«Diremo
forse che colui che dà
maggiormente perde nello scambio
sul valore
di ciò che possedeva?
Niente affatto, dal momento
che tale superfluo
è per lui senza utilità,
o che comunque, egli ha accettato di farne
lo scambio
proprio perché accorda maggior valore
a ciò che riceve
che a ciò che abbandona»
Michel
Foucault, Le parole e le cose (1966)
All’apertura
della sessione sinodale dello scorso ottobre, in favore di chi
potesse averlo dimenticato, Bergoglio avvertiva che «il
sinodo non è un parlamento»,
non è un luogo «dove
ci si mette d’accordo».
Ancora più esplicito, alcuni mesi prima, era stato quando,
all’accendersi
di imbarazzanti tensioni tra gli opposti schieramenti in seno
all’assise
che doveva licenziare l’Instrumentum
laboris
a partire dalla Relatio
synodis,
aveva rammentato che, a norma del Codice
di Diritto Canonico,
«il
sinodo dei vescovi è direttamente sottoposto all’autorità
del Romano Pontefice»
(Can. 344). Come a dire: parresia à gogo, ma poi decido io, quindi
moderiamo i toni. Che poi poteva intendersi pure a questo modo: ho
già deciso il da farsi, mi servite solo a dargli la parvenza di una
decisione collegiale, quindi cercate di non rompermi il cazzo.
Cosa
avesse deciso era già chiaramente intuibile nella stessa decisione
di convocare un sinodo straordinario, e proprio sulla famiglia: i
margini entro i quali la pastorale poteva azzardare qualche novità
consentivano di rinforzare all’esterno
l’immagine
di un pontificato che più di un fesso già aveva definito
«rivoluzionario»,
senza per questo dover mettere a soqquadro la dottrina. In sostanza,
si era riprodotta la situazione che ha già dato altre volte in
passato alla Chiesa di Roma l’opportunità
di mostrarsi in grado di adattarsi ai tempi, ma senza svendere il suo
deposito di fede, e Bergoglio non intendeva lasciarsene scappare
l’occasione.
Con l’esortazione
apostolica postsinodale Amoris
laetizia
diremmo che l’operazione
sia andata a buon fine, ne sono prova le reazioni di chi vuol
leggerla come una «rivoluzione».
In realtà, basta attenersi al testo per constatare che le sue
accorte ambiguità possono accontentare anche i cattolici più
intransigenti, che senza dubbio non rinunceranno a qualche lamentela,
ma più per onorare il ruolo assegnato loro in commedia che per
sincera preoccupazione. Nei loro confronti, d’altronde,
Bergoglio ha mostrato grande delicatezza con l’annuncio
di una ripresa delle trattative coi lefebvriani, diffuso, seppur con
la dovuta discrezione, appena una settimana prima che fosse
pubblicata l’Amoris
laetizia.
«La
gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo
della Chiesa» (1).
Sarà superfluo chiarire che parliamo delle «famiglie»
che la Chiesa ritiene propriamente tali, perché, tanto per
fare un esempio, «non
esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure
remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio
e la famiglia»
(251). D’altra
parte, la Chiesa può considerare moralmente legittimo un amore che
non
sia fecondo dandosi in «immagine
per scoprire e descrivere il mistero di Dio» (11)?
E allora tutto vien da sé: cinque capitoli (198 dei 325 paragrafi
che compongono l’Amoris
laetitia)
che scorrono anodini a riproporci il modello di famiglia cristiana,
quello strano oggetto che dalla testa del prete è proiettato sulla
famiglia reale che occupa il banco in prima fila e pare segua con
attenzione la sua omelia. Famiglia che non esiste neppure al netto
delle assoluzioni per tutte le disattenzioni, ma al prete piace tanto
da considerarla l’unica
possibile, anche se ha imparato a prendere atto che deve
accontentarsi del poco che la proiezione gli restituisce: «non
tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere
risolte con interventi del magistero»
(3), anche perché non possono, puttana Eva, e allora conviene
«essere
umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di
presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone
hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo»
(36). «Per
molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni
dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla
grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie,
consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro
vita insieme»
(37), e che ci abbiamo ricavato? «Dobbiamo
ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le
relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il
rispetto all’altro»
(38), approfittiamone e cerchiamo di cavarne quel che può tornarci
utile.
Sia chiaro, «in
nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del
matrimonio»
(307), ma cerchiamo di chiudere un occhio tutte le volte che nella
realtà dobbiamo constatarlo più mezzo vuoto che mezzo pieno. Parola
d’ordine:
indorare la pillola. Per meglio dire: sull’amo
della dottrina ci vada un bel verme grasso di misericordia, e buona
pesca. Viga il principio, ma la regola si adatti al caso. Perché il
peccato resti peccato, siate di manica larga col perdono. Divorzio, aborto, eutanasia, fecondazione assistita, matrimonio gay – non cambia niente, è ovvio, ma cerchiamo di non urlarlo a squarciagola, ché ne ricaviamo solo emorroidi. Eucaristia ai divorziati risposati? No, ma sì, cioè, così così.
Ok, potrà
«costa[rci]
molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio»,
saremo portati a «esig[ere]
dai
penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna»,
ma
convincetevi che «la
prevedibilità di una nuova caduta non pregiudica l’autenticità
del proposito»
(311).
Buon viso a cattivo gioco, ché a fare la faccia cattiva non si ha
buon gioco.