Già due o tre volte, su queste pagine, ho scritto che, a mio modesto avviso, il termine «falsificabilità» può generare gravi fraintendimenti in luogo della «Fälschungsmöglichkeit» che Karl Popper formula come criterio per separare l’ambito delle teorie assoggettabili al metodo scientifico da quello delle teorie che non lo sono, e tuttavia non ho mai compiutamente argomentato sul perché. È quanto mi riprometto con questa pagina, che giocoforza mi rimanda a Logik der Forschung, l’opera di Popper in cui la «Fälschungsmöglichkeit» fa capolino per la prima volta fin dalle prime pagine (I, 4), e proprio come elemento per stabilire una demarcazione (Abgrenzungs) tra i due ambiti.
In quale campo si muovono le teorie non assoggettabili al metodo scientifico, se quelle che invece lo sono si muovono in quello «empirico»? Popper lo chiama «metafisico». Senza sapere perché ricorre a questo termine, la cosa avrà senz’alcun dubbio il sapore di una semplificazione un po’ troppo grossolana: forse che le teorie formulate nell’ambito della cosiddetta soft science, che include scienze umane, come la psicologia, e quelle sociali, come l’economia, prescindono da qualsiasi dato empirico? No, di certo. Pretendono, per caso, lo statuto di scienza della «natura ultima e assoluta della realtà» (Treccani), che è quello della metafisica propriamente detta? Men che meno. E come possiamo, allora, considerare «metafisiche» le teorie di Freud o quelle di Marx? Come possiamo considerare «metafisiche» le costruzioni di Wittgenstein, Weber, Schmitt, Kelsen e Saussure? La loro, certo, non sarà una hard science, come invece lo sono la chimica o la fisica, ma questo ci consente di definire «metafisico» il campo in cui si muovono le loro teorie? In modo propriamente detto, no. D’altronde pare che anche Popper senta inadeguato il termine, perché in due o tre punti lo mette tra virgolette. E allora perché vi ricorre?
Perché vi è costretto dalla polemica che lo oppone ai positivisti. Questi ritengono che sia il metodo induttivo a caratterizzare le scienze empiriche, ma Popper non è d’accordo, perché, «per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi» (I, 1). Più in dettaglio: «Di solito i positivisti interpretano il problema della demarcazione […] come se si trattasse di un problema di scienza naturale. […] Essi credono di aver scoperto, tra scienza empirica da un lato e metafisica dall’altro, una differenza che esiste, per così dire, nella natura delle cose. Tentano costantemente di provare che per sua stessa natura la metafisica non è altro che una chiacchiera insensata […] Se con le parole “insensato” o “insignificante” non vogliamo esprimere nient’altro [...] che “non appartenente alla scienza empirica”, allora la caratterizzazione della metafisica come non-senso insignificante è assolutamente ovvia […] Ma [...] i positivisti credono di poter dire, intorno alla metafisica, molto di più che non che alcune delle sue asserzioni sono non-empiriche. […] Ciò che i positivisti vogliono veramente non è tanto una efficace demarcazione quanto piuttosto lo scalzamento e l’annichilimento definitivi della metafisica […] [E tuttavia] ogni qual volta i positivisti hanno tentato di dire con maggior chiarezza che cosa significhi “significante”, il loro tentativo ha condotto allo stesso risultato [e cioè] a una definizione di “enunciato significante” (distinto da “pseudo-enunciato insignificante”) che reiterava il criterio di demarcazione della loro logica induttiva. […] Ciò mostra come il criterio induttivistico di demarcazione non riesca a tracciare una linea di divisione tra sistemi scientifici e sistemi metafisici. […] Invece di sradicare la metafisica dalla scienza empirica, il positivismo conduce all’irruzione della metafisica nel dominio della scienza» (I, 4). E poco oltre: «Il problema di demarcazione inerente alla logica induttiva, e cioè il dogma positivistico del significato [da segnalare il fatto che lo definisca «dogma»], è equivalente alla richiesta che tutte le asserzioni della scienza empirica (ovvero tutte le asserzioni “significanti”) debbano essere [...] passibili di una decisione conclusiva riguardo la loro verità e falsità» (I, 6). Ma come può essere conclusiva l’asserzione che «tutti i cigni sono bianchi», cui mi ha condotto la logica induttiva, quando anche un solo cigno nero la smentisce? E cosa mi rivelerà che un sistema empirico di osservazione dei cigni è veramente scientifico o no? «Per essere scientifico, un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza» (I, 6); e qui è da segnalare che, dove il corsivo intende dare rilevanza al testo, Popper non scrive «falsificato» (gefälscht), ma «confutato» (widerlegt).
Ma il reale senso da dare alla popperiana «Fälschungsmöglichkeit» appare ancor più evidente nel punto in cui si fa distinzione tra «falsificabilità e falsificazione» (il virgolettato dà titolo al paragrafo che tratta la questione – IV, 22), dove leggiamo: «Dobbiamo fare una netta distinzione tra falsificabilità e falsificazione. Abbiamo introdotto la falsificabilità soltanto come criterio per stabilire il carattere empirico di un sistema di asserzioni». Ciò che tuttavia rende solare, di là da ogni dubbio, che la teoria «falsificabile» non debba intensa come teoria «che si può falsificare», ma come teoria «passibile di essere confutata», è il passaggio della Prefazione all’edizione italiana (Penn, Buckinghamshire, marzo 1970) in cui Popper scrive: «Non c’è induzione: il nostro ragionamento non procede mai da fatti a teorie, se non per confutazioni o “falsificazioni”», dove «o» sta per «ovvero», «ossia», e dove il termine che si avverte possa essere frainteso è messo tra virgolette. Poche righe più in basso, d’altra parte, il termine riappare, e stavolta è in corsivo e contrapposto a «verificazione», che di certo non sta per «inverare», ma per «confermare», «comprovare», «riscontrare»: è consentito inferire che, come la «verificazione» presume di comprovare la verità di una teoria, non già di renderla vera, così la «falsificazione» di una teoria non sta nell’adulterarla, ma nel dimostrare che è confutabile. Per inciso, occorre rilevare che la tesi illustrata da Logik der Forschung è già in nuce nella famosa lettera di Albert Einstein a Max Born di otto anni prima (4 dicembre 1926), in cui si legge: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione, ma un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato».
Per chiudere questa premessa, che ritengo indispensabile per avvicinarsi al reale senso di un termine chiarendo il contesto in cui compare per la prima volta a designare un concetto fin lì inedito, ritengo utile segnalare che la «Fälschungsmöglichkeit» che troviamo in Logik der Forschung (1934) diventa la «falsification» che troviamo in The Logic of Scientific Discovery (1959) solo a un quarto di secolo di distanza. Nella Nota dell’autore alla traduzione inglese leggiamo: «La traduzione fu preparata dall’autore con l’aiuto di Julius e Lan Freed»; e i nomi dei due fratelli co-traduttori ritornano nei Ringraziamenti in coda a Realism and the Aim of Science from the Postscript to the Logic of Scientific Discovery, che è del 1956, dove si esprime loro gratitudine per aver «dato moltissimi suggerimenti per migliorare lo stile», mentre una nota dell’editore, tra parentesi, avverte: «Sono morti entrambi molti anni prima della sua pubblicazione». Molti anni prima del 1956, dunque.
Ora Popper arriva nel Regno Unito nel 1946 dalla Nuova Zelanda, dove ha riparato nel 1937 in seguito all’avvento del nazismo; nel Regno Unito ha però già stazionato per qualche tempo, tra il 1935 e il 1936, per un ciclo di conferenze. Si può ragionevomente desumere che la traduzione in inglese di Logik der Forschung debba essere iniziata non più tardi del suo definitivo trasferirsi nel Regno Unito, e che i fratelli Freed abbiano potuto assisterlo per due, tre, al massimo quattro anni. Sta di fatto che nella sua «autobiografia intellettuale», in The Library of Living Philosophers (1974), parlando della stesura di The Poverty of Historicism, che esce nel 1957, scrive: «Il mio primo guaio era soprattutto di doverlo scrivere in un inglese accettabile», segno che almeno per l’inglese scritto per lui rimanevano serie difficoltà a oltre vent’anni dall’essersi definitivamente stabilito a Londra. «Prima di allora – prosegue – avevo già scritto qualche cosa, ma dal punto linguistico era scritto veramente male». Ma «prima di allora» aveva tradotto dal tedesco all’inglese la sua Logica della scoperta scientifica, e con l’aiuto dei Freed: «scritta male» anche quella? E per quale difficoltà intrinseca legata alla diversa natura delle due lingue? Il problema, per esempio, era più sintattico o lessicale? Soprattutto lessicale, a quanto pare: «Nessun lettore tedesco, per esempio, bada ai polisillabi. In inglese, invece, si deve imparare ad averne repulsione». Un polisillabo come «Fälschungsmöglichkeit» può aver dato qualche problema di resa in inglese? Sarebbe stato possibile renderlo con una perifrasi, certo, ma doveva esprimere un concetto cardine della tesi popperiana: era necessario fosse reso da una sola parola. La «possibilità» che in tedesco è espressa da «-möglich» riesce ad essere adeguatamente espressa in inglese da «-able»? E allora, via, «Fälschungsmöglichkeit» diventa «falsifiability». Ma, una volta che avrò dimostrato «falsch» una teoria, sarò stato io ad averla «gefälscht»? Certo che no. Potrò dunque dire che l’ho «falsified» se non ho fatto altro che dimostrarla «false»? Altrettanto certamente, no. Qual è il senso che allora devo dare all’affermazione che, per esser veramente tale, una teoria scientifica deve (poter) essere «falsificabile»? Non c’è dubbio: deve (poter) essere inficiabile, confutabile, smentibile. Ma quanto è inficiata, confutata, smentita, dirla «falsificata» non implica che qualcuno l’abbia adulterata ab initio? Quando, poi, un brav’uomo come Mario Trinchero, incaricato dalla Einaudi di tradurre in italiano The Logic of Scientific Discovery, prova ad essere quanto più fedele possibile a un testo inglese tradotto con qualche affanno dal tedesco, cosa volete che ne possa venir fuori?
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Difficile stringere tutto questo nei 280 caratteri di un tweet, ma ci ho provato, e a commento della segnalazione che Antonio Polito ha fatto del suo articolo sul Corriere della Sera di martedì 24 novembre (Serve la fiducia per costruire una comunità: anche sui vaccini), nel quale scriveva che «nel campo della scienza, ce l’ha insegnato Popper, non si può mai dire una volta e per sempre che un’affermazione sia vera, ma si può sottoporla a così tanti e severi tentativi di falsificazione da poterlo ragionevolmente presumere», ho twittato: «So che lo fanno tutti – la mia è una battaglia persa in partenza – ma tradurre la popperiana “Fälschungsmöglichkeit” con “falsificabilità” ingenera notevoli fraintendimenti: si tratta di “inficiabilità”, i dati scientifici sono inficiabili (quando falsificati, è truffa)». In prima battuta, mi ha risposto: «Hai ragione», ma poi la discussione è proseguita in privato. Qui mi ha fatto presente che «dimostrare falsa una teoria è qualcosa in più che inficiarla», al che ho risposto che «inficiarla significa dimostrare che non è valida» (sul piano della fondatezza fa qualche differenza tra «falso» e «invalido»?) e che «dire che una teoria è “falsificabile” implica che può nascere intenzionalmente falsa ab initio, mentre dire che è “inficiabile” implica che a posteriori se ne può dimostrare la non validità». Allora mi è stato proposto un compromesso: «“Fallibilità”: più di “inficiabilità”, meno di “falsificabilità”». Potevo rifiutare l’offerta di un gentiluomo?