domenica 3 gennaio 2021

Vent’anni dopo

 



Stavo qui a leggere questo splendido volumetto della Quodlibet – La situazione della scienza giuridica europea di Carl Schmitt – e a prendere appunti per scriverne qualcosa su queste pagine, quando mia moglie è entrata col vassoio – spremuta darancia, caffè, Losartan per la pressione, Cholecomb per il colesterolo – e parodiando il Buck Malligan dellUlisse di Joyce – ogni domenica mattina è così, va avanti da almeno due o tre anni – ha detto: «Introibo ad altare Dei», al quale mi tocca prontamente rispondere, e guai a me se non lo faccio: «Stately, sì, my darling, ma niente affatto plump!». Ricevuto il consueto bacio per il così estorto complimento alla sua invidiabile linea, di solito va via, per farsi viva solo due o tre ore dopo, di solito per mandarmi in giro a fare commissioni. Non oggi. Oggi, posato il vassoio, si è accesa una sigaretta, sè sdraiata sul divano e mha detto: «Oggi fanno giusto ventanni, ricordi?». Qui sono andato in panico, perché scordarsi di un anniversario, qui da noi, è colpa che impone durissima punizione. Un ventennale, poi. Tremando un po, ma pronto a espiare quello che cera da espiare, ho chiesto: «Cosè accaduto il 3 gennaio del 2001?». «Non hai un grammo di sensibilità», mi fa, che detto da una Capricorno a un Cancro, capirete, potrebbe pure far sollevare qualche obiezione, ma qui ero in difetto, e ho taciuto. «Il 3 gennaio 2001 – fa – abbiamo preso Evaristo». Giusto, cazzarola, come ho potuto scordare Evaristo? Forse ha ragione lei, sono proprio una bestia. Evaristo è stato un momento cruciale della nostra vita, al punto da poter parlare di un «prima di Evaristo» e di un «dopo di Evaristo»«a.E.» e «d.E» – e io che faccio, dimentico quando è entrato in questa casa?

Il mio lettore – comprendo – si starà chiedendo chi sia Evaristo: è giusto dargli una risposta, ma è necessaria una premessa. Mia moglie è solita dare un nome agli oggetti che acquistiamo, probabilmente è un modo per sentirli veramente suoi, non ho mai voluto approfondire la questione, perché la convivenza è fatta innanzitutto di rispetto e di delicatezza per le manie, i tic, le fissazioni di chi ti sta accanto giorno e notte, sennò alla lunga non funziona. Così, puoi tranquillamente mandare a cagare un Mantellini che degli oggetti scrive che «ci rimangono accanto per anni... improvvisamente scompaiono dalla nostra vista... non sappiamo se ci hanno abbandonato per sempre, se torneranno, se là dove sono ora mantengono qualcosa di noi...», ma con una moglie come fai? Non puoi, via, daltronde mia moglie non pretende che questo suo modo di sentire gli oggetti le conferisca qualità particolari, tanto meno una qualche superiorità intellettuale e men che meno morale: quando dice «non hai un grammo di sensibilità», si capisce che si schermisce. Mantellini no, Mantellini è convinto che luniverso delle sue manie, dei suoi tic, delle sue fissazioni stia in cima alla piramide dei sentimenti, della morale, della cultura, e in quel fortino sta asserragliato, scagliando dai bastioni i suoi lamenti e le sue invettive sui barbari che ritiene lo stiano assediando. Ricordate la Maria Elena Boschi che piangeva allindomani delle elezioni politiche del 2018, «non per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di educazione e di civiltà» (la Repubblica, 6.3.2018)? Stessa cosa, ma il Mantellini si ritiene più sexy.

Ma dove eravamo rimasti? Ah, sì, a Evaristo. Bene, Evaristo è il primo pc entrato in questa casa, e rammentarmi che oggi ricorre il ventennale di quellevento per mia moglie ha significato particolare, perché fa link con tutte le mie irrevocabili decisioni puntualmente revocate, in primis con quella che presi entrando nella casa dove ho traslocato dopo la separazione dalla mia ex moglie: «Qui nessuna donna dormirà per due notti di seguito». Decisione revocata dopo meno di un anno: «Perché non vieni a vivere qui?», chiesi a Brunella. E lei disse di sì. Il retropensiero era: «Io ne ho un po meno di 43, lei ne ha un po’ più di 20: quanto può durare?». Più di quanto prevedibile, è evidente. Così con Evaristo: «Sia chiaro: in questa casa non entrerà mai un computer!»; e quattro mesi dopo gliene regalavo uno a Natale, le era indispensabile per studiare; per lanciargli uno sguardo torvo ogni volta che gli passavo davanti, anche quando era spento; per poi, un giorno, sedermi alla tastiera e cominciare, come si diceva allora, a «navigare».

Sono arrivato relativamente tardi al web, dunque, questaltro ventennale dovrebbe chiudersi a giorni, il che fa capire quale sia la durata media delle mie irrevocabili decisioni. La cifra tonda dovrebbe spingermi a raccontare, così si usa, ma onestamente la voglia manca, perché per mettere mano a tutto il materiale che sè venuto ad accumulare mi ci vorrebbero altri ventanni. Potrei tagliar corto con un resoconto generico, ma, come è già accaduto, finirei per impastare le mie personali impressioni a tutto ciò che ho letto sul web da ventanni a questa parte, dalle entusiastiche aspettative che ha sollecitato nei più ingenui alle brucianti delusioni che ha riservato anche a chi non ci sperava troppo che fosse la straordinaria occasione per emancipare le masse e fin da subito metteva in guardia riguardo ai limiti, ai rischi, ai pericoli. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai fatto illusioni: il web è una realtà parallela, che in gran parte riproduce la vita di relazione che abbiamo fuori dallo schermo del pc, ma gonfiando a dismisura certi aspetti e sgonfiandone altri, con ciò apparentandosi alla pornografia rispetto al sesso, il che è evidente soprattutto nelleccessiva importanza che ci diamo quando scendiamo in questa agorà virtuale.

Qualche giorno leggevo su Il Foglio quel che Olivier Babeau diceva riguardo alla rivoluzione digitale che ha così prepotentemente segnato il nostro ingresso nel terzo millennio. Diceva – mi scuso per la lunghezza dei virgolettati, ma credo ne valga la pena – che «Internet ha tradito la sua vocazione e il suo manifesto originari. Avrebbe dovuto portare a un mondo unificato e parificato. Avrebbe dovuto cancellare le differenze. Aprendo le porte all’innovazione, alla mobilità sociale e alla comprensione, avrebbe dovuto dare a ogni azienda, individuo e paese i mezzi per la propria emancipazione e sviluppo. Che disillusione! Tutto è a portata di clic. Ma la conoscenza, ad esempio, non è facilmente accessibile. La tecnologia digitale ha abolito gli intermediari, ma ha eretto enormi barriere che tagliano in due il mondo. Abbiamo una divisione dove ci aspettavamo l’unificazione».

In quanto alla discussione pubblica: «La moderazione tanto celebrata nell’antichità, la tendenza al centro e a emarginare gli estremi stanno svanendo di fronte a uno spettacolare trionfo dell’arroganza in tutti i campi. Non è più l’eccesso dionisiaco, controbilanciato da Apollo, tanto adorato dagli antichi greci, ma l’oblio dei limiti. […] I social, concepiti come luoghi di emancipazione, diventano macchine per produrre pensiero estremo, emarginare sfumature. Le minoranze si organizzano in branchi per mettere a tacere le opposizioni. L’iper-democrazia prodotta dalla tecnologia digitale non può che portare all’altro estremo: la dittatura. I due poli si uniranno nello stesso schiacciamento del diritto di proprietà e della volontà individuale. La dittatura del Bene divorerà tutto ciò che sarà alla sua portata. [...] Non è più concepibile pronunciare un discorso contrario alla doxa. Qualsiasi dibattito viene immediatamente squalificato. Dubitare è opporsi. Mettere in discussione è criticare. I discorsi progressisti sono gradualmente diventati un arsenale che pretende di proibire ogni discorso alternativo. La polizia del pensiero pretende di governare tutto, riscrivere la storia, mettere a tacere i fatti imbarazzanti. La realtà è chiamata a piegarsi all’egemonia della morale del momento. Alla scienza viene chiesto di collaborare, confermare o tacere. Anche l’ortografia deve subire i peggiori oltraggi per diventare “inclusiva”, anche se significa sconvolgere la parola. […] Il progressismo e il suo seguito di “guerrieri della giustizia sociale” stanno preparando inconsapevolmente terribili regressioni. […] Indignazione a geometria variabile, censura in nome della libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in nome della lotta alla discriminazione. [...] Questa radicalizzazione non è il risultato naturale della dinamica egualitaria, ma il suo decadimento. L’ossessione progressista è il segnale paradossale di un esaurimento della dinamica dei diritti umani guidato dall’Illuminismo. Culminando in un’intolleranza di vedute esattamente come quella da cui secoli fa si voleva liberare l’umanità, il progressismo fanatico segna la decomposizione dell’Illuminismo anziché il suo perfezionamento».

Un po esageratuccio, il Babeau, daltronde da sempre la policy de Il Foglio recita: «Se non sono irritati e/o irritanti, non li vogliamo». Però, via, fatta eccezione per i toni, lanalisi non è tutta da buttar via. Per meglio dire: i miei ventanni di navigazione in rete mi portano a sottoscriverla, seppure con qualche riserva. Mai nutrito illusioni, però, che non dovesse andare a finire proprio così. Cioè, a essere onesto, qualche illusioncella me lero fatta, e anche qui, a rammentarmi quello che con letà fa più fatica a restare, ecco di nuovo Brunella: «Hai dimenticato quando dicevi che la blogosfera ti sembrava qualcosa tipo “La scuola di Atene” di Raffaello». «Ma chi, io?», ho provato a obiettare. «Ma sì, qualcosa del genere. Aspetta, ecco, dicevi che la blogosfera era descritta a perfezione da “Estetica” di Panella-Battisti. E non ti azzardare a smentirlo». «Dio mio, che discussioni futili, Brune, lasciami leggere, va! Anzi, guarda pure tu come sto Schmitt inizia moscio moscio, per poi arriva a spararti sulle gengive: “l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”... Senti lincipit: “Parlare di una scienza giuridica europea appare oggi, forse proprio a un giurista, inammissibile e non-scientifico. E questo non solo a motivo della lacerazione politica dell’Europa, dilaniatasi in due guerre mondiali, ma anche per una ragione formale e all’apparenza persino di natura specificamente giuridica...”». Non mi ha lasciato continuare, sè alzata dal divano e uscendo ha detto: «Hai cambiato argomento. E questo non è bello. Ti lascio a Schmitt, io vado a preparare da mangiare con Casimiro». Che poi sarebbe il Worker Bimby.



venerdì 1 gennaio 2021

Tecnica e potere / 2

 

2. Lorenzo Castellani ha ragione quando scrive che «la sofocrazia platonica implica un ruolo del sapiente, che però non è il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico». Pertinente, a tal riguardo, è la citazione di Domenico Fisichella: «Lidea di competenza si iscrive essenzialmente nella cornice e nella visione della razionalità strumentale, intesa come congruenza consapevole tra mezzi e fini, costi e benefici» (Laltro potere. Tecnocrazia e gruppi di pressione – Laterza, 1997). Tutto giusto, ma perché? Sulla base di quali elementi la competenza che Platone si intesta può essere da lui vantata come superiore a quella del tecnico? Ne Lingranaggio del potere non ce ne è data ragione, ma è ancora una volta la filologia a darcene spiegazione. Per meglio dire: la filogenesi del significato.

Se, infatti, analizziamo il significato dato a τέχνη lungo il procedere delluso che se ne fa, scopriamo che quella che in seguito diverrà tecnica, intesa come arte, mestiere, professione, e più tardi competenza in questo genere di attività, ab initio è mera capacità di τίκτειν, e cioè di un creare, di un generare, che non è molto diverso da un γέννειν o da un φύειν, per diventare quasi subito, però, un fare che implica il possesso di particolari cognizioni e di specifica esperienza: il suo prodotto non è più una naturale γένεσις, ma una artificiale ποίησις (dove artificio, che in greco infatti è τέχνασμα, sta per fatto ad arte); non lo si trova in natura, ma è un manufatto (che in greco infatti è τεχνούργημα).

Quando accade ciò? Cè un modo assai semplice per datare con buona approssimazione questa variazione duso del termine, che in buona sostanza coincide col prevalere di unaccezione sullaltra, e quindi di uno scarto nella filogenesi del significato di τέχνη: basta prendere nota degli anni in cui sono vissuti gli autori che il Rocci cita a esempio dei vari significati dati al lemma, e constatiamo che la τέχνη diventa tecnica, smettendo con ciò dessere generica capacità di τίκτειν, che fin lì è anche della gallina che fa luovo o del ramo da cui spunta il bocciuolo, quando la nasce la πόλις. Ben al di là dogni suggestione, insomma, vediamo che la tecnica – per meglio dire, il concetto di tecnica come a tuttoggi inteso – nasce per dar conto di una ποίησις che è funzionale alle esigenze della città-stato: il tecnico, che in quel momento è fabbro, falegname, vasaio, ma anche scultore, ingegnere, architetto, medico, nasce come figura a cui la πόλις assegna un ruolo che è in funzione delle sue particolari cognizioni e della sua specifica esperienza.

Nel già citato Ione di Platone abbiamo visto come questo ruolo implichi una distinzione formale – ripetiamo: «quando una τέχνη è conoscenza di determinati oggetti e unaltra è conoscenza di altri oggetti, io do ad una un nome e allaltra un nome diverso» (537 D) – che però implica una distinzione sostanziale: «ciò che conosciamo con una data τέχνη non lo conosciamo con unaltra» (537 E). Per Platone, tuttavia, è proprio il fatto che ogni τέχνη abbia un campo dazione necessariamente limitato a rendere il tecnico inadatto a guidare la πόλις, basta daltronde leggere il X libro della Repubblica per capire che la superiorità del tecnico è relativa solo al poeta: su tutto ciò che Omero dice riguardo al modo di guidare un carro, solo un auriga può legittimamente dirsi daccordo o dissentire; su ciò che dice riguardo al modo di curare una ferita, solo un medico; e così via. Parrebbe che il tecnico venga in aiuto di Platone nel momento in cui questi sta portando a termine lopera iniziata da Socrate: spodestare lintuizione poetica in favore del ragionamento filosofico, mettere lidea al posto della visione. Non è un mistero, infatti, che per Platone la poesia, e in genere ogni forma di espressione artistica, debba essere tenuta lontana dalla πόλις, perché è mimetica, e cioè manipolatrice dellidea. La sua dottrina delle idee spiega tutto, e non è tempo perso vedere quale ruolo assegni alla τέχνη, e soprattutto perché; ancor più, cosa ne consegua.

In Repubblica, X, 597 B, ci troviamo davanti a «tre letti»: uno è l’idea di letto «che è in natura e che potremmo dire, credo, che l’abbia prodotto Dio»; il secondo, invece, «è quello che ha prodotto il falegname»; mentre il terzo è «quello che dipinge il pittore»; «dunque, il pittore, il fabbricante di letti e Dio sono quei tre che sovrintendono alle tre specie di letti»; ma, mentre Dio ne è φυτουργός, e il falegname ne è δημιουργός, il pittore ne è solo μιμητής; saltando a 601 A, «così, secondo me, potremmo dire che anche il poeta si limita a ravvivare i colori di ciascuna arte, servendosi di nomi e di frasi, non però con conoscenza di causa, ma per via di imitazione». Nella storia dell’umanità è forse il solo caso in cui l’artigiano è stimato più dell’artista: come mai?

La risposta sta nella Preface to Plato (1963) di Eric A. Havelock, e vi ho già fatto cenno prima, seppure in modo ellittico: a Platone interessa spodestare lintuizione poetica in favore del ragionamento filosofico, mettere lidea al posto della visione, perché la posta in gioco è la conquista della πόλις, le cui regole, fino ad allora, sono state tramandate dalla poesia. Si può dettare legge alla πόλις solo dimostrando fallaci o addirittura empi quelli che fin lì la poesia è riuscita a imporre come modelli ideali, con ciò assumendo un ruolo politico. Di qui la necessità di dimostrare che la sua ειδωλοποιητική μίμησις è lontana dallidea molto più di quanto non lo sia lαυτοποιητική μίμησις della τέχνη. La quale, dunque, implica una competenza che il sapiente non ha: la vera competenza, anzi, è proprio la sua, perché è solo lui ad avere lεπιστήμη del letto di cui il poeta può darci solo una ειδωλοποιητική μίμησις e il tecnico solo una αυτοποιητική μίμησις. Tornando a ciò che abbiamo detto della competenza come capacità di competere, la competizione è evidente.


[segue]

martedì 29 dicembre 2020

Tecnica e potere

[In questi ultimi giorni ho letto Lingranaggio del potere di Lorenzo Castellani (Liberilibri, 2020), trovandolo per molti aspetti un libro davvero notevole, cosa assai rara in tempi che hanno ridotto la saggistica a intrattenimento. Lingranaggio del potere è un libro serio e onesto, che espone in modo chiaro una tesi e offre solidi argomenti a suo supporto. In più, è scritto bene, senza alcun cedimento a quei vanesi istrionismi e a quei ruffiani ammicchi coi quali, oggi, molti saggisti sono convinti di poterci estorcere simpatia, laddove il parlare oscuro e il citare a sproposito non sono riusciti a estorcerci deferenza. La sintassi di Castellani è limpida anche quando la frase ha una lunghezza superiore alle sette righe e mai neppure un alone di sciatteria sfiora il suo lessico: il periodare e la scelta dei termini risultano impeccabili dalla prima all’ultima delle 240 pagine del testo. Un libro, insomma, che vien subito voglia di rileggere appena lo si è letto. E che, offrendo innumerevoli spunti di riflessione, invita al commento. È quello che mi appresto a fare su queste pagine, cominciando col segnalare quella che a me pare l’unica manchevolezza di un libro peraltro di gran pregio: parlo del modo un po’ troppo sbrigativo di trattare un argomento come quello del Dove comincia la storia della tecnocrazia?, che sta a titolo del primo paragrafo (pagg. 77-79) di un capitolo, il terzo, che si ripropone di farci una pur Breve storia della tecnica in politica (pagg. 77-124). Poco più di due paginette per dar conto del dove nasce il nodo tra tecnica e politica? Per giunta limitandosi a prendere in considerazione solo Platone? Quasi certamente sarà un pregiudizio, sono disposto a concederlo, ma io ritengo che, se non la soluzione, almeno la corretta impostazione di un problema non possa fare a meno di andare alla radice dei termini coi quali esso è formulato. Anche se proprio su queste pagine di recente mi è stata pesantemente contestata, resto dell’opinione che il pensiero non possa aver altra forma che quella di linguaggio, sicché mazzardo a dire, augurandomi di non essere impiccato a questa ellissi, che il più potente strumento in mano allo studio delle scienze sociali è la filologia. Probabilmente avrò fatto indigestione di Michel Foucault...]


1. Il dolore di Achille per la morte di Patroclo mette un po’ in ombra, nel XVIII canto dell’Iliade, la comparsa dei primi robot: li ha costruiti Efesto, dio fabbro, ma anche scultore e ingegnere, e sono i venti tripodi messi a guardia della sua fucina (373-377), le due statue animate che gli fanno da ancelle (417-421) e i mantici che entrano in funzione al suo semplice comando vocale (468-469), meraviglie da lasciare a bocca aperta (θαύμα ιδέσθαι). Non stupisca, in tale contesto, l’impiego di un termine come robot che compare per la prima volta solo nel 1920, in una commedia di Karel Čapek, per diventare d’uso comune solo dopo aver avuto la consacrazione grazie a un racconto di Isaac Asimov, nel 1941: quelli costruiti da Efesto rispondono pienamente alla definizione che oggi diamo al termine, perché sono manufatti che svolgono un robota, che in ceco significa lavoro pesante, e perché la loro è rabota, che in antico slavo è servitù. Almeno per le statue animate che gli fanno da ancelle, poi, c’è che questi robot di Efesto hanno pure αυδή, cioè voce, e νόος, cioè intelligenza (419): voce e intelligenza artificiali, che in ossequio alla nouvelle vague dei mix di cultura alta e cultura bassa, potremmo dire in anticipo di una trentina di secoli su quelle dei friends di J. F. Sebastian, il genetic designer della Tyrel Corporation (Blade Runner, 1982).

È proprio ai robot di Efesto che Aristotele fa cenno nel quarto capitolo del primo libro della sua Politica (1253b, 23 – 1254a, 19) per chiudere quello successivo con limpegnativa affermazione che, «per natura, taluni sono liberi e altri schiavi» (1255a, 2): se avessero dei robot come quelli che aveva Efesto – dice – «i capi artigiani non avrebbero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi» (1254a, 1). È evidente, dunque, che il suo «per natura» (φύσει) implichi uno stato di necessità. Come per ogni azione, infatti, sono necessari una ψυχή che dia un ordine e un σώμα che lo esegua, per ogni produzione materiale sono indispensabili comandi e strumenti, e gli strumenti sono necessariamente inanimati (άψυχα), come lo è, ad esempio, un aratro, o animati (έμψυχα), come invece lo è il bue, cui l’aratro è attaccato.

Ma possiamo mettere un bue a lavorare su un telaio? Certamente, no. Qui, in attesa che un Efesto – chessò, un Joseph-Marie Jacquard (1790) – costruisca un telaio automatizzato, avremo bisogno della mano dell’uomo a muovere le spole: necessariamente mano di schiavo (δούλος), perché quale uomo libero (ελεύθερος) si sottoporrebbe volontariamente a un lavoro così duro? Già, ma cos’è l’ελευθερία che fa liberi taluni e schiavi talaltri? Ipse dice che si tratta di una condizione sociale che ricalca quella naturale, giacché forse la natura ci vorrebbe pure tutti liberi, ma non riesce a farlo, e dice proprio così: «ου μέντοι δύναται», dove il μέντοι è particella che rafforza la negazione, come a dire: «proprio non ce la fa», il che rimanda a una natura (il φύσει cui facevamo cenno prima) che si sostanzia in uno stato di necessità di cui non si può far altro che prendere atto, senza peraltro star troppo a brontolare, perché è vero che «la mente domina il corpo con l’autorità del padrone» (1254b, 5), ma «per il corpo è naturale e giovevole essere soggetto alla mente» (1254b, 7-8), come «per gli animali è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza» (1254b, 11-12), al pari di ciò che accade «nelle relazioni tra maschio e femmina, giacché per natura l’uno è superiore e l’altra inferiore» (1254b, 13-14). Ugualmente giusto, perché ugualmente necessario, che questo valga anche per lo schiavo: anche a lui giova essere soggetto a un padrone, perché «la parte e il tutto, come il corpo e la mente, hanno gli stessi interessi, e lo schiavo è una parte del padrone, è come se fosse una parte viva ma separata, ed è perciò che esiste un interesse, un’amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che abbiano meritato di essere tali per natura» (1255b, 10-15).

A più di due dozzine di secoli di distanza è facile muovere obiezioni a questo modo di ragionare, ma, nell’immaginare, come si è detto, una condizione sociale che non possa far altro che riprodurre quella naturale, l’elemento imprescindibile e determinante è quello di natura: possiamo rimproverare ad Aristotele il non riuscire a cogliere che la natura non esiste se non come prodotto storico, e dunque culturale, economico, psicologico? Solo a non voler cogliere che anche Aristotele è un prodotto storico. D’altronde non è detto che a noi, oggi, faccia orrore qualsivoglia argomento in favore della schiavitù proprio in quanto prodotti di una storia che ha ritenuto possibile superarla o, come sostengono taluni, mimetizzarla in una meno appariscente forma di sfruttamento: possiamo esser certi che, domani, il processo storico non porti i nostri figli, i nostri nipoti o i nostri pronipoti a trovare insopportabilmente ipocrita che essa persista, ancorché mimetizzata, ma non già per mettere fine a ogni forma di sfruttamento, ma all’ipocrisia, riuscendo a trovare buoni argomenti per tornare a considerare naturale, e dunque socialmente accettabile, la schiavitù? Possiamo escluderlo solo in forza della fede in una storia che è storia di progresso e di emancipazione: solo questo genere di fede ci consente di archiviare gli argomenti di Aristotele come definitivamente inservibili. Poi, certo, ogni fede è almeno un po’ miope, se non cieca.

Quella che, ad esempio, vuole la storia sempre uguale a se stessa dovrà allo stesso modo andarci piano col ritenere che ad Aristotele non possano essere mosse obiezioni, perché con la robotizzazione della produzione sarebbe dovuto venir meno lo stato di necessità che giustificava la schiavitù: la macchina ci avrebbe reso tutti ελεύθεροι. Non è accaduto. Anzi, a lamentare che essa abbia reso un po’ δούλοι anche gli ελεύθεροι abbiamo visto in prima fila proprio i filosofi, quasi tutti, fatta eccezione per i positivisti, che in fondo stanno alla filosofia come Alessandro sta al nodo di Gordio. E allora a cosa può servire, oggi, tornare agli argomenti di Aristotele in favore della schiavitù?

La domanda può essere impostata anche diversamente, prendendo a spunto proprio quello che Castellani scrive chiedendosi Dove comincia la storia della tecnocrazia? «Diversi studiosi – scrive – tendono a partire da molto lontano considerando alcuni pensatori politici classici come veri e propri precursori della mentalità tecnocratica. Su tutti spicca l’opera filosofica di Platone, nella cui sofocrazia si rintraccerebbero vedute espressamente tecnocratiche. Tuttavia, questa sofocrazia platonica implica un ruolo politico del sapiente, che però non è il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico». Se davvero fosse così, questo «partire da molto lontano» sarebbe davvero inutile, ma è davvero così? Non proprio. Infatti, a leggere la seconda parte del suo Politico (287 B – 311 C), scopriamo che la σοφία che avanza la pretesa di informare la gestione della cosa pubblica è anch’essa una τέχνη: è quella tecnica di misurazione indispensabile a determinare quel giusto mezzo che è ultimo fine – insieme – morale e politico, ed è una tecnica – mi si lasci passare il bisticcio – che è tecnica fin dal termine che la designa (μετρητική). Se compariamo questa pagina a quella di un altro dialogo, Ione, vediamo che questa τέχνη ha specificità proprie, certo, ma al pari di ogni altra τέχνη, sicché «quando unarte [τέχνη] è conoscenza di determinati oggetti e unaltra è conoscenza di altri oggetti, io do ad una un nome e allaltra un nome diverso» (537 D). Andare alle fondamenta del termine τέχνη ci consente di poter affermare che anche la sofocrazia è una tecnocrazia. Ma – abbiamo visto – Castellani afferma che «questa sofocrazia platonica implica un ruolo politico del sapiente, che però non è il “competente” a cui fa riferimento il pensiero tecnocratico». Solo in apparenza, obietterei. Quello che fa la differenza è solo il tipo di competenza chiamata a rispondere dei bisogni dell’individuo e della collettività: se la scienza sottrae campo alla filosofia, la competenza filosofica perderà potere rispetto a quella scientifica; il filosofo è costretto a ritirare la sua pretesa sofocratica a fronte dell’avanzare della pretesa tecnocratica dello scienziato. Anche qui, d’altronde, con ciò che è «competente», andare alla radice del significante può darci il più compiuto significato. Già l’ho scritto due o tre mesi fa, qui mi è necessario ripetermi.

Di chi eccelle nei vari campi delle scienze naturali e di quelle umane (sospendendo, qui, la questione se queste ultime siano davvero scienze) si potrebbe dire che ha bravura, capacità, perizia, professionalità, ma da qualche tempo si preferisce dire che ha competenza, e la cosa non è tutta italiana, perché anche nella lingua oggi più parlata al mondo si preferisce dire che è competent piuttosto che able, capable, capacious, adept, expert, experienced, qualified o conversant. C’è un motivo che spiega questa scelta lessicale? Probabilmente sta nel fatto che competere ha altre tre accezioni oltre a quella che fa della competenza l’abilità che si può trarre da un idoneo bagaglio cognitivo e da una specifica esperienza: competere, infatti, vuol dire anche misurarsi, concorrere, lottare, contendere; in più, ciò che mi compete è anche ciò che mi spetta in termini di riconoscimento della legittimità del ruolo; ciò che mi spetta, però, è anche spettanza, e cioè compenso, onorario, parcella, provvigione. Chi è competente, insomma, non è soltanto un esperto, ma anche uno che deve misurarsi con altri contendenti per arrivare a conquistare una prerogativa relativa a un merito, da cui consegue di diritto un privilegio.

Chiarito questo, dovrebbe essere evidente il contesto in cui si muove il competent rispetto al semplice capable: è quello del mercato delle esperienze professionali dal quale la società è giocoforza tenuta ad attingere allo scopo di risolvere i problemi che le sono posti dalla necessità di dare risposta ai bisogni individuali e collettivi. Ne risulta che non è possibile alcuna considerazione relativa alla competenza dei competenti astraendosi dalle politiche che la società adotta riguardo a questi bisogni. Ovviamente, qui, società è sineddoche: sono i ceti dirigenti di una società che decidono le politiche relative ai bisogni individuali e collettivi, e che dunque dettano le norme che regolano il mercato delle competenze e, in ultima analisi, a decidere chi è competente e chi no.

Non c’è da stupirsi, allora, che a una messa in discussione del ruolo svolto dai ceti dirigenti di una società, che è un dato pressoché costante ogni qual volta la risposta ai bisogni individuali e collettivi non sia adeguata, si accompagni una messa in discussione dei competenti che sono sul loro libro paga. È altrettanto evidente perché non sia solo il loro ruolo ad essere messo in discussione, ma la loro stessa competenza, che per quanto si è fin qui detto, non può essere considerata avulsa dalle logiche che hanno favorito un esperto rispetto a un altro, promuovendo a competente l’uno, e l’altro no.

È una imperdonabile ingenuità, infatti, quando non è sfacciata malafede, sostenere che il sapere possa essere politicamente neutro. Ne abbiamo già parlato su queste pagine qualche anno fa, in occasione della ristampa de Il tradimento dei chierici di Julien Benda (Einaudi, 2012). In questo libro, uno dei tanti che sono più citati che letti, si denuncia la recente compromissione dell’intellettuale col potere politico (il testo è del 1927 e Benda scrive che la cosa ha preso piede «da cinquantanni a questa parte»), che sarebbe da considerare come una vera e propria trahison, perché, quando è comme il faut, l’intellettuale «non persegue fini pratici, ma, cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”». L’intellettuale comme il faut, qui, non è competente: sta fuori da ogni competizione indetta dal regno di questo mondo, ciò che gli spetta è la sola soddisfazione personale. Assumendo che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente, filosofo, scienziato e artista hanno funzione ieratica, attendono al sacro ufficio del pontifex che letteralmente costruisce il ponte tra trascendenza e immanenza.

In realtà, sappiamo, il sapere nasce già compromesso col potere, e questo vale per tutte le accezioni dei due termini. In quale epoca della storia umana il sapere non si è fatto strumento del potere? E come potrebbe essere altrimenti, visto che l’intellettuale, al pari di ogni altro individuo, è sempre un prodotto sociale perfino quando assume connotati antisociali? Pare evidente, allora, che stupirsi – e, ancor più, indignarsi – perché le competenze dei competenti sono messe in discussione nei momenti di crisi riveli una fede nella trascendenza di buono, vero e bello, nel filone che da Platone arriva a Hegel, e purtroppo non s’arresta lì: solo immaginando che filosofo, scienziato e artista ne siano i sacerdoti diventa scandaloso che essi siano messi in discussione, e con essi le loro competenze. Noi sappiamo, invece, che buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo, né in lui connaturati come universali ed eterni: sono sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali alla difesa di un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui. Questo ci consente di non considerare scandaloso che la competenza sia messa in discussione: quando accade, non sentiamo venir meno il reverenziale rispetto che si deve a un dio, ma la capacità di controllo sulla società da parte dei suoi ceti dirigenti.


[segue]


venerdì 25 dicembre 2020

Non si può mai dire

 

Male, inizia molto male questa biografia di Joseph Ratzinger (Peter Seewald – Benedetto XVI. Una vita – Garzanti, 2020), e questo onestamente scoraggia dallaffrontare un mattone di ben 1.275 pagine. Se ne scorrono appena due dozzine, infatti, e si legge: «Sul primo appuntamento dei genitori del papa non si sa nulla» (pag. 24). Su come si siano conosciuti, invece, sappiamo tutto.

Sul numero del 7 marzo 1920 dellAltöttinger Liebfrauen Messenger, una rivista per cuori solitari, è pubblicato il seguente annuncio: «Funzionario statale di medio rango, celibe, cattolico, di 43 anni, dal passato immacolato, di campagna, cerca una brava ragazza cattolica, illibata, che sappia cucinare bene, che sappia fare tutti i lavori domestici, che sia anche in grado di cucire e che sia una buona casalinga, per sposarsi al più presto possibile. Auspicabile una buona dote, ma non è indispensabile. Proposte, possibilmente con foto, al box n° 734». Lannuncio non va a buon fine, ma il futuro papà del papa non si dà per vinto e lo reitera: sarà ripubblicato sul numero dell11 luglio dello stesso anno sulla stessa rivista, e stavolta ottiene il risultato sperato, perché risponde la 36enne Maria Peintner. I due si danno appuntamento in una caffetteria di Ratisbona, di lì a qualche giorno si fidanzano e il 9 novembre si sposano.

Tutto questo è ampiamente noto, e almeno dal 2006, quando, ormai già pontefice, Joseph Ratzinger torna a Ratisbona per tenervi la sua famigerata lectio magistralis. Qui, Peter Becker, ex direttore dellAltöttinger Liebfrauen Messenger, fa dono di una copia dellannuncio di cui sè detto al papa. Il quale se ne dice «getroffen», che, a piacere, può essere tradotto con «colpito», e cioè «scosso», oppure con «toccato», e cioè «commosso». Difficile dire come debba intendersi, qui, questo «getroffen», sta di fatto che Ratzinger – così narrano le cronache – commenta prendendo a prestito una frase del teologo Albert Schweitzer: «La coincidenza è lo pseudonimo che Dio sceglie quando vuole rimanere in incognito». Ancor più difficile, qui, dire come possa definirsi «coincidenza» la decisione di dare forma di sacramento alla reciproca convenienza di una zitella in cerca di una sistemazione e di un attempato sbirro in cerca di una domestica a gratis. Limpressione è che la citazione di Schweitzer sia servita solo a schermire un imbarazzo.

Che biografia può mai essere quella che mostra fin dallinizio – addirittura prima dellinizio – una così palese falla? Sul risvolto di copertina leggiamo: «Peter Seewald ha accompagnato Joseph Ratzinger per oltre venticinque anni: come giornalista, scrittore, confidente ha stabilito una relazione speciale con il papa emerito». Di quanto qui si è detto il giornalista non sapeva niente? Impossibile. E che tipo di confidente è quello che è tenuto alloscuro di ciò che ha «getroffen» chi a lui affida le sue confidenze? È evidente, mi pare, che tutto rimandi alla natura della «relazione speciale» tra Seewald e Ratzinger: pessima garanzia di onesta biografia.

Ma sotto lalbero, fortunatamente, Babbo Natale mi ha fatto trovare altri sei volumi: mettiamo per un attimo da parte Seewald, quindi, e prendiamo, chessò, questo Lorenzo Castellani de Lingranaggio del potere (Liberilibri, 2020). Oddio, se ne dice un gran bene e questo non depone troppo a suo favore. Lautore, poi, è nato nel 1989, è un giovanotto, e a me, con letà, la gioventù è diventata ancora più insopportabile di quanto mi fosse da giovane. Ma sgombriamo il campo dai pregiudizi, leggiamo, non si può mai dire.

giovedì 24 dicembre 2020

Lettera aperta

 

[Difficilmente su queste pagine parlo da medico, ma oggi vorrei fare uneccezione per dire quanto segue al dottor Luca Lorini, primario di non so cosa in quel di Bergamo, in forma di lettera aperta.]


Gentile collega, nel corso di una puntata di Che tempo che fa (Raitre) lho sentita affermare testualmente: «Non vuoi vaccinarti? Ok. Ma se ho un posto libero in reparto, lo do a chi crede nel vaccino». Ora, sorvolando sul fatto che i posti in reparto non sono di sua proprietà, e che dunque lei non può disporne a suo piacimento, non le sembra di merda la logica che informa la sua affermazione? In un reparto di oncologia polmonare dovrebbero essere ricoverati solo i non fumatori? Se al momento dellincidente il motociclista non indossava i casco e lautomobilista non aveva la cintura allacciata, dovremmo negar loro un posto in terapia intensiva? Dovremmo dare assistenza solo ai diabetici che non sgarrano con la dieta? Provi a darmi una valutazione deontologica del diabetologo che al paziente con un piede in gangrena dica: «Eh, sì, andrebbe amputato, ma non se ne fa nulla: sappiamo che lei mangia cioccolatini». Bene, io non so chi labbia messa a dirigere il reparto di cui è primario, ma la prego di inoltrargli metà del disprezzo che qui riservo a lei, patetico e ridicolo ancorché efferato moralistucolo dei miei stivali.


venerdì 18 dicembre 2020

Dinanzi alla morte

 

Nel 2019, in Italia, ci sono stati poco più di 647.000 decessi, che fa una media di circa 1.770 morti al giorno: morti appena nati e morti di vecchiaia, suicidi e morti ammazzati, morti per cancro, infarto, ictus e altre patologie, fra le quali quelle infettive, non di rado contratte in ospedale (non ho i dati relativi al 2019, ma nel 2016 i morti per malattie infettive contratte nel corso di un ricovero ospedaliero sono stati più di 45.000), e poi morti nel sonno o schiacciati sotto una pressa, caduti da unimpalcatura o fatti secchi da un’overdose, travolti da un tir o in seguito ad incidenti occorsi in rischiose pratiche sessuali.

L’anno che sta per chiudersi ha avuto un andamento un po’ diverso, perché al consueto numero di cause di morte s’è aggiunta quella della polmonite interstiziale da Sars-Cov-2, che, a detta di chi coi numeri ci sa fare, al prossimo 31 dicembre dovrebbe/potrebbe portare i decessi da/con Covid-19 a poco più di 70.000. Per quest’anno, insomma, c’è da attendersi che il totale dei decessi in Italia possa superare di poco i 710.000, sicché la media di morti al giorno salirebbe da 1.770 a 1.940, o giù di lì: rispetto all’anno scorso, ben 170 morti al giorno morti in più. Superfluo dire che la cosa non può lasciare impassibili.

Certo, la morte è morte, sempre, e con la morte di chiunque, anche se ci è sconosciuto, muore sempre anche qualcosa di noi, dico bene? Vero è che forse di noi muore qualcosina in più se il morto ci è parente o amico, se a morire è un bambino, se più in generale la morte prende ingiustamente un giusto o colpevolmente un innocente, se il modo in cui si muore è atroce, se il cadavere è eccellente, se siamo presenti al momento in cui il morituro muore, se a morirne sono 1.940 che non 1.770, ma credo che non sia il caso di star qui a sottilizzare: ci addolora un pochino anche la morte di uno sconosciuto ultracentenario spentosi serenamente nel sonno agli antipodi di dove noi viviamo, dico bene? Vi prego, non mi deludete, dite di sì, sennò non posso andare avanti: dico bene? Ok, procediamo.

Brutta cosa, la morte. Sempre. E tuttavia, concorderete, se non ci ferisce negli affetti personali o non ci è messa sotto gli occhi, essa si limita a far da sottofondo al nostro vivere: sappiamo che prima o poi toccherà anche a noi, è ovvio, sappiamo che, prima di toccarci, ci sfiorerà prendendo il nonno, il babbo, lo zio, l’amico, il conoscente, il calciatore che ci ha estasiato coi suoi dribbling, lo scrittore che ci ha fatto battere il cuore, il fruttivendolo sotto casa, ma dal sottofondo emerge rendendosi visibile, e dunque perturbante, dandoci ansia, angoscia o anche soltanto la sensazione di finitudine che ci dà un attimo di smarrimento, di irrequietezza e di impotente resistenza all’ineludibile, in proporzione alle sue dimensioni, in ragione della sua presenza, nella misura della rappresentazione che ci è offerta.

Certo, abbiamo pietas da vendere e anche una fogliolina che dal verde vira al giallo sul ramo del bonsai ci fa star male, perfino la zanzara spiaccicata sul muro ci dice che tutto ciò che organico è destinato a diventare inorganico, e questo evoca il destino che accomuna tutti i viventi, ma un po di più ci scuote dentro vedere sull’asfalto lo sconcio che uno pneumatico ha fatto d’un topo, e un po’ di più se a finirci sotto sono stati un gatto o un cane, un po’ di più se ridotti a poltiglia. Quanti ne muoiono ogni giorno nel tentativo di attraversare la carreggiata, lo sappiamo, ma vederne i cadaverini riversi ai suoi bordi ci stringe il cuore e, se maciullati, ce lo strazia. Stessa cosa a sapere che è morto quel tizio, altra però è dal saperlo chiuso in quella bara, e altra ancora è vederlo lì dentro quando ancora è scoperchiata.

Brutta cosa, la morte, sempre, chiunque muoia, ma dico una bestialità se affermo che ci appare più o meno brutta in relazione a certe variabili? Cosa ferisce di più la nostra sensibilità, il fiore che appassisce nel vaso o la mosca che agonizza sulla carta moschicida? L’agonia del topo che ha ingerito l’esca al bromadiolone o quella del cavallo che s’è schiantato nella Curva di San Martino al Palio di Siena? La morte del ragazzino leucemico o quella del novantenne enfisematoso? Ma se il novantenne enfisematoso è il nonno che da bambini ci leggeva la fiaba di Pollicino e il ragazzino leucemico è un impercettibile e anonimo puntino sulla curva repentinamente decrescente che ci illustra gli strabilianti successi delle odierne terapie antileucemiche? Mi pare evidente che le variabili siano assai complesse.

Direi tutto dipenda da quanta e quale morte ci è messa dinanzi, e in che modo, e a quale distanza, dove quest’ultimo parametro non è riducibile a un mero dato spaziale o temporale. Perché i 2.977 morti nel crollo delle Twin Towers del 2001 feriscono indubbiamente la nostra sensibilità più dei 39 che morirono allo stadio Heysel di Bruxelles nel 1985, ma quanto rispetto agli oltre 800.000 tutsi massacrati in Ruanda nel 1994? È evidente, perciò, che le variabili cui facevo cenno prima siano tutte estremamente elastiche: la morte di un orango ci ferisce assai più di quella di un gatto, non però se il gatto è George, il nostro gatto; il video della migrante che si dispera perché il suo bambino di sei mesi è affogato a largo di Lampedusa ci schianta, ma la foto del bambino di tre anni riverso a faccia in giù sul bagnasciuga di una costa turca ci distrugge; i sei milioni di morti della Shoah ci sembrano il male assoluto, ma sugli otto milioni dell’Holomodor sappiamo relativizzare come dovuto ; sentirci dire, in piena epidemia, che «questo martedì ne sono morti 985» è una mazzata, ma apprendere da un report dell’Istat che il tal giovedì del 2013 ne son morti 1.015, o il tal lunedì del 2010 ne son morti 1.089, fa male, certo, ma – come dire – si nasce, si vive, si muore, e in fondo tocca a tutti, a chi prima e a chi dopo, pazienza!

Dio mio, cosa mi è scappato di bocca? Ho detto proprio «pazienza!»? Chiedo scusa, non so come sia potuto accadere. E mi auguro che non vogliate accostare il mio «pazienza!» a quello che si è lasciato scappare Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, a commento dei 170 morti al giorno in più che avremo questanno rispetto allanno scorso, daltronde la differenza è lampante: a me il «pazienza!» è scappato dinanzi a morti stagionati, morti misti, morti alla spicciolata, morti in silenzio, a riflettori spenti; lui no, lui è una carogna, perché lha detto dinanzi a salme ancora calde, senza rendere lomaggio che il vivente deve al morente, che poi, tenuto conto dellestrema elasticità delle variabili che regolano il nostro altissimo sentire, è lo stesso genere di omaggio che il vizio deve alla virtù.

martedì 1 dicembre 2020

Walter Veltroni – Buonvino e il caso del bambino scomparso – Marsilio, 2020

 

«Dopo aver sbrigato la faccenda dei corpi straziati...». Le vittime erano state depezzate: «straziati», che sta per «lacerati», «martoriati», «torturati», è l’aggettivo più adeguato per corpi che non hanno subìto niente del genere? Se si rinuncia a dire «indagine», optando per «faccenda», soprattutto mettendoci d’accanto uno «sbrigare» che fa tanto hard boiled, guastava tanto un «fatti a pezzi»? Vabbè, vediamo come va avanti.

«Dopo aver sbrigato la faccenda dei corpi straziati – nulla di straordinario, in fondo lo pagavano per questo –, il commissario Buonvino era tornato alla sua routine. Aveva una medaglia sul petto, di questo era consapevole. Il caso che era riuscito a sbrogliare aveva un elevato grado di complessità, e l’impatto sull’opinione pubblica – si trattava pur sempre di un’efferata storia di sangue – era stato davvero devastante. Con la cattura dei colpevoli, Buonvino aveva fatto strike, togliendo tutti dai guai. E per questo, come sempre accade a chi vince, era improvvisamente circondato da una rispettosa deferenza. Ma i guai, la vita gliel’aveva insegnato, sono come le caramelle…»

Basta, pietà, basta! «Nulla di straordinario» e neanche tre righe dopo «un elevato grado di complessità» che sembra tirato via da un pezzo di Napolitano su un numero di Rinascita dei primi anni Ottanta; il «caso» che viene «sbrogliato»; la «storia di sangue» che è – e come vuoi che sia? – «efferata»; l’«opinione pubblica» – partiva per essere un Francesco Ingravallo e in niente mi diventa una Kay Scarpetta – che ne risulta «impattata»; «aveva fatto strike», ripeto: «aveva fatto strike»; e come vuoi che sia la «deferenza»? Per un pleonasmo direi che «rispettosa» sia il minimo. Poi ecco il magistrale colpo di reni per non cadere dallo  sciatto all’ovvio: per il proverbiale «una tira laltra», via le ciliegie, passate a Walter delle «caramelle».

Non sono riuscito ad andar oltre la prima pagina dell’ultimo giallo di Veltroni (Buonvino e il caso del bambino scomparso – Marsilio, 2020), e dunque qui vanno deluse le aspettative del simpatico stronzone («Spero che Malvino recensisca Buonvino»che via email me ne ha inviato copia in formato ePub.