimamente insindacabile, d’altronde, almeno fino a quando l’ho seguita io, Diego Bianchi ha più volte tenuto a far presente: «Questa trasmissione è mia»; anche in questa occasione, peraltro, ha precisato: «La scelta dei nostri ospiti non è mai neutra. Su questo palco non salgono i politici, per determinati motivi, ma soprattutto non salgono neppure certi pensieri che voi vedete giustamente rappresentati nei talk show».
Una trasmissione, dunque, che, seppure con l’espediente di dar voce a questo e a quello, sostanzialmente esprime una linea editoriale e una linea politica. Fin troppo manifeste, direi, oltre che fortemente motivate, visto l’armamentario messo in campo contro gli avversari, offerti a un pubblico assai fidelizzato come oggetto di esecrazione, differita in feroci prese per il culo, che quasi sempre mirano a farsi tormentoni, per acquistare la viralità del meme.
Una trasmissione propagandistica, dunque, come d’altronde il titolo rivendica, e con fierezza si potrebbe dire, se non fosse che, a suo tempo, quando Gazebo si spostò da Rai3 a La7, la scelta di chiamarla Propaganda live, fu dichiaratamente ironica, a rigettare l’accusa che proprio in quel senso le era stata mossa: «Per non dare ragione a Salvini – disse Diego Bianchi – si fa quello che vuole Salvini». Aveva ragione Matteo Salvini, dunque, ma doveva aspettare quattro anni per vedersela pienamente riconosciuta da un Diego Bianchi senza più alcuna possibilità, e forse neppure voglia, di schermirsi schernendosi. Senza più neppure necessità di farlo, poi, visto che la sua trasmissione ora va in onda da un’emittente privata, e col tempo ha maturato i crediti di cui gode ogni marchettificio culturale del Belpaese, protetto dalla rete di interessi in cui è riuscito a crescere e irrobustirsi.
Interessi che qui sono riusciti a estendersi
in più campi: Propaganda
live
può promozionarti il libro o il disco, se sei un vip, ma può pure
darti quindici secondi di notorietà, se sei un anonimo account su
Twitter;
può promuovere ad opinionista un comico e ripescare dal
dimenticatoio un cantante in voga mezzo secolo fa; può preparare il
ritorno in campo di Enrico Letta facendogli fare il Vaso degli Esteri
e creare il clima più favorevole al giudizio che un tribunale dovrà
emettere su Mimmo Lucano; può strizzare un occhio ai centri sociali
con un’intervista a Zerocalcare e fare una leccatina al culo di
Sergio Mattarella con una striscia di Makkox, il genio. Scampoli di
potere, è ovvio, peraltro esercitato in una nicchia relativamente
angusta, ma quanto basta a nutrire ambizioncine e carrierucce,
rafforzando la certezza di essere referenti di un’area.
Quale sia l’area di cui un Diego Bianchi può avere avuto modo, più o meno a buon diritto, di credersi referente, non è un mistero: è quella che, pur con sempre minor consenso in Italia, esprime la ben nota presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra, che proprio a questa sua irrinunciabile presunzione deve le sue più cocenti sconfitte.
Accade, infatti, che si inviti in trasmissione il
sindacalista di colore che si batte contro lo sfruttamento di
immigrati pagati poco e in nero per raccogliere pomodori in Puglia, e
a chiudere l’intervista
ci
sia
lo stacchetto musicale della band il cui leader è quel ristoratore
che fa lavorare una ragazza senza un regolare contratto e, quando
quella ha da ridire, la liquida con l’epiteto
di «pazza
incattivita dalla vita».
E lì, a «rincorrere
la notizia» trovi
un altro, e la notizia sei tu, e a contorno ti stanno gli artisti che
hai promozionato, qui in riconoscente difesa del
musicista-ristoratore, uno dei «tre
o quattro amici»
che alla tua trasmissione collaborano da anni, e che dunque della
trasmissione sono espressione almeno quanto te: puoi cavartela
dicendo che questo ti «piace
meno»?
Poi,
e s’è
già detto: «A
me non piacciono i social».
Paradossale, s’è
già detto pure questo, ma perché? In sostanza, perché dei social
non puoi sempre servirti come vuoi. E qui la riflessione è costretta
a esorbitare in domande che su queste pagine ho già posto, e che
oggi ritornano: ma
un vip che twitta, che apre una pagina su Facebook
o
su Instagram
–
esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove
uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad
offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web? Non
dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla
disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del
naso dall’anonimato e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni
di ogni sorta.
Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip,
anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e
qualitativamente. Insomma, non sta sui social per vincere la
solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare:
a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore,
a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono
offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che
in cambio di un compenso, quando lavora, anche così, a gratis? Dalla
prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato, ogni
dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di
ammirazione o di affetto, si potrebbe supporre sia per vanità,
ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip
retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi
della vanità spesso sono perversi.
Mera ingordigia di attenzioni, si
direbbe, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico
che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace
strumento di autopromozione professionale, oltre che di
fidelizzazione dei fan. Salvo imprevisti, tuttavia, com’è
nel caso in cui l’area
di cui ti credevi referente si spacca, e una parte, d’improvviso,
trova condivisibili le ragioni che hanno portato Rula Jebreal a
rifiutare il tuo invito, e poco convincenti le tue spiegazioni.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.
giovedì 13 maggio 2021
Un’allegoria inservibile
Davide Racca, Descrizione del dispositivo (partic.) * |
«Al condannato viene scritto sul corpo,con l’erpice,
il comandamento che ha infranto»Franz
Kafka, Nella
colonia penale
(1914)
«La
similitudine non è più la forma del sapere,ma
piuttosto l’occasione
dell’errore»Michel
Foucault, Le
parole e le cose (1966)
1. Michel
Foucault apre Surveiller
et punir
(1975) con la descrizione che la Gazzetta
di Amsterdam
del 1° aprile 1757 dà del supplizio subìto pochi giorni prima da
un tal Damiens, parricida: tenaglie gli strappano brani di carne;
nelle ferite così aperte vengono versati piombo, pece e zolfo fusi;
poi è smembrato; i suoi pezzi vengono bruciati; le ceneri sono
sparse al vento.
È
uno degli ultimi supplizi che, nei secoli precedenti, un po’
dappertutto in
Europa, si sono tenuti sulla pubblica piazza: pochi decenni ancora –
dice Foucault – e «il
corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul
viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, [sarà]
scomparso»
da
quella piazza, perché «la
meccanica esemplare della punizione [ha
d’intanto]
muta[to]
i
suoi ingranaggi: la giustizia non si addossa più pubblicamente la
parte di violenza che è legata al proprio esercizio»,
e, «per
effetto di questo nuovo ritegno –
scrive,
dando qui esemplare saggio di cosa sia il «metodo
genealogico» di
cui è debitore a Nietzsche – tutto
un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista
immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani,
psichiatri, psicologi, educatori».
Certo,
ora la pena mostra «meno
crudeltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto,
maggiore “umanità”»,
ma è solo perché, insieme al dispositif
punitif
che la somministra, è mutato «l’oggetto
stesso dell’operazione punitiva»:
«non
è più il corpo, è l’anima» («alla
espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca
in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la
disponibilità»).
Diremmo che ora il comandamento non si accontenta più di sanzionare
la sua violazione, ma vuole essere inciso a fondo in chi l’ha
violato, vuole che il condannato l’abbia
impresso in sé per sempre, che in lui possa essere leggibile a
tutti.
Scorrono
le pagine, si chiude il primo capitolo (Il
corpo del condannato),
si apre il secondo (Lo
splendore dei supplizi),
e il lettore si aspetta che da un istante all’altro,
come allegoria di questo dispositif,
gli si pari innanzi l’Apparat,
la Maschine,
che In
der Strafkolonie
di Franz Kafka uccide il condannato dopo avergli inciso a fondo nella
carne, per dodici lunghe ore, il comandamento che ha violato. Non
accade.
Per
meglio dire: accade, ma a
posteriori.
Accade, cioè, che il racconto di Kafka appaia foucaultiano, per
esempio, a Edson Passetti (Kafka-Foucault, sem medos –
Ateliê Editorial, 2004), a Stefano Marchesoni (Parrhesia e forma-di-vita –
Nóema,
IV-1, 2013), a Micaela Latini (Scrivere la colpa –
Baig
VII,
febbraio 2014), a Davide Racca (Nota al testo per
la
sua traduzione del racconto – Zona Contemporanea, 2015), a Nicolas
Bareït (Reading Kafka after Foucault: “In der Strafkolonie”
–
Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé,
II, 2, 2016), a Gabriella Calcagno (La condanna di avere un corpo – operavivamagazine.org,
6.4.2016), ad Alessandro Baccarin (Colonia penale –
archeologiafilosofica.it,
luglio 2017), e chissà a quanti altri, sfuggiti alla mia peraltro
rapida ricerca, che ha mosso i passi dal constatare che anche in chi
ha più fatto uso della «cassetta
degli attrezzi» di
Foucault qui in Italia – e parlo di Giorgio Agamben – non vi è
alcun cenno a In
der Strafkolonie:
lungo le 1367 pagine che raccolgono la sua produzione (Homo
sacer. Edizione integrale 1995-2015 –
Quodlibet, 2018), Kafka viene citato una dozzina di volte, senza che
mai neppure un cenno richiami il suo racconto.
Come
mai? Non per un rigetto della chiave allegorica come metodo
d’analisi,
evidentemente, perché Agamben la usa spesso, e Kafka non gliene
offre poche: con Der
Prozeß,
con Vor
dem Gesetz,
con Die
Acht Oktavhefte,
perfino con i Briefe
an Milena.
Impensabile, poi, che non abbia letto In
der Strafkolonie
o che, avendolo letto, possa averlo trovato allegoricamente inerte.
Stessa
cosa può dirsi per Foucault, che Didier
Eribon ci dice leggesse Kafka «enthusiastically»,
per giunta in tedesco, accomunato a lui dall’interesse
per «the
same topics, including alienation, institutional power, the
phenomenon of the body, death and authorship, the limitations of
literature and language»
(Michel
Foucault
– Theory
and Society,
XXII, 3, 1993).
Se
poi torniamo a Surveiller
et punir,
dove abbiamo già visto che
il dispositif
punitif
ha una «meccanica»
e degli «ingranaggi»,
troviamo che Foucault insiste pure sulla sua natura «tecnica»,
tiene a sottolineare che ha lo
scopo di essere «marchiante»,
che il procedimento cui dà vita ha una modalità «rituale»,
che
la
sua azione vuole essere «clamorosa»:
non vi è piena corrispondenza con la descrizione che Kafka ci dà
della Maschine?
Dando
per scontato che non si tratti di un atto mancato per rimozione, cosa
rende inservibile a Foucault (e ad Agamben) l’allegoria
kafkiana? Per
cercare una risposta occorre spostare l’attenzione
dalla Maschine
alla vicenda che le si consuma d’attorno.
Ma prima, forse, è il caso di chiarire perché fin qui si è
preferito parlare di allegoria
piuttosto che di metafora.
Entrambe,
infatti, si servono dell’analogia
per dare un’immagine
concreta a un’astrazione,
ma, a differenza della metafora, l’allegoria
concretizza questa immagine su un piano che non è quello del mero
sensibile: l’allegoria
mira ad animare l’analogia,
a darle una struttura razionale, a conferirle movimento in un
contesto narrativo (apologo, favola, mito, parabola), sicché sul
piano dell’argomentazione,
dove è spesa come figura retorica, ovviamente allo scopo di
persuadere, l’allegoria
regge dove la metafora cade. Ma regge se il contesto narrativo le
consente il movimento. Bene, la Maschine
di Kafka regge come metafora, ma come allegoria cade a tre quarti del
racconto, e probabilmente è per questo che Foucault e Agamben
rinunciano ad evocarne l’immagine:
funziona come un dispositif
solo
fino a un certo punto, poi non più.
2. La
Maschine
– ha spiegato l’ufficiale
al
visitatore – «è
un’invenzione
del nostro vecchio comandante. Io ho collaborato ai primi esperimenti
e poi presi parte a tutti i lavori, fino alla fine. Il merito
dell’invenzione,
però, spetta solo a lui. Ha sentito parlare del vecchio comandante?
No? Ebbene, non credo di esagerare, affermando che l’organizzazione
di tutta la colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, cui è
nota la complessa organizzazione della colonia, ci rendemmo conto,
alla sua morte, che il successore, anche con mille nuovi piani in
testa, per parecchi anni non avrebbe potuto cambiare nulla di ciò
che era stato fatto. Le nostre previsioni si sono avverate: il nuovo
comandante ha dovuto riconoscerlo».
L’ufficiale
è, così, garante di una organizzazione di cui la macchina è solo
l’emblema.
Quando infatti il visitatore chiede se il condannato conosca la
condanna, l’ufficiale
risponde: «Inutile
comunicargliela, la conoscerà sul suo stesso corpo»;
e quando gli si chiede: «Ma
saprà almeno che è stato condannato?»,
risponde: «Neppure
questo»;
e ancora, incalzato riguardo a come il condannato abbia avuto modo di
potersi difendere: «Non
ha avuto nessuna possibilità di difendersi»;
e chiarisce: «La
cosa sta così. Nella colonia penale, nonostante la mia giovane età,
svolgo le funzioni di giudice, perché ho sempre collaborato col
vecchio comandante in tutte le questioni disciplinari, e conosco la
macchina meglio di ogni altro. Il principio secondo il quale io
giudico, è questo: la colpevolezza è sempre indubbia. Altri
tribunali non possono seguire a questo principio, perché sono
composti da diverse persone, e sono sottoposti a istanze superiori.
Ciò non avviene qui o almeno non avveniva quando c’era
il vecchio comandante. Quello nuovo ha provato a intervenire nella
mia attività di giudice, ma finora sono riuscito a tenerlo lontano,
e spero di riuscirci anche in seguito».
Il
dispositif
ha
la stessa impenetrabile trama del disegno che nella macchina fa da
guida all’erpice
che incide nella carne del condannato il comandamento che egli ha violato: tanto è intricato il primo, quanto evidente dovrà essere
il secondo, ma c’è
una ratio
che
sostiene la relatio,
ed è quella del potere cieco, ab-soluto,
che fa da primum
movens alla
catena gerarchico-burocratica che lo
amministra. «L’autorità
dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto»,
ci avverte Carl Schmitt (Die
Lage der europäischen Rechtswissenschaft,
1950), ma Max Weber ci fa presente che «l’esercizio
di ogni dominazione, che esiga un’operazione
continua di amministrazione, ha bisogno da un lato dell’azione
umana sottoposta agli ordini di coloro i quali pretendono di essere
investititi del potere legittimo, e, dall’altro,
di disporre, mediante questa subordinazione, [...] di un corpo di
amministratori e dei mezzi materiali per l’amministrazione»
(Politik
als Beruf,
1919). L’ufficiale
incarna appunto questa inderogabile istanza: è Apparat
non
meno di quanto lo sia la macchina. Ma cosa accade nel racconto di
Kafka?
«Il
processo e l’esecuzione
che lei ha l’occasione
di ammirare –
dice
l’ufficiale
al visitatore – non
trovano più, nella nostra colonia, un solo aperto sostenitore. Io
sono il loro unico difensore e insieme l’unico
legatario dell’eredità
del vecchio comandante». Col
nuovo comandante è tutta un’altra
storia, l’ufficiale
ne è cosciente, e sa cosa aspettarsi. «Ieri
le ero vicino, quando il comandante la invitò. Sentii le parole
d’invito.
Conosco il comandante, capii subito a cosa mirava. Benché abbia
autorità sufficiente per agire contro di me, ancora non ha avuto il
coraggio di farlo. Vuole invece sottopormi al suo giudizio, al
giudizio di un illustre straniero. Il calcolo è sottile: lei si
trova nell’isola
da due giorni, non conosceva il vecchio comandante né il suo modo di
pensare; ragiona secondo i princìpi europei, magari è un deciso
avversario della pena di morte in generale e di simili esecuzioni
meccaniche in particolare [...] Considerato tutto questo, pensa il
comandante, è molto probabile che lei non approvi il mio
procedimento. E se non l’approva,
continua a pensare il comandante, non passerà la cosa sotto
silenzio, perché lei è un uomo che ha il coraggio delle sue
opinioni. Ha visto e imparato a rispettare i costumi di molti popoli,
non si esprimerà contro questo procedimento con la violenza di cui
darebbe prova nel suo Paese: ma il comandante non chiede tanto. Basta
lasciarsi andare una parola di sfuggita. Non è necessario che
risponda alle sue convinzioni, basta che sembri favorire la sua tesi.
Sono sicuro che l’interrogherà
ricorrendo ad ogni astuzia. [...] Lei dirà, mettiamo: “Da noi la
procedura è diversa”, oppure: “Da noi si usa interrogare
l’accusato,
prima di condannarlo”, oppure: “Da noi ci sono altre pene oltre a
quella di morte”, oppure: “Da noi le torture sono esistite solo
nel medioevo”. Considerazioni, ai suoi occhi, tanto rispondenti a
verità quanto naturali, considerazioni inoffensive, che non toccano
il mio sistema. Ma come le interpreterà il comandante? Mi sembra di
vederlo, il buon comandante, respingere la sedia e correre al balcone
[...], mi sembra di sentire la sua voce: “Un grande esploratore
dell’Occidente,
incaricato di studiare l’ordinamento
giudiziario dei vari paesi, ha detto un momento fa che i nostri
provvedimenti giudiziari sono inumani. In seguito al giudizio di una
tale personalità non mi è più possibile, naturalmente, tollerare
questa procedura. Da oggi in avanti ordino...”. [...] Arrivati a
questo punto, le chiedo: mi appoggi nei confronti del comandante!».
L’appoggio
che l’ufficiale chiede al visitatore è in apparenza anodino, ma in
realtà mira a depotenziare la funzione di pretesto che il visitatore
può dare al comandante: «Io
non le chiedo di mentire, nemmeno per idea. Basta che lei risponda
con poche parole, per esempio: “Sì, ho visto l’esecuzione”,
oppure: “Sì, ho ascoltato tutte le spiegazioni”. Solo questo,
niente di più».
Ma il visitatore si dichiara indisponibile: «Sono
un avversario di questa procedura. Prima ancora che lei mi provasse
la sua fiducia, fiducia di cui non abuserò in nessun caso, mi ero
chiesto se avevo diritto di intervenire contro questa procedura, e se
il mio intervento aveva una probabilità, sia pur minima, di
successo. Non avevo dubbi sulla persona alla quale dovevo prima
rivolgermi: era il comandante, naturalmente. Lei mi ha solo
confermato nel mio convincimento, ma, ripeto, ero deciso in
precedenza: l’onestà
delle sue idee mi tocca, anche se non può distogliermi dal mio
proposito. [...] Dirò al comandante il mio pensiero sulla procedura,
non in una riunione, ma a quattr’occhi»,
con ciò sottintendendo: eviterò che ciò che penso possa essere
usato contro la procedura (offrendomi al comandante come pretesto per abolire ciò che fin qui non ha voluto abolire pur avendone il potere); ma eviterò anche che ciò che
penso possa essere usato in
favore
di essa (facendo in modo che la mia indifferenza costituisca un
ulteriore freno).
È
qui che la possibile allegoria implode, con una delle improvvise e sconvolgenti torsioni che Kafka imprime così spesso alla sua narrazione: l’ufficiale
grazia il condannato e, dopo aver riprogrammato il comandamento che
l’erpice
dovrà incidere (stavolta è «Sii
giusto»), si stende sul lettino della macchina e le dà avvio. Ma qui,
all’implosione
dell’allegoria
corrisponde l’esplosione
della macchina, dalla quale quasi subito schizzano fuori ad una ad una le ruote
degli ingranaggi, fino a quando «l’erpice
si alzò di fianco, con il corpo trafitto, come faceva soltanto nella
dodicesima ora».
Così, «il
movimento conclusivo [quello
programmato a scaricare il cadavere nella fossa destinata ad
accoglierlo] non
riuscì, il corpo non si staccò dai lunghi aghi; il sangue
continuava a fluire, e quello rimaneva sospeso nella fossa, senza
cadere. L’erpice
sembrò voler tornare nella sua posizione normale, poi, quasi
sentisse di non essere ancora liberato del suo carico, rimase sopra
la fossa»; e lì il cadavere resta, inchiodato all’Apparat
cui era tanto affezionato, con un comandamento inciso addosso che il
sangue non consente di leggere.
3. Pare evidente che non è questo il modo in cui funziona un dispositif punitif: non si ha contraddizione interna al suo impianto; la linea gerarchico-burocratica che lo amministra non ha inerzie; a un ufficiale addetto al suo funzionamento non capiterà mai un infortunio da arroseur arrosé. Come metafora, la Maschine funziona; come allegoria, no. E probabilmente è questa la ragione per la quale in Foucault (e in Agamben) non se ne ha traccia.
* Come molte altre immagini riprodotte su questo blog, anche questa è tratta da una pagina Internet (https://www.nazioneindiana.com/wp-content/2015/08/Descrizione-del-dispositivo.jpg): qualora la sua riproduzione violasse eventuali diritti d’autore, prima di far calare l’erpice, si abbia la grazia di comunicarmelo (luigicastaldi@gmail.com) e sarà prontamente rimossa.
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