Il buon Severino
ha optato per la cremazione, suppongo sappiate. Ora, da cadavere a
cenere penserete che la cosa abbia implicato un divenire, vero?
Sbagliato, sguazzate nell’errore
in cui sguazza tutto l’Occidente,
praticamente da sempre. In realtà, come ogni divenire, la
combustione è fenomeno illusorio, giacché l’essere
è immutabile,
ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno,
come insegnava Parmenide. E dunque che ne è stato del buon Severino? Illusoriamente è diventato cenere, ma in realtà, stante l’«apparir
di esser sé in ogni essente» nell’eterno S₁, nell’eterno S₂, nell’eterno S₃, eccetera, adesso di Severini ne abbiamo 8, e tutti buoni, e tutti eterni.
domenica 26 gennaio 2020
venerdì 24 gennaio 2020
[...]
È
escluso che la Lega riesca a conquistare l’Emilia-Romagna, a
ingannare chi di qua lo teme e di là lo spera è lo stesso tipo di
dispercezione, quella che ingrandisce a dismisura ciò che pare
eloquentemente emblematico, e invece è solo vistosamente
eccezionale, come l’ultra-ottantenne che per una vita si è
orgogliosamente dichiarato comunista e ora dice che voterà
Borgonzoni. Certo, la regione non è più quella di un tempo, quando
le elezioni erano una formalità e il Pci-Pds-Ds-Pd vinceva a mani
basse, e ha il suo bel peso il fatto che alle Regionali del 2014 a
Bonaccini sia andato un 49% del solo 38% recatosi ai seggi:
un’astensione al 62% segnala senza dubbio qualche malessere in cui
Salvini può pescare come alternativa a un sistema di potere che per
oltre 70 anni è stato incontrastato, inamovibile, capillarmente
radicato sul territorio. E tuttavia Salvini è Salvini, anche per chi
ha smania di cambiare per cambiare non sarà facile votare Lega
infrangendo il tabù etico-estetico che lo vieta. Saranno i dati
dell’affluenza
alle urne a darci un primo segno che si è temuto di qua e sperato di
là più del dovuto: tra gli emiliano-romagnoli che stavolta andranno
a votare, mentre cinque anni fa si sono astenuti, prevarranno senza
dubbio quelli cui Salvini ha placato la smania, costringendoli a
tapparsi il naso per evitare che la regione viri dal rosso al verde.
Si
tratta solo di quanto riesco a immaginare mettendo insieme i fatti e
un po’
di logica, dunque è assai probabile ch’io
sia in errore, perché oggi sui fatti è folle fare affidamento, e
ancor più è farlo sulla logica. Nella
malaugurata ipotesi che non vada come prevedo, tuttavia, a chi,
come me, ne sarà afflitto non mancherebbe una consolazione, grama
quanto si vuole, certo, ma nell’afflizione
uno si fa bastare il poco che ha a disposizione: mi consolerà il
veder così punito il cedimento alla disonestà intellettuale di
quanti – tanti – contro Salvini hanno deciso fosse legittimo
fare, «a imbroglione, imbroglione e mezzo». Mai visto tante
schifezze in nome di una buona causa, mi dirò che è giusto se ne
paghi il prezzo. Se ritieni che lo strumento della fallacia possa tornar buono a convincerti, prima che a convincere, basta che sia appena un po’ più sofisticato di quello che impugna il tuo avversario, è giusto che tu perda. Soffri e non star lì a rompere il cazzo coi piagnucolii. Se vinci, invece, comincia a calcolare gli interessi: prima o poi pagherai.
venerdì 17 gennaio 2020
Potrebbero derivarne problemi
Per
un editoriale a sua firma, apparso sul Corriere
della Sera
di sabato 11 gennaio (Il
razzismo e i suoi confini),
Ernesto Galli della Loggia è stato fatto oggetto di molte critiche,
che evidentemente aveva messo in conto, perché le rigettava in
anticipo, laddove, in chiusa al testo, faceva cenno a quell’«algido
idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza
del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di
razzismo».
Per come gran parte delle critiche al suo editoriale sono state
argomentate, si è costretti a dargli ragione, perché a muovergli
l’accusa
di criptorazzismo è parso potesse bastare quel suo aver fatto cenno
alla percezione di diversità che si può trarre dal confronto con
l’«altro»
come a «un
dato normale dei comportamenti umani»:
cosa, infatti, se non un «algido
idealismo»,
può ardire a criminalizzare ciò che è «umano»
perché «normale»
e/o viceversa?
L’argomento
è delicato e non voglio lasciar adito a fraintendimenti, quindi
chiarisco subito la mia posizione riguardo a questo aspetto, e lo
faccio avanzando un’ipotesi.
Io credo che Galli della Loggia non si sia solo limitato a mettere in
conto le critiche al suo editoriale, ma abbia anche cercato di fare
in modo che fossero tali da poter essere agevolmente, a suo parere,
rigettate come espressione di quegli «alti
principi» che
guardano all’«umanità»
e alla «normalità»
come
a «bassi
istinti».
«Alti
principi» e
«bassi
istinti»,
infatti, sono proprio le locuzioni che sceglie, virgolettandole nel
testo, per rappresentare il conflitto dal quale i primi corrono il
rischio di uscire sconfitti, sicché il suo editoriale pone una
questione fondamentalmente tattica: a una «politica
[che] è
sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato
culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la
possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di
sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate»,
è sensato opporre
solo «la
forza del tabù»?
Domanda retorica, come è ovvio, e noi sappiamo che una domanda
retorica mira sempre ad ottenere una risposta predeterminata. Se qui
chiede e ottiene il nostro «no»,
è chiaro che diventa possibile e per certi versi addirittura
necessaria una mediazione tra «alti
principi» e
«bassi
istinti»,
una terza posizione che non criminalizzi la percezione di diversità
dell’«altro»,
a patto che da essa non discendano «misure
a qualunque titolo discriminatorie».
Certo – concede Galli della Loggia – siamo in presenza di
razzismo «quando
con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la
nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con
coloro che invece la condividono»,
ma è conveniente prima che legittimo – o, a piacere, è legittimo
prima che conveniente – stigmatizzare come razzista l’«umanità»
e la «normalità»
di
quella percezione di diversità?
Altra domanda retorica. Qui la
risposta suggerita come la sola possibile è un po’
più articolata:
«denunciarla
come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento
che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene
io allora sono razzista».
Convincente? Occorre un chiarimento. Indispensabile a procedere, come
vedrete.
Quest’ultimo
virgolettato, infatti, come un altro più sopra riportato («un
dato normale dei comportamenti umani»),
sono nel corpo del testo pubblicato dal Corriere
della Sera,
ma tratti da un volume di Claude Lévi-Strauss (più propriamente da
una sua conversazione con Didier Eribon, edita in Francia nel 1988,
per i tipi di Odile Jacob, col titolo De
près et de loin),
che Galli della Loggia ha ritenuto poter addurre a incontestabile
argumentum
ab auctoritate.
In sostanza, la risposta predeterminata che qui ci era richiesta
coincideva col doveroso assenso al parere di quello che i dizionari
enciclopedici definiscono «padre
dell’antropologia».
Indispensabile, questo chiarimento, ad introdurre la
più
argomentata delle critiche all’editoriale
di Galli della Loggia, che infatti è stata prontamente mutuata da
chiunque ha avvertito che non si potesse dargli torto opponendo solo
«la
forza del tabù».
Mi riferisco a ciò che ha scritto Piero Vereni, «antropologo,
professore associato all’Università
di Roma Tor Vergata»,
come apprendo dalla homepage del suo blog, Fuori
tempo massimo:
il suo post è divenuto in breve argumentum
ab auctoritate di
chi altrimenti avrebbe dovuto accontentarsi di costruire l’ipotesi
accusatoria di criptorazzismo solo sulla base di alcune pur
infelicissime immagini prodotte da Galli della Loggia a esempio di
percezione di diversità dell’«altro»,
che in quanto espressioni di stereotipi, peraltro anche abbastanza
logori, avevano in radice il vizio della generalizzazione e del
pregiudizio («non
volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a
causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del
cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere
dei vicini di casa rom»).
Quanto sia stato letto con attenzione, il Vereni, non ha
importanza, contava che, da antropologo, potesse offrirsi ad
argumentum
ab auctoritate a
destituire di auctoritas
l’argumentum
ab auctoritate scelto
da Galli della Loggia. E in questo, occorre dire, non si è
risparmiato, perché quasi la metà delle sue 26.653 battute spazi
inclusi è spesa a dirci che quello di De
près et de loin è
un Lévi-Strauss ultra-ottantenne e semi-rincoglionito,
«rincantucciato
in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente
concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva
pensato e scritto fino agli anni Settanta»,
e che il volume stesso altro non è che «un
piccolo esercizio di furbizia editoriale, che immagino Eribon abbia
saputo sfruttare per la sua carriera accademica».
Sarà che i maldicenti pettegolezzi degli accademici sono sempre
molto più affascinanti di quelli delle shampiste, ma almeno a me il
Vereni ha dato l’impressione
di sapere il fatto suo.
Poi, però, c’è
che l’impressione
non basta, e per una
diagnosi di semi-infermità mentale, per una condanna al ludibrio per
posizioni ideologiche, è possibile venga voglia di argomenti, e uno non
ne trovi di convincenti. Però almeno trova le ragioni per le quali
Lévi-Strauss avrebbe torto, e con lui ovviamente anche Galli della
Loggia. Vale la pena darci un’occhiata.
È che entrambi hanno un errato concetto di cultura: le
attribuiscono due caratteristiche (compattezza interna e distinzione)
che non hanno e non possono avere.
«Oggi
–
scrive il Vereni – l’antropologia
culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente
distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è
meno significativo né meno distintivo per il fatto che,
oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi
nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui
considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di
porzioni di culture “altre”, senza eccezioni».
Se però è così che stanno le cose, il problema non è solo il
vecchio Lévi-Strauss: in quale opera del giovane Lévi-Strauss,
infatti, v’è
cenno a questo «continuo
culturale» che
renderebbe immotivata, se non per pregiudizio criptorazzista, la
percezione di diversità che un cacciatore nambikwara del Mato Grosso
può avvertire dinanzi a un ragioniere brianzolo e viceversa? E
allora che senso aveva calcare tanto la mano sulla vecchiaia del
Lévi-Strauss di cui si serve Galli della Loggia? Bastava dire che,
sì, sarà stato pure il «padre
dell’antropologia»,
ma poi quella è cresciuta e l’ha
ripudiato.
Ma c’è
di più. Volendo, infatti, recepire in toto la critica a un concetto
di cultura cui si attribuiscano stati d’animo
e sentimenti autonomi – in realtà solo per metonimia, perché è
evidente che questi sentimenti e stati d’animo
sono attribuiti a chi si percepisce, a torto o a ragione, in un
distinto perimetro culturale – in
che modo pensiamo di poter fare i conti con la percezione di
diversità che il cacciatore del Mato Grosso può avvertire rispetto
al ragioniere di Monza, e viceversa? Più in generale, il concetto di
cultura che il Vereni ci assicura essere quello genuino consente
ancora, chessò, a un forlivese di poter dire che un certo tipo di
cucina – bengalese o meno – non gli aggrada? Potrà scappargli
ancora di dire, d’istinto,
che trova più graziosi i genitali femminili al naturale che dopo
un’infibulazione?
Perché è chiaro che dopo la lectio magistralis del Vereni nessuno
oserà più disegnare confini netti tra cultura e cultura, ma poi può
darsi che nel «continuo
culturale»
a qualcuno possa scappare lo stesso di cogliere un «di
qua»
e un «di
là»
e dall’arco
riflesso del nostro aggiornatissimo concetto di cultura possa partire
il dardo di un’accusa
di criptorazzismo. Ho come il presentimento che potrebbero derivarne problemi.
martedì 7 gennaio 2020
Nessuno tocchi Taradash
Non
farete fatica a trovare in rete le prove dell’indefesso
impegno profuso da Marco Taradash in favore dell’istituzione
del Tribunale penale internazionale, organo giurisdizionale
fortemente voluto dai Radicali come presidio di garanzia nella
somministrazione di giusta pena, dopo giusto processo, ai
responsabili di crimini commessi in nome e per conto di stati
canaglia, altrimenti punibili solo con iniziative arbitrarie, colpi
di mano, roba più simile alla vendetta che alla giustizia. Né
farete fatica a rintracciare le iniziative che l’hanno visto in
prima linea contro la pena di morte, solidale, quando non organico,
alle storiche battaglie di un’organizzazione eloquentemente
denominata Nessuno tocchi Caino.
Vi avverto, nel cercare potrà capitare v’imbattiate pure in questo:
Qui non fate l’errore di pensare che quell’«è bastata» faccia sfregio a Caino col considerare la sua morte una bazzecola o che Taradash non abbia chiara la gravità dell’andare ad ammazzare a casa sua uno che agli iraniani era più caro di quanto negli ultimi tempi Pannella lo fosse ai Radicali. È che di tanto in tanto un tiramento mette in moratoria i principi, ma è questione di attimi, poi semmai un drone iraniano incenerisce Mike Pompeo mentre sta al barbecue nel suo giardino, e i valori tornano valori, la vita umana ridiventa vita umana, la stella polare della giustizia giusta torna a risplendere, eccetera, eccetera. Mai smesso di esser Radicale, Marco Taradash, si può chiudere un occhio su questa piccola parentesi sunnita.
[...]
La
compassione che ci muove al gesto caritatevole procede figuratamente
dal cuore, ma anche dallo stomaco. È per questo che, quando il gesto
caritatevole è solo formale, stomaco e cuore ci paiono impermeabili
alla compassione, figuratamente ricoperti di pelo, il che rivela in
quel gesto, come si è soliti dire, una «carità
pelosa».
Ogni
atteggiamento caritatevole può lasciar adito a ritenere sia
peloso,
e questo è quanto in realtà accade con quella forma assai evoluta
di carità che vediamo in atto nel cosiddetto garantismo, in cui la χάρις
dà ragione delle sue accezioni quali grazia,
rispetto,
buon ufficio,
e la caritas
non sta per elemosina,
favore
o cortesia,
ma per quel fraterno amore che dovrebbe unire tutti gli uomini in
nome, se non di Dio, della comune umanità, della pari dignità umana, ecc.: qui, in
effetti, non di rado accade che la compassione agisca in modo
discontinuo, estremamente sollecita con chi ci è amico, assai poco
con chi non lo è, per niente con chi ci è nemico (dove la diade
amico/nemico è rimpiazzabile da quelle similari quali simpatico/antipatico, vicino/lontano, ecc.).
C’è
bisogno di qualche esempio di questo «garantismo
peloso»?
Sia.
Dicembre
2016, Lotti risulta indagato per favoreggiamento e rivelazione di
segreto istruttorio nell’inchiesta
sugli appalti Consip, e c’è
chi ne chiede le dimissioni (è stato Sottosegretario alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri col Governo Renzi, sarà Ministro per lo
Sport col Governo Gentiloni quando la mozione di sfiducia sarà
votata in Parlamento nel marzo 2017). Renzi chiede e ottiene che le
forze politiche che sostengono il Governo respingano la mozione: «Si
è colpevoli solo dopo condanna definitiva».
È
lo stesso Renzi che ha chiesto le dimissioni di Alfano sul caso
Shalabayeva,
della Di Girolamo
perché indagata per presunte irregolarità nei pagamenti di una Asl
del beneventano, di Lupi per il coinvolgimento nello scandalo Grandi
opere e della Cancellieri perché si è spesa in favore di Giulia
Ligresti, lodando le dimissioni di Josefa Idem, sulla quale giravano
voci di mancato pagamento di oneri previdenziali, ma neppure era
indagata. A ciascuno la valutazione di quanto sia lungo il pelo su
quel «si è colpevoli solo dopo
condanna definitiva».
Se
quanto fin qui detto può aver chiarito, mi auguro, qualcosa riguardo
al «garantismo peloso»,
resta senza spiegazione cosa sia il «giustizialismo
peloso» che,
meno di un mese fa, Renzi ha stigmatizzato nel corso di un suo
intervento al Senato, tutto teso a esprimere quanto fastidio gli
avesse dato che qualche magistrato mettesse naso nei movimenti sul
suo conto corrente che, per legislazione vigente, la sua banca era
tenuta a comunicare all’Ufficio
antiriciclaggio della Banca d’Italia:
«Massimo
rispetto per la magistratura –
diceva – ma
diritto e giustizia sono una cosa diversa dal giustizialismo peloso».
Che potrà essere mai? Su quale organo, qui, può figuratamente
immaginarsi il pelo? Per renderlo impermeabile a cosa, poi?
Domande
che non hanno senso, so bene, è inutile me lo facciate presente: Renzi ne è emblematico, ma che il linguaggio della politica sia da qualche tempo diventato impermeabile all’analisi logica è dato pressoché generale. Qui semplicemente dev’essersi trattato di uno dei tanti incidenti in cui incorre lo
scilinguagnolo quando si premura di essere brillante ricorrendo alla
sostituzione o all’inversione
di termini in locuzioni correnti, sennò al doppio senso offerto da
uno d’essi,
o finanche al possibile gioco di assonanza o consonanza, come efficacemente illustrato da Crozza: «Contaminarsi
per contare e sperare di non sparire. Contagiarsi per agire nell’agio
e raggirare chi conta. Contagiarsi per chi sa cogliere la forza di
Italia Viva, perché l’Italia
con Italia Viva viva ancora di Forza Italia» (Nove,
18.11.2019).
Appendice
Scrivere di getto, come mi è di abitudine, comporta qualche imperdonabile lacuna. Qui, nel caso del «garantismo peloso», omettevo di considerare la variante che non si rivela nell’intermittenza della χάρις e della caritas sublimate a rispetto dello stato di diritto, ma nella sua costanza, in vista di un ritorno di vantaggio personale. È il caso in cui pelo chiama pelo. Ma suppongo che anche qui sia necessario produrre un esempio.
Appendice
Scrivere di getto, come mi è di abitudine, comporta qualche imperdonabile lacuna. Qui, nel caso del «garantismo peloso», omettevo di considerare la variante che non si rivela nell’intermittenza della χάρις e della caritas sublimate a rispetto dello stato di diritto, ma nella sua costanza, in vista di un ritorno di vantaggio personale. È il caso in cui pelo chiama pelo. Ma suppongo che anche qui sia necessario produrre un esempio.
lunedì 6 gennaio 2020
La morte di Luigi Calabresi
«La
verità sulle questioni cruciali
appare
esclusivamente tra le righe»
Leo
Strauss
Una
premessa alla premessa
Attenzione,
il titolo di questa pagina è ingannevole!
Chiarimento
della premessa alla premessa
Mettiamo
caso andiate a teatro. Danno il Giulio
Cesare di William Shakespeare. Ci andate in compagnia di un
conoscente che sa tutto della Roma dei tempi di Cesare e
dell’Inghilterra dei tempi di Shakespeare, e che a cena, dopo lo
spettacolo, vi intrattiene in cento e cento note a pie’ di testo.
Dice che, ai tempi di Cesare, la pederastia era ampiamente tollerata
e non era affatto raro che il pederasta finisse con l’adottare il
ragazzo cui si era affezionato: «Conosciamo i gusti sessuali di
Cesare, non è da escludere che l’adozione di Bruto...». Poi passa
a Shakespeare, dice che in molti suoi sonetti sono evidenti forti
indizi di omosessualità: «Prendi il n. 20, per esempio, con quel
“Master Mistress of my passion”...». Mettiamo che torniate a
casa, andiate a letto e sogniate di Cesare, e di Bruto, e di Cassio,
e di Marco Antonio. Il fatto è che i personaggi della tragedia sono
gli stessi che avete visto qualche ora prima, ma nel sogno la vicenda
scorre in tutt’altro modo. L’indovino, per esempio, dice a Cesare
di guardarsi dalle idi di agosto, e dice proprio «agosto», il che è
del tutto inverosimile, perché, ai tempi di Cesare, «agosto» è
ancora «sestile» (lo diventerà solo una ventina d’anni dopo la
sua morte, in onore di Augusto, che peraltro in quel momento neanche
è «Augusto», ma ancora Gaio Ottavio). Cesare, poi, non viene
pugnalato, ma freddato con due colpi di pistola. Idem per l’oratio
funebris di Marco Antonio: più che aizzare il popolo contro i
cospiratori, sembra voler calmar le acque, roba del tipo «vabbè, è
andata, e certo non è stata cosa bella, non si fa, ma adesso che
vogliamo fare, un’altra guerra civile come quella dei tempi di
Mario e Silla?». Non basta, perché su tutta vicenda, nel sogno,
sentite che aleggia una pesante ambiguità, come se i moventi
dell’assassinio di Cesare fossero tutti passionali, segnati da una
sottintesa trama di relazioni omosessuali: perdutamente innamorato di
Bruto, Cassio cerca di portarlo via a Cesare; Marco Antonio, che fin
lì di Cassio è stato amante, cerca di far capire a Cesare cosa stia
accadendo a sua insaputa; Bruto non sa cosa fare, volentieri
cederebbe alle attenzioni di Cassio, però i sensi di colpa lo
frenano. Quasi un erotic thriller, diciamo, non fosse che tutto è
tanto sottinteso da poter passare per allegoria politica.
Non vi
è del tutto chiaro, vero? Perfetto, procediamo.
Mettiamo
che al risveglio vi venga voglia di annotare da qualche parte il
sogno che avete fatto, e che alla pagina decidiate di mettere un
titolo, e che La
morte di Giulio Cesare vi possa sembrare
vada bene, perché in fondo è della sua morte che avete sognato.
Però mettetevi nei panni di chi abbia a trovarsi tra le mani quella
pagina: il titolo rimanda alla Roma del 44 a.C., ma l’incipit
dà voce a un Marullo che rimanda a The Tragedy of Julius Caesar
(Atto I, Scena I); è chiaro, dunque, che la pagina rimanda alla
trasfigurazione artistica di una vicenda storica, se non fosse che
anche quella deve aver subito una trasfigurazione, perché Marullo
cita brani da Die
Geschäfte des Herrn Julius Cäsar di
Brecht; «sarà una fiction», penserà a quel punto chi legge, ma
qui sorge un problema, perché in esergo alla pagina c’è
una frase tratta da Persecution and the art of writing di Leo
Strauss, che parrebbe insinuare che la fiction sta solo nell’aver
confezionato la pagina come annotazione di un sogno, che in realtà
non avete fatto.
Niente
affatto chiaro, vero? Benissimo, procediamo.
Premessa
Quando
fu ucciso Luigi Calabresi, avevo quindici anni. A quei tempi ero
iscritto alla Fgci e, fra i sei o sette quotidiani cui la sezione del
Pci che ci ospitava era abbonata, c’era pure Lotta
Continua
(non stupisca, c’era pure Il
Secolo d’Italia,
in ossequio al principio che «il
nemico va studiato»),
sulla quale, qualche giorno dopo quell’omicidio, lessi che doveva
essere inteso come «un
atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di
giustizia».
La cosa mi colpì particolarmente (si tenga conto ai quei tempi
ancora non s’era inaugurata la stagione di caccia al servitore
dello Stato, che di lì a poco avrebbe visto in gara estremisti di
destra e di sinistra a chi di più riempiva il carniere), perché, in
buona sostanza, ci leggevo la fierezza del boia. Un
boia molto sui generis, ovviamente, perché quando ti senti
avanguardia degli «sfruttati», fai tua la loro «volontà
di giustizia»,
additi in un tizio il loro «nemico», e scrivi «gli
siamo alle costole», «dovrà rispondere di tutto», «di
questi nemici del popolo vogliamo la morte» (Lotta Continua,
6.6.1970), non c’è
bisogno che tu lo sia materialmente.
Impressione,
questa, che non sono mai più riuscito a rimuovere nei decenni
trascorsi fin qui, e che, pur nella convinzione che le responsabilità
penali di quell’omicidio
siano state attribuite a Sofri, Pietrostefani e Bompressi in modo
assai opinabile, quelle morali e politiche, una volta tanto
coincidenti, fossero tutte da ascrivere a Lotta Continua, come
d’altronde,
seppur decenni dopo, gli stessi dirigenti della formazione politica
si dichiararono disposti a concedere. Che Calabresi avesse ucciso
Pinelli, sia chiaro, era un fatto che a quei tempi non era solo Lotta
Continua a dar per certo – a tratteggiare il contesto basta pensare
a un film come Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto
(Elio Petri, 1970) e a una commedia come Morte accidentale di un
anarchico (Dario Fo, 1970) – e tuttavia nessun altro in quella
vicenda ebbe ad arrogarsi, insieme, il ruolo di pubblico accusatore,
di giudice e, se non proprio di boia per quanto già detto, di suo
mandante. Da un quindicenne, però, capirete, non si può pretendere
troppa finezza di distinguo.
Uscito
da quegli anni, teatro di mille altre nefandezze, quella rimaneva un
chiodo fisso, al quale appendevo via via tutto ciò che se ne diceva
e scriveva. Poi, un giorno, quando già da un pezzo Sofri e Bompressi
erano in carcere e Pietrostefani in Francia, mi ritrovai a parlarne
con Bordin, uno che della sinistra extraparlamentare degli anni ’70
era più esperto di quanto Mommsen lo fosse della Roma del 44 a.C.,
però con quel di più di conoscenza «minuta» sulla quale la
storiografia ha saputo darci lumi solo da Bloch in poi. Nella
Römische
Geschichte,
infatti, non troverete traccia di cosa usassero i romani al posto
della carta igienica, né ne L’orda
d’oro
di Balestrini e Moroni chi fosse il miglior pokerista
dell’avanguardia proletaria. Bordin, invece, sapeva tutto di tutti, e
alla terza grappa era un fiume in piena. Il fesso che sta a
sentinella del buonsenso li avrebbe definiti pettegolezzi, fatto sta
che quegli incredibili ritratti umani e quelle ancor più incredibili
vicende personali davano modo di comprendere il «method» di tutta
quella «madness», sicché sembrava di poter cogliere il cosiddetto
«fattore umano» dei cosiddetti «anni di piombo», e –
voilà! – perdeva senso chiedersi se Barbone avesse ucciso Tobagi
perché manovrato da qualcuno che lavorava al Corriere della Sera o
perché pensava che quell’omicidio gli avrebbe fatto maturare
credito per diventare un capocolonna delle Br: «Lasci da parte il
“perché”, Castaldi, e guardi il “chi”: si “pente” due
minuti dopo l’arresto».
Così
sull’omicidio
Calabresi. Sarà stato nel 2005 o nel 2006, non l’ho
annotato, ma di certo era estate, perché nella bella stagione uno
dei ristoranti dove eravamo soliti pranzare piazzava una mezza
dozzina di tavoli nel suo cortile interno coperto da un bel pergolato, dove era possibile fumare, e ho
ben chiaro il ricordo che in quell’occasione
fossimo all’aperto.
Poi c’è
che ogni volta che ci incontravamo ero solito portargli in dono un
libro, ma solo per imbarazzarlo, perché di regola erano del tutto
astrusi ai suoi interessi ed era delizioso vedere la sua reazione al
mio «è un classico, ma sono certo che le manca». Giacché la volta
prima, al Momo di Leon Battista Alberti, mi aveva detto: «Questi non
sono doni, sono accuse di ignoranza», quel giorno gli porsi l’opera
omnia di Spinoza dicendo: «Guardi come la copertina di questo
Meridiano si intona bene alla sua giacca». Una delle sue peggiori
giacche, occorre dire, però d’un
celestino decisamente estivo. E visto che fu proprio da Spinoza che
partì la discussione, cioè, per meglio dire, la sua lectio
magistralis sul caso Sofri, sì, si era in estate o sarà stato
tutt’al
più maggio o settembre, agosto certamente no, perché ad agosto non
ci incontravamo mai.
Mi
sto perdendo nei dettagli, vero? Ok, salto Spinoza e arrivo subito a
quelle nove o dieci frasi dette nello stile terso e vivace che lo
rendevano tanto amabile.
«È
un errore pensare che gli omicidi degli Anni di piombo siano stati
ideati da menti diaboliche. Rammenta cosa ha scritto Massimo Fini
poco tempo fa in quell’articolo
che ha fatto tanto incazzare Oreste Scalzone? Riuscita l’analisi
del contesto, ma il fatto che anche lui creda a Leonardo Marino...
Inconcepibile! Delitti come quello di Calabresi si spiegano in modo
assai più semplice. E direi che è proprio questa semplicità che li fa
tragici. La cosa non deve essere stata poi tanto diversa
dall’omicidio Pecorelli, solo che in quel caso Andreotti può aver
detto “O.P. sta a ròmpe er cazzo”,
mentre Lotta Continua ha scritto “Calabresi è un assassino e
pagherà”. Un cretino, uno zelota, un picciotto che vuole diventare
capomandamento – non ha importa cosa – si sente investito di un
mandato, e Andreotti e Sofri di botto diventano mandanti? Cazzate. A
mio modesto avviso, a uccidere Calabresi è stato un militante di
Lotta Continua che faceva parte del servizio d’ordine,
ma non a Milano...».
E
qui fece un nome, ma, subito pentito d’averlo
fatto, aggiunse: «Si tratta solo di un’ipotesi,
ovviamente». E non sembrò bastasse, perché seguì: «Conto sul
fatto che lei dimentichi quel che ho detto». Risposi: «Proverò. In
caso contrario potrà sempre dire che me lo son sognato: lei gode di ottima reputazione, io no».
Materiali
e metodo
«La
persecuzione dà luogo a una particolare tecnica letteraria, in cui
la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le
righe. Questa letteratura è indirizzata non già al lettore
qualunque, bensì esclusivamente al lettore fidato e intelligente. Ha
tutti i vantaggi della comunicazione privata (di raggiungere, cioè,
soltanto i conoscenti dell’autore);
gode i vantaggi della comunicazione pubblica, senza sottostare al suo
svantaggio più rimarchevole (cioè, la pena capitale per l’autore).
Ma come è possibile inverare, pubblicando i propri scritti, un tale
miracolo: quello, cioè, di parlare a una minoranza restando però
muti per la maggioranza dei lettori? […] Tono tranquillo, senza
dare spettacolo e, anzi, perfino un po’
annoiato, in modo tale da ottenere un effetto di assoluta naturalezza
[…] Abbonderebbe in citazioni e attribuirebbe una importanza
spropositata a dettagli insignificanti […] Ma una volta arrivato al
cuore dell’argomentazione,
allora scriverebbe tre o quattro frasi in quello stile terso e vivace
che è in grado di attrarre l’attenzione
di chi ama pensare» (Leo Strauss – Persecution
and the art of writing).
«Nella
copia che Bach inviò al re, sulla pagina che precede il primo foglio
di musica, c’era
la seguente scritta: “Regis Iussu Cantio Et Reliquia Canonica Arte
Resoluta”» (Douglas Hofstader – Gödel, Escher, Bach: un’Eterna
Ghirlanda Brillante).
Sviluppo
L’ultimo
scorcio del 2019 ci ha offerto su Il Foglio un interessante
battibecco tra Adriano Sofri e Giampiero Mughini sul dettaglio che ha
avuto ruolo centrale lungo tutto l’iter
processuale esitato in via definitiva con la condanna di Sofri e
Pietrostefani come mandanti e di Bompressi come esecutore,
in concorso con Marino: il 13 maggio 1972, al comizio in conclusione
al quale sarebbe stato mandato a Marino, piovve, non piovve o prima
piovve e poi spiovve? Interessante per modo di dire, perché, con
tutte le incongruità di cui son state infarcite le versioni date da
Marino, è incredibile che sia ancora questo il punto ritenuto
decisivo, a fronte del fatto che Pietrostefani non era a Pisa il 13
maggio, come invece a lungo sostenuto da Marino, e molto
probabilmente Bompressi neppure era a Milano il 17 maggio, tanto più
che alla guida dell’auto
con la quale il riccioluto Marino affermava di aver condotto
Bompressi in via Cherubini più d’un
testimone riferiva di aver visto un tizio dai capelli lunghi e lisci,
forse una donna, mentre al posto di un Bompressi dai capelli scuri,
dalla pelle olivastra e alto quasi un metro e novanta c’era
un sempronio dalla carnagione chiara, coi capelli di color castano
chiaro, alto intorno al metro e settantacinque. Anche
in questa occasione, d’altronde,
Sofri ribadisce che «la pioggia non era affatto un motivo per
sostenere che io non avessi incontrato il mio accusatore»: poteva
averlo
incontrato, certo, ma questo non provava che gli avesse conferito il
mandato di uccidere Calabresi.
Un
processo costruito tutto sulle dichiarazioni di un pentito
manifestamente inattendibile, costretto a rettificare di continuo le
innumerevoli contraddizioni della sua versione iniziale con
aggiustamenti ancor più contraddittori, senza mai riuscire a offrire
dati di riscontro certi, sennò offrendone di risibili. E questo a voler
sorvolare sulla genuinità degli scrupoli morali che egli diceva
fossero ragione del suo pentimento, e ancor più su come i suoi
ricordi furono rappezzati alla meno peggio in una caserma dei
carabinieri a confezionare un’ipotesi
accusatoria che poteva reggere solo a volergli credere comunque,
qualsiasi cosa dicesse. Non era il caso di invocare lo stato di
diritto, bastava appoggiarsi alla sola logica e i tre andavano
assolti. E invece furono condannati.
Come
fu possibile? Qui un accanito anticomplottista come Bordin ipotizzava
un complotto. Semplifico, ovviamente, perché lui era in grado di
porgere l’ipotesi
in modo assai più elegante: Sofri era vicinissimo al Psi, in
particolare a Martelli; tra Pci e Psi si andava a preparare uno
scontro senza esclusioni di colpi che avrebbe visto il culmine in Mani pulite; la magistratura era schierata
quasi tutta col Pci; e poi Sofri era una pedina da sacrificare senza
farsi troppo scrupoli perché «antipatico», come finì per farsi
scappar di bocca pure il pm che sosteneva l’accusa
al processo d’appello
del 1990. Dell’ipotesi
di Bordin solo quest’ultimo
punto mi è sempre sembrato solido e – so bene che sto per fare
un’affermazione
scandalosa – perfino sufficiente, qui in Italia, a maldisporre un
giudice alle ragioni della difesa. Quindi, di là dal fatto che a
qualcuno Sofri sarà simpatico e a qualcuno no, non sarà superfluo porsi
il problema di quali fossero gli elementi che potessero generare
questa fatale antipatia. Qui torna utile l’articolo
di Fini cui faceva cenno Bordin.
«Negli
anni Settanta tutta l’“intellighentia”
italiana si era spostata all’estrema
sinistra. Non c’era
intellettuale, scrittore, giornalista (con l’eccezione
di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da
terza pagina del Corriere, mondana, mignottina da salotto che non si
dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali,
aveva seguito l’onda.
Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del
Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di
Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande
maggioranza, “figli di famiglia”, erano figli suoi e se li
coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni
non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere
scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una
rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo […] Del
resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una
vittima al giorno e altre ne “gambizzava” come si diceva allora
con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto
Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono “né con lo Stato né
con le Br”. [...] La magistratura non poteva indagare nella
galassia dell’estremismo
extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dall’unanime
coro della “montatura”, della “provocazione”, del
“complotto”. Le piste dovevano essere sempre e solo “nere”.
[…] Persino per l’omicidio
Calabresi si preferì imboccare la strada delle “piste nere” e
perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San
Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta
Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente,
l’assassinio
e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di
destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da
tutto l’ambiente
di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di
Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che
bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo
Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto
tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio,
aveva un “livello illegale” che si occupava quantomeno di far
delle rapine, per finanziare, oltre che con gli “espropri
proletari”, il gruppo. [...] Ma al processo Sofri, Pietrostefani e
Bompressi negarono anche l’esistenza
del “livello illegale”, anche l’evidenza,
e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono
creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti».
Si
può essere d’accordo
o no con questo spaccato sociologico, di fatto, dopo la Marcia dei
Quarantamila del 1980 e dopo il referendum sulla scala mobile del
1985, il clima cambia di colpo, l’anelito
rivoluzionario accusa un repentino riflusso, e – prosegue Fini – «questi
rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a
gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare
battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a
casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro
figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a
telefonare alle loro amiche per organizzare feste in qualche bella
villa, [...] non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro
imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori,
i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono
degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno
nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre
ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione
adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili
costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente
distribuiti fra destra e sinistra».
Comprensibile
che questo fosse intollerabile per chi non poteva digerirli prima, ma
ancor più comprensibile che questo generasse risentimento, per
esempio, in un Marino, che non era riuscito a riciclarsi come un
Liguori, un Panella, un Deaglio, un Guarini, un Capuozzo, un
Miccichè, un Vincino, tutti un tempo lottacontinuisti come lui. Ben
lungi da essere un dato di riscontro oggettivabile, dunque,
l’«antipatia»
di Sofri bastava e avanzava per chiamarlo a pagare in nome e per
conto di tutti quelli che lo avevano avuto a leader carismatico. Può
far orrore, anzi, deve, ma, al pari della «giustizia proletaria»
che non riuscì a trovare altra forma che quella della vendetta per
chiudere i conti con la morte di Pinelli, floppando, anche la «giustizia
borghese» non trovò di meglio per chiudere i conti con la morte di
Calabresi, con un altro flop: la responsabilità morale e quella politica dovevano
coincidere con quella penale, Marino dove esser creduto, perché,
seppure quel 17 maggio 1972 in via Cherubini non c’erano
stati lui e Bompressi, qualcun altro c’era
stato, e il mandato non gli era stato dato a Pisa quattro giorni
prima, ma comunque da Sofri, dalle pagine di Lotta Continua. Ma
ripeto: può far orrore, anzi, deve.
Annotazione
di un sogno
Tornato
a Napoli, quella notte sognai. E sognai chi a pranzo Bordin mi aveva
detto fosse per lui il vero assassino di Calabresi. Mi fissò coi suoi occhi azzurri e disse: «Gli
hai creduto? Sbagli».
venerdì 27 dicembre 2019
Inter caecos regnat strabus
Un
saggio di quanto in realtà siano ignoranti quelli che nel cortile di
casa nostra fanno i pavoni aprendo a ventaglio la coda della loro
molto millantata cultura ci è offerto dall’estasiato
coro di elogi cui essi hanno dato vita a sentire che Boris Johnson –
ne cito uno a caso – «sa
a memoria, e sa recitarlo, quasi un intero capitolo dell’Iliade
di Omero»
(Giuliano Ferrara – Il
Foglio,
27.12.2019).
Se si può sorvolare sul fatto che l’Iliade
non
sia composta di «capitoli»,
ma di «libri»
(ventiquattro, per l’esattezza),
e che del primo l’eccentrico
premier inglese ha declamato («recitato»
è termine improprio per un poema epico) solo una trentina dei suoi
611 versi, credo sia imperdonabile non aver fatto caso al fatto che
ha saltato l’ottavo
(«Τίς
γάρ σφωε θεῶν ἔριδι ξυνέηκε μάχεσθαι;»)
e il quindicesimo («χρυσέῳ ἀν σκήπτρῳ, καὶλίσσετο πάντας
Ἀχαιούς»),
che nel testo non hanno funzione incidentale, ma reggono il senso di
quanto segue. Se non bastasse questo a dimostrare che Boris Johnson
si è limitato a ripetere, e male, quanto gli è stato fatto imparare
a memoria da quindicenne all’Eton
College – la pratica è stata in uso anche nei nostri licei almeno
fino ai primi anni Settanta, e a chi di noi, che oggi abbia i
cappelli bianchi, non è rimasta in testa una dozzina di versi
dell’Eneide?
– si segua il video che lo mostra prodursi nella performance
che tanto ha fatto scalpore, ma avendo sotto mano il testo originale
in greco antico: dal ventesimo verso in poi la memoria zoppica
vistosamente, sicché Agamennone parla come da ubriaco. Poteva
fermarsi prima, ma lo studio televisivo che lo ospitava era
manifestamente preso dall’esibizione,
e dunque ha proseguito, show
must go on.
Questo
è bastato a far di Boris Johnson, qui da noi, un pilastro della
cultura occidentale. E dove più che altrove ha fatto colpo questo
malrattoppato residuo di mnemonica liceale? Un aiutino? Si tratta
della redazione del giornale che pretende il finanziamento pubblico
in virtù dell’essere
il più colto e intelligente di quelli oggi in edicola: «Lo
dico da circa due anni che Boris Johnson è colto e raffinato»
(@AnnalisaChirico);
«Ha
recitato l’Iliade in greco antico. È quello che intendo almeno io
per “Occidente”»
(@giuliomeotti).
È
proprio vero, «inter
caecos regnat strabus»
(Erasmo
da Rotterdam, Adagia)
, che, tradotto dal latino, sta più o meno per «non
ti sputo ché t’improfumo»
(Antonio
Albanese,
Qualunquemente).
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