«Tutto
quello che non sopporto ha un nome»
Paolo
Sorrentino, Hanno
tutti ragione (Feltrinelli, 2010)
1. È
solo alla fine di quella che concede essere stata una «fastidiosa
e complicata logomachia»
che Jeremy Bentham sembra porsi il problema di poter aver tediato il
lettore, e allora gli chiede scusa, spiegando cosa l’abbia
spinto a farlo. Siamo sul finale di A
Fragment on Government
(1776) e, dopo essersi speso per pagine e pagine nel «laborioso
e ingrato»
compito di dimostrare perché la dottrina di William Blackstone sia,
«peggio che
falsa, priva di significato»,
prevede il rimprovero che gli può esser mosso: «L’hai
dimostrato tu stesso che non metteva conto di occuparsene: perché,
dunque, perderci tanto tempo?».
La risposta rivela un intento pedagogico: «Per
fare qualcosa di atto a istruire, ma soprattutto a disingannare lo
studioso timido e ammirato; per sollecitarlo ad avere più fiducia
nelle proprie forze e meno nell’infallibilità
dei grandi nomi; per aiutarlo a emancipare il suo giudizio dai ceppi
dell’autorità;
per insegnargli a distinguere tra linguaggio altisonante e retto
significato; per ammonirlo a non accontentarsi di parole...».
Qui mi fermo, ma la pagina prosegue per un bel pezzo con analoghe
perifrasi di quello che in sostanza è lo stesso intento che molti
anni dopo lo spingerà a scrivere il suo Book
of Fallacies (1824):
disvelare il sofisma che s’ammanta
di autorità.
Nell’accingermi
a commentare Hanno
tutti ragione?
di Massimo Adinolfi (Salerno Editrice, 2019), voglio declinare un tal
genere di intento, anche se fin qui anticipo che concluderò dicendo
che non metteva conto di occuparsene. Di argumenta
ab auctoritate,
certo, il libricino trabocca, ma non c’è
bisogno di demistificarli, perché l’autore
ha la fierezza, se non di dichiararli tali, di rivelarcene la natura
con un insistente ricorso alla citazione («come
avrebbe detto Hegel»,
«Merleau-Ponty la
metteva così»,
«direbbe
Heidegger»,
ecc.), d’altronde
irrinunciabile da parte di chi nel salottino mediatico è chiamato a
interpretare il «filosofo»,
personaggio che sembra essere diventato un must
nel business dell’intrattenimento.
Sia ben chiaro che l’uso
delle virgolette per questo ruolo non è denigratorio, perché, in buona sostanza, quelli chiamati a dare
un’opinione
sulla questione del giorno imbottendola di citazioni dotte sono al
più docenti di filosofia. Ora nessuno si sognerebbe di definire
«artista»
un critico d’arte
o uno che insegni Storia dell’Arte,
e tuttavia, anche se me ne sfugge la ragione, con la filosofia non va
così: «filosofo»
è
Diego Fusaro, perché, quando Myrta Merlino gli dà un minuto e mezzo
per dire cosa pensa della chiusura domenicale dei negozi, risponde
citando Aristotele, Hegel, Marx, Gentile; e «filosofo»
è
pure Massimo Adinolfi, perché, quando Il
Foglio
gli chiede cosa pensa di Ronaldo, la risposta è un Perché
non possiamo non dirci Cristiano,
in cui troviamo Platone, Rousseau, Voltaire e ovviamente Croce.
Perché questa figura prende vita solo adesso? A
naso, direi che il «filosofo»
da
intrattenimento, forte dei suoi argumenta
ab auctoritate,
nasca per cercare di dare un contrappeso agli argumenta
ad populum
che sono la nota dominante di tempi in cui nel foro, a
là guerre comme a là guerre,
la persuasione ormai si fa strada solo grazie agli argumenta
ad judicium: siamo a un Armageddon nel quale si fronteggiano i «like» e gli «ipse dixit». Compito ingrato per il «filosofo», che da filosofo (senza virgolette) nasce con la pretesa di
governare la polis, ma quasi subito è costretto a ridimensionarla in
quella di guidare chi la governa, per finire col doversi accontentare
di ispirare il principe, prima, di dare consulenza al ministro, dopo,
e di fare l’opinionista,
venendo all’oggi.
Opinionista che peraltro soffre d’un
grave handicap, perché la scienza di cui è chiamato ad intestarsi
il titolo di esperto non è una scienza. Ma questa, mi rendo conto, è
affermazione che impone un chiarimento.
Nei
vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un
generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di
pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo
sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni
posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la
condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di
superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile,
verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che
è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo
sia preferibile a quel «falsificabile»
che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo alla
Fälschungsmöglichkeit
di
cui ci parla Popper).
Un vaglio assai severo, occorre dire, dal quale
tuttavia nessuno pretende di potersi sottrarre, né in forza
dell’autorità
precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua
congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è
indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale
consenso»
di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un carattere di
transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia l’uso
di un termine come «verità»
da
appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto
scientificamente comprovato.
Difficile dire con quanta consapevolezza
accada, ma sembra quasi che chi si misura con la conoscenza
scientifica abbia una riserva di pudore, di umiltà, di prudenza o di
chissà cos’altro
nell’assegnare
a un dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile,
universale) è intrinseco al concetto di «verità»,
riserva tanto pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a
«vero»
si preferisce sempre «attendibile»,
«esatto»,
«credibile»,
che di «vero»
sono sinonimi, ma non rimandano alla «proprietà
di ciò che esiste in senso assoluto»
(Treccani) vantata dalla «verità».
C’è
chi ha saputo trovare le parole giuste per esprimere le ragioni di
questa riserva, che anzi ha esteso perfino all’uso
di «realtà»,
che sta alla «verità»,
volendo prestar fede a chi con questi termini ha consuetudine a
pranzo e a cena, come l’ente
sta all’essere. Qui
le riporto da un’intervista
apparsa su un numero de Le
Scienze di
qualche anno fa: «La
realtà
– diceva Leonard Susskind – ci
rimarrà sempre incomprensibile. […] Continuiamo a inventare nuovi
realismi, […] poi arriva il paradigma successivo che fa piazza
pulita del precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi
modi di pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato,
ora, sembrino sbagliati. […] Secondo me – concludeva – dovremmo
sbarazzarci della parola “realtà”, […] trascina con sé cose
che non servono a niente».
Io mi permetterei di aggiungere che, «oltre
alle cose che non servono a niente»,
ne trascina con sé altre che fanno da ostacolo, che poi è proprio
l’ostacolo
che incontra una disciplina come la filosofia, che, da un lato, ha la
pretesa di dirsi «scienza»
e, dall’altro,
come compito si dà – appunto – la «verità».
In Hanno
tutti ragione?
il «filosofo»
si
limita a esibire con fierezza il bernoccolo che si è procurato nel
tentativo di superare l’ostacolo,
quasi che da quello abbia da sortire una Minerva, ma è in un altro
suo scritto che Massimo Adinolfi prefigura l’incidente
come fine ultimo della filosofia: «Poniamo
che la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo
che rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in
generale, col problema della verità [...] Resta nondimeno difficile
immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto
una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola,
o forse meglio di discorso». E
sì, «ma
chi non ha mai pensato una volta nella vita che tutta la storia della
filosofia non sia che un vuoto chiacchiericcio?» (La
verità come compito della filosofia – Nóema,
2/2011). Nulla che il solito vuoto chiacchiericcio a spiegarne il
perché. E tuttavia la filosofia non rinuncia al titolo di «scienza
della verità»,
anche se non ha nulla di quanto si è poc’anzi
detto della scienza.
Su
nulla, in filosofia, è dato infatti di trovare un generale e pieno, ancorché
transitorio e provvisorio, consenso, nemmeno sul significato dei
termini di più comune impiego, cui ogni filosofo infatti rivendica
il diritto di darne uno tutto personale (si trovino due filosofi, ad
esempio, che diano la stessa definizione di «Dio»).
Tanto meno è dato pretendere dai filosofi un’uniformità
di metodo, giacché a ciascuno è concesso costruirsene uno che possa
tornargli di maggior utilità, e sulla cui affidabilità è dunque il
solo a poter dire l’ultima
parola. Con tali requisiti è comprensibile perché in filosofia
tutte le contese non abbiano mai soluzione, destinate ad essere
accantonate per essere periodicamente riproposte, facendo nascere il
sospetto che non possano trovare una fine per la semplice ragione che
non abbiano un fine, se non quello dell’intrattenimento.
Poi, certo, c’è
intrattenimento e intrattenimento, di qua la «pineale»
di un Cartesio, la «monade»
di un Leibniz o l’«evoluzione
creatrice»
di un Bergson, di là il «nuovo
realismo»
di un Ferraris, il «turbocapitalismo»
di un Fusaro o il concetto di «autorità»
secondo
Adinolfi, che, a differenza del «nuovo
realismo»
di Ferraris e del «turbocapitalismo»
di Fusaro, ha fin qui fatto poca cassetta e dunque merita un trailer.
Comprensibile,
coi limiti esposti prima del siparietto, perché in filosofia non sia
possibile di fatto alcun progresso, trattandosi di un ambito in cui
nessuna posizione è mai davvero superabile, e questo per
l’altrettanto
semplice ragione che ogni altra posizione non ha mai (né può avere)
strumenti validi per dare inconfutabile prova di esserle superiore,
perché, al pari della posizione che intendesse superare, è per sua
stessa natura indisponibile a un vaglio sulla base di criteri che le
sono estranei. Ciò che vale per i campi in cui è la scienza ad
essere chiamata per indagare, infatti, non vale per quelli in cui è
chiamata la filosofia. Ciò trova ragione nella sostanziale
differenza dell’oggetto
d’indagine,
quand’anche
sia nominalmente identico: nel primo caso, infatti, l’oggetto
preesiste all’indagine
come problema, anche se poi è la stessa indagine a ridefinirlo nella
procedura che gli dà ipotesi di soluzione; nel secondo caso, invece,
l’oggetto
nasce nel momento stesso in cui si inizia ad indagare, non un istante
prima, e per la semplice ragione che non corrisponde mai del tutto a
ciò che nominalmente lo richiama dalle indagini che su di esso sono
state condotte in precedenza.
Si prenda, per esempio, la «materia»,
che sembrerebbe cosa eminentemente «fisica»,
ma alla quale la filosofia – almeno una certa filosofia – riesce
comunque ad ascrivere una dimensione «metafisica»,
oppure
la «mente»,
che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a
ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è
partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella
spirale che sovrappone glossa a glossa com’è
coi gusci di una matrioska, sicché con procedura inversa, per
sottrazione di riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro
ci ritrovi sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in
virtù dell’autorità. Quale? Quella che incarna la «verità», o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo», che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta attenzione.
[segue]