Stavo qui a leggere questo splendido volumetto della Quodlibet – La situazione della scienza giuridica europea di Carl Schmitt – e a prendere appunti per scriverne qualcosa su queste pagine, quando mia moglie è entrata col vassoio – spremuta d’arancia, caffè, Losartan per la pressione, Cholecomb per il colesterolo – e parodiando il Buck Malligan dell’Ulisse di Joyce – ogni domenica mattina è così, va avanti da almeno due o tre anni – ha detto: «Introibo ad altare Dei», al quale mi tocca prontamente rispondere, e guai a me se non lo faccio: «Stately, sì, my darling, ma niente affatto plump!». Ricevuto il consueto bacio per il così estorto complimento alla sua invidiabile linea, di solito va via, per farsi viva solo due o tre ore dopo, di solito per mandarmi in giro a fare commissioni. Non oggi. Oggi, posato il vassoio, si è accesa una sigaretta, s’è sdraiata sul divano e m’ha detto: «Oggi fanno giusto vent’anni, ricordi?». Qui sono andato in panico, perché scordarsi di un anniversario, qui da noi, è colpa che impone durissima punizione. Un ventennale, poi. Tremando un po’, ma pronto a espiare quello che c’era da espiare, ho chiesto: «Cos’è accaduto il 3 gennaio del 2001?». «Non hai un grammo di sensibilità», mi fa, che detto da una Capricorno a un Cancro, capirete, potrebbe pure far sollevare qualche obiezione, ma qui ero in difetto, e ho taciuto. «Il 3 gennaio 2001 – fa – abbiamo preso Evaristo». Giusto, cazzarola, come ho potuto scordare Evaristo? Forse ha ragione lei, sono proprio una bestia. Evaristo è stato un momento cruciale della nostra vita, al punto da poter parlare di un «prima di Evaristo» e di un «dopo di Evaristo» – «a.E.» e «d.E» – e io che faccio, dimentico quando è entrato in questa casa?
Il mio lettore – comprendo – si starà chiedendo chi sia Evaristo: è giusto dargli una risposta, ma è necessaria una premessa. Mia moglie è solita dare un nome agli oggetti che acquistiamo, probabilmente è un modo per sentirli veramente suoi, non ho mai voluto approfondire la questione, perché la convivenza è fatta innanzitutto di rispetto e di delicatezza per le manie, i tic, le fissazioni di chi ti sta accanto giorno e notte, sennò alla lunga non funziona. Così, puoi tranquillamente mandare a cagare un Mantellini che degli oggetti scrive che «ci rimangono accanto per anni... improvvisamente scompaiono dalla nostra vista... non sappiamo se ci hanno abbandonato per sempre, se torneranno, se là dove sono ora mantengono qualcosa di noi...», ma con una moglie come fai? Non puoi, via, d’altronde mia moglie non pretende che questo suo modo di sentire gli oggetti le conferisca qualità particolari, tanto meno una qualche superiorità intellettuale e men che meno morale: quando dice «non hai un grammo di sensibilità», si capisce che si schermisce. Mantellini no, Mantellini è convinto che l’universo delle sue manie, dei suoi tic, delle sue fissazioni stia in cima alla piramide dei sentimenti, della morale, della cultura, e in quel fortino sta asserragliato, scagliando dai bastioni i suoi lamenti e le sue invettive sui barbari che ritiene lo stiano assediando. Ricordate la Maria Elena Boschi che piangeva all’indomani delle elezioni politiche del 2018, «non per la maldestra perdita di uno scudetto, e neppure perché finisce il sogno politico di questo Pd e della sinistra dei quarantenni, ma perché finisce un mondo che è fatto di letture e buone maniere, di educazione e di civiltà» (la Repubblica, 6.3.2018)? Stessa cosa, ma il Mantellini si ritiene più sexy.
Ma dove eravamo rimasti? Ah, sì, a Evaristo. Bene, Evaristo è il primo pc entrato in questa casa, e rammentarmi che oggi ricorre il ventennale di quell’evento per mia moglie ha significato particolare, perché fa link con tutte le mie irrevocabili decisioni puntualmente revocate, in primis con quella che presi entrando nella casa dove ho traslocato dopo la separazione dalla mia ex moglie: «Qui nessuna donna dormirà per due notti di seguito». Decisione revocata dopo meno di un anno: «Perché non vieni a vivere qui?», chiesi a Brunella. E lei disse di sì. Il retropensiero era: «Io ne ho un po’ meno di 43, lei ne ha un po’ più di 20: quanto può durare?». Più di quanto prevedibile, è evidente. Così con Evaristo: «Sia chiaro: in questa casa non entrerà mai un computer!»; e quattro mesi dopo gliene regalavo uno a Natale, le era indispensabile per studiare; per lanciargli uno sguardo torvo ogni volta che gli passavo davanti, anche quando era spento; per poi, un giorno, sedermi alla tastiera e cominciare, come si diceva allora, a «navigare».
Sono arrivato relativamente tardi al web, dunque, quest’altro ventennale dovrebbe chiudersi a giorni, il che fa capire quale sia la durata media delle mie irrevocabili decisioni. La cifra tonda dovrebbe spingermi a raccontare, così si usa, ma onestamente la voglia manca, perché per mettere mano a tutto il materiale che s’è venuto ad accumulare mi ci vorrebbero altri vent’anni. Potrei tagliar corto con un resoconto generico, ma, come è già accaduto, finirei per impastare le mie personali impressioni a tutto ciò che ho letto sul web da vent’anni a questa parte, dalle entusiastiche aspettative che ha sollecitato nei più ingenui alle brucianti delusioni che ha riservato anche a chi non ci sperava troppo che fosse la straordinaria occasione per emancipare le masse e fin da subito metteva in guardia riguardo ai limiti, ai rischi, ai pericoli. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai fatto illusioni: il web è una realtà parallela, che in gran parte riproduce la vita di relazione che abbiamo fuori dallo schermo del pc, ma gonfiando a dismisura certi aspetti e sgonfiandone altri, con ciò apparentandosi alla pornografia rispetto al sesso, il che è evidente soprattutto nell’eccessiva importanza che ci diamo quando scendiamo in questa agorà virtuale.
Qualche giorno leggevo su Il Foglio quel che Olivier Babeau diceva riguardo alla rivoluzione digitale che ha così prepotentemente segnato il nostro ingresso nel terzo millennio. Diceva – mi scuso per la lunghezza dei virgolettati, ma credo ne valga la pena – che «Internet ha tradito la sua vocazione e il suo manifesto originari. Avrebbe dovuto portare a un mondo unificato e parificato. Avrebbe dovuto cancellare le differenze. Aprendo le porte all’innovazione, alla mobilità sociale e alla comprensione, avrebbe dovuto dare a ogni azienda, individuo e paese i mezzi per la propria emancipazione e sviluppo. Che disillusione! Tutto è a portata di clic. Ma la conoscenza, ad esempio, non è facilmente accessibile. La tecnologia digitale ha abolito gli intermediari, ma ha eretto enormi barriere che tagliano in due il mondo. Abbiamo una divisione dove ci aspettavamo l’unificazione».
In quanto alla discussione pubblica: «La moderazione tanto celebrata nell’antichità, la tendenza al centro e a emarginare gli estremi stanno svanendo di fronte a uno spettacolare trionfo dell’arroganza in tutti i campi. Non è più l’eccesso dionisiaco, controbilanciato da Apollo, tanto adorato dagli antichi greci, ma l’oblio dei limiti. […] I social, concepiti come luoghi di emancipazione, diventano macchine per produrre pensiero estremo, emarginare sfumature. Le minoranze si organizzano in branchi per mettere a tacere le opposizioni. L’iper-democrazia prodotta dalla tecnologia digitale non può che portare all’altro estremo: la dittatura. I due poli si uniranno nello stesso schiacciamento del diritto di proprietà e della volontà individuale. La dittatura del Bene divorerà tutto ciò che sarà alla sua portata. [...] Non è più concepibile pronunciare un discorso contrario alla doxa. Qualsiasi dibattito viene immediatamente squalificato. Dubitare è opporsi. Mettere in discussione è criticare. I discorsi progressisti sono gradualmente diventati un arsenale che pretende di proibire ogni discorso alternativo. La polizia del pensiero pretende di governare tutto, riscrivere la storia, mettere a tacere i fatti imbarazzanti. La realtà è chiamata a piegarsi all’egemonia della morale del momento. Alla scienza viene chiesto di collaborare, confermare o tacere. Anche l’ortografia deve subire i peggiori oltraggi per diventare “inclusiva”, anche se significa sconvolgere la parola. […] Il progressismo e il suo seguito di “guerrieri della giustizia sociale” stanno preparando inconsapevolmente terribili regressioni. […] Indignazione a geometria variabile, censura in nome della libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in nome della lotta alla discriminazione. [...] Questa radicalizzazione non è il risultato naturale della dinamica egualitaria, ma il suo decadimento. L’ossessione progressista è il segnale paradossale di un esaurimento della dinamica dei diritti umani guidato dall’Illuminismo. Culminando in un’intolleranza di vedute esattamente come quella da cui secoli fa si voleva liberare l’umanità, il progressismo fanatico segna la decomposizione dell’Illuminismo anziché il suo perfezionamento».
Un po’ esageratuccio, il Babeau, d’altronde da sempre la policy de Il Foglio recita: «Se non sono irritati e/o irritanti, non li vogliamo». Però, via, fatta eccezione per i toni, l’analisi non è tutta da buttar via. Per meglio dire: i miei vent’anni di navigazione in rete mi portano a sottoscriverla, seppure con qualche riserva. Mai nutrito illusioni, però, che non dovesse andare a finire proprio così. Cioè, a essere onesto, qualche illusioncella me l’ero fatta, e anche qui, a rammentarmi quello che con l’età fa più fatica a restare, ecco di nuovo Brunella: «Hai dimenticato quando dicevi che la blogosfera ti sembrava qualcosa tipo “La scuola di Atene” di Raffaello». «Ma chi, io?», ho provato a obiettare. «Ma sì, qualcosa del genere. Aspetta, ecco, dicevi che la blogosfera era descritta a perfezione da “Estetica” di Panella-Battisti. E non ti azzardare a smentirlo». «Dio mio, che discussioni futili, Brune’, lasciami leggere, va’! Anzi, guarda pure tu come ’sto Schmitt inizia moscio moscio, per poi arriva a spararti sulle gengive: “l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”... Senti l’incipit: “Parlare di una scienza giuridica europea appare oggi, forse proprio a un giurista, inammissibile e non-scientifico. E questo non solo a motivo della lacerazione politica dell’Europa, dilaniatasi in due guerre mondiali, ma anche per una ragione formale e all’apparenza persino di natura specificamente giuridica...”». Non mi ha lasciato continuare, s’è alzata dal divano e uscendo ha detto: «Hai cambiato argomento. E questo non è bello. Ti lascio a Schmitt, io vado a preparare da mangiare con Casimiro». Che poi sarebbe il Worker Bimby.