Avere
un figlio piccolo regala l’opportunità di fare scoperte di rara bellezza che
altrimenti rimarrebbero sepolte per sempre nella nostra ignoranza.
lunedì 17 febbraio 2014
[...]
Qualche
giorno fa, Bergoglio ha incontrato la delegazione dell’American Jewish Committee e ieri L’Osservatore Romano ha pubblicato il testo del discorso che ha tenuto in
quell’occasione. Niente di eccezionale, le solite carinerie che da qualche
decennio i pontefici spalmano su secoli e secoli di feroce antigiudaismo. Tra
queste, la più ruffiana: gli ebrei sarebbero i «fratelli maggiori» dei
cristiani.
Ora, si dà il caso che le brutture della cronaca politica italiana mi
costringano a distogliere lo sguardo dalle miserabili panzane che in questi
giorni vanno accreditando come soluzione emergenziale quello che di fatto è un
colpo di stato strisciante. Lascio, dunque, a chi ha stomaco più forte del mio,
e lodevole fiducia nel fatto che dimostrarne la fallacia possa neutralizzarle
(io ho miei dubbi, gli italiani sono in gran parte stupidi e in fondo un Renzi,
dopo un Berlusconi, lo meritano), per dedicarmi a una panzana assai più grossa, e che per giunta gode di gran credito:
che gli ebrei sarebbero «fratelli maggiori» dei cristiani.
Panzana che trova
basi solide su un assunto che anche autorevoli studiosi danno per scontato, e
cioè che tra il I e il II secolo dell’era volgare l’ebraismo avrebbe subìto uno
scisma: i cristiani sarebbero gli scismatici che abbandonarono l’antica fede
per fondarne una nuova, tuttavia ramo di quel tronco. Bene, le cose non stanno
affatto in questo modo: né l’ebraismo è così «antico», né il cristianesimo è
così «moderno», come abitualmente si ritiene. Del tutto errato, dunque,
concepire il dissidio che tra di essi si consumerà per oltre quindici secoli,
dalle Homiliae contra Iudaeos di Giovanni Crisostomo alle pagine de La Civiltà
Cattolica a cavallo tra XIX e XX secolo, in termini di «superamento», come vorrebbero
i cristiani, o di «tradimento», come vorrebbero gli ebrei.
Nel II secolo,
quando ormai il cristianesimo ha assunto già buona parte dei suoi caratteri
distintivi, l’ebraismo non è affatto la religione dell’Antico Testamento, ma il
risultato di ciò che ha prodotto la riforma rabbinica del I secolo, che ha
corso parallelo a quella che dall’antica fede porta al cristianesimo, nel quale
molti elementi ne continuano ad essere presenti. In sostanza, la nascita dell’ebraismo
(così come è oggi) è coeva a quella del cristianesimo: sono due rami dello stesso
tronco, dal quale si dipartono nello stesso arco di tempo. Ma c’è di più,
perché nel cristianesimo persistono alcuni elementi che la riforma rabbinica
del I secolo espunge dall’antica fede: né il cristianesimo, dunque, è così «rivoluzionario»
come si dà per inteso dietro sua pretesa, né l’ebraismo che conosciamo noi
esisteva ancora ai tempi di Cristo, e dunque non è così «tradizionale» come
pretende di darci a intendere.
È che con la distruzione del tempio di
Gerusalemme, nel 70 d.C., si ebbe la chiusura di un arco storico – quello che
appunto è relativo al cosiddetto «Giudaismo del Secondo Tempio» – nel quale si
fa davvero fatica ad individuare un’ortodossia di fede tra le numerose correnti
di pensiero che orbitano nella galassia giudaica (sadducei, farisei, zeloti, esseni,
samaritani, battisti, ecc.), e in fondo Cristo non è che il fondatore di una
nuova setta in questo variegato contesto, come d’altronde più che ampiamente
documentato negli Atti degli Apostoli: fino al 70 d.C. i seguaci di Cristo sono
considerati membri di una delle tante sette giudaiche, dai membri delle altre
sette e dai pagani, ed essi stessi si considerano tali.
Cade così l’assunto che
il cristianesimo abbia radici nell’ebraismo così come lo conosciamo oggi, per
il semplice fatto che questo ebraismo non esisteva ai tempi di Cristo. Tanto
meno l’assunto regge dopo il 70 d.C., con la nascita di questo ebraismo, che è
soltanto, al pari del cristianesimo, un prodotto della riforma del vecchio, che
d’altronde è solo quanto dal Primo al Secondo Tempio è venutosi a sedimentare
in un corpo dottrinario assai poco univoco, e nel quale si distinguono tre
prevalenti tendenze (quella sadducea, quella farisea e quella essena) che per lungo tempo
troveranno modo di convivere senza troppe difficoltà.
Qui, allora, si pone la
questione: da quale di questi filoni Cristo prende le mosse per la sua riforma
dell’ebraismo che andrà in divergenza con quella rabbinica? L’ipotesi di un
Gesù esseno, scartata dopo il ritrovamento dei Manoscritti di Qumram, è da
riprendere in considerazione dopo la scoperta che a scriverli furono membri di
una comunità assai esigua in ambito esseno, quasi certamente in dichiarato
dissidio con la gran parte degli esseni, e su un punto fondamentale, cioè il
rapporto tra Dio e il Male. A differenza del gruppo che si ritirò sulle sponde del
Mar Morto, la comunità essena traeva le proprie convinzioni sul punto da quanto
andò a confluire, tra il IV e il I secolo a.C. nel Libro di Enoch, che non a
caso non trova alcuna eco nei testi di Qumram ed è considerato apocrifo anche dagli
ebrei che seguirono la riforma rabbinica.
Bene, basta leggere il Libro di Enoch
per trovarvi spiegazione di più d’uno di quei punti oscuri che sono sparsi nei
Vangeli, soprattutto quelli in relazione a massime che escono dalla bocca di
Gesù: volendone negare il tributo che devono alla tradizione enochica, com’è d’obbligo
per chi deve presentare il cristianesimo come inedita «rivoluzione», si è costretti
a inverecondi salti mortali, mentre a cercarne spiegazione nel Libro di Enoch,
soprattutto nelle due prime sezioni (Libro dei Vigilanti e Libro delle Parabole),
di cui da qualche tempo abbiamo prova che in origine fossero stesi in aramaico,
tutto si scioglie e il Padre di cui parla Gesù trova pieno riscontro. Così col senso che il cristianesimo darà alla personificazione del Male. Così col senso che il cristianesimo darà al Regno dei Cieli. In pratica, Gesù si limita allo scandalo del porsi a nodo tra Figlio dell’Uomo e Figlio di Davide, e in fondo pagherà solo per questo con la vita. Un libro, quello di Enoch, che così è sottratto ad ogni attenzione: per gli ebrei
«riformati» è materiale inservibile, per i cristiani è una placenta da divorare.
Altro che
«rivoluzione», il cristianesimo è di derivazione enochica come l’ebraismo nella
forma che conosciamo (quella che deve il massimo contributo alla riforma di
rabbi Yehudah HaNasi) è di derivazione sadducea. Altro che «fratelli maggiori»
e «fratelli minori», si tratta di due gemelli eterozigoti partoriti dalla
stessa grande crisi che nel I secolo travolge il «Giudaismo del Secondo Tempio».
Vabbe’, era per dire
La
logica che affida la memoria alle scansioni temporali periodiche che sono
diventate d’uso corrente mi è sempre parsa – insieme – coatta e arbitraria,
perciò detesto le ricorrenze date dai multipli di quei segmenti cronologici –
anni, decenni, secoli, ecc. – che in fondo, senza neanche farne troppo mistero,
pretendono di conferire un valore alla durata, secondo la gerarchia che dall’istante
sale fino al millennio. A mio modesto avviso, invece, la durata non ne ha
alcuno. La persistenza di ciò che si tiene in vita – fosse pure in quella
particolare forma di vita che è surrogata dalla memoria – non ha, infatti,
altro merito che l’essersi data – spesso senza volerlo, sennò con una volontà
che sta sempre a un passo dal fine – la forma dell’approssimazione all’eterno,
e cioè l’ipocrisia (qui intesa in senso letterale, come infedele rappresentazione)
della resistenza. Per quanto piccola possa essere, questa porzione di eterno
che si rosicchia alla morte o all’oblio pretende un riconoscimento di durata
che le scansioni temporali periodiche segnano come traguardi di una corsa che
si dà per infinita, sicché direi che col festeggiare un compleanno o
commemorare un centenario tifiamo per la tartaruga contro Achille, e diamo
fiducia al fatto che la sfida abbia un senso. A me questo è sempre parso
assurdo, né ho trovato mai una spiegazione convincente al perché
– farò un esempio che solleverà più di un’obiezione, ne son certo –
le 83 annate
de La Settimana Enigmistica dovrebbero avere un valore superiore alle 3 di Acéphale, e cioè il valore di quella durata che in fondo sta solo nel cercare e trovare i mezzi per durare. Di mezzo dev’esserci senza dubbio il valore che diamo all’adattabilità all’ambiente, ma questa non implica una duttilità che ineluttabilmente modifica i caratteri di chi aspira a resistere? Cosa persiste, quando persiste? Non ciò che voleva persistere: persiste la sua sola volontà di persistenza, sennò il suo persistere oltre la sua volontà. In pratica, si muore di traguardo in traguardo:
solo l’effimero ha il diritto di dirsi vivo, finché può.
Vabbe’, era per dire che a marzo Malvino compie dieci anni, che in questi ultimi mesi ho riletto i suoi 11.451 post e che è bastato a farmi passare del tutto la già poca voglia di festeggiare.
[...]
«Coloro
che amministrano o tengono le redini del governo, qualunque misfatto
commettano, sempre si studiano di adombrarlo con l’apparenza del diritto e di
persuadere il popolo di aver agito onestamente: e ciò riesce loro anche
facilmente, quando tutta l’interpretazione del diritto dipende soltanto da essi»
Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico (XVII)
venerdì 14 febbraio 2014
[...]
L’ho
scritto tre anni fa e non ho cambiato idea. Oggi la nausea è così forte che non
mi va di commentare, sicché mi limito a ripeterlo: «Renzi è la larva che il
berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».
martedì 11 febbraio 2014
[...]
A me
pare che non ci sia proprio alcun dubbio sul fatto che Napolitano abbia esorbitato
in più di un’occasione dal ruolo che la Carta assegna al Presidente della
Repubblica. Se poi la cosa abbia gli estremi del reato di attentato alla
Costituzione, non saprei dire, né la questione riesce ad appassionarmi. Quello
che solleva in me un certo interesse, invece, è il fatto che tra chi lo difende
dalle accuse di aver giocato un ruolo che non gli competeva ci siano persone che
stimo per la loro onestà intellettuale e tuttavia negano l’evidenza. Potrebbero
trovargli mille attenuanti, dire che si è assunto l’onere di colmare il pericoloso
vuoto di potere che in questi ultimi anni si è prospettato in molti frangenti,
che in fondo per il Quirinale, e da sempre, è sempre valsa una Costituzione
materiale un po’ più larga di quella formale, che sarà pur venuto meno all’imperturbabilità
dell’arbitro ma sempre in nome di quanto in buona sostanza era il superiore
interesse dello Stato. E invece no, niente di tutto questo, si limitano a
negare l’evidenza. Anche abbastanza infervorati, devo dire. Ci ricavano figura assai
migliore di chi chiede per Napolitano quello che impropriamente è detto
impeachment sulla base di accuse risibili come l’aver avuto un ruolo nella
cosiddetta trattativa Stato-Mafia o, peggio, di aver tramato per ottenere il
secondo mandato o, peggio ancora, anche solo di averlo accettato. E tuttavia mi
pare che anch’essi, certo in misura di gran lunga minore, certo con un aplomb
di cui gli assaltatori del Quirinale sono del tutto privi, siano mossi da un
umore partigiano, che in qualche modo autorizza l’opposta fazione a parlare di
un Partito del Presidente, strumento metà politico e metà mediatico di cui
Napolitano si sarebbe servito per compiere le sue subdole mosse. Passi per quanti,
a torto o a ragione, lo hanno sentito, lo sentono e probabilmente lo sentiranno
sempre come «uno dei nostri», qualunque cosa dica o faccia. Passi per chi dalle
scelte di Napolitano ha tratto qualche vantaggio o conta di trarne. Passi anche
per chi considera intoccabile il Quirinale, chiunque ci sia dentro, qualunque
cosa faccia. Ma gli altri? Hanno sotto gli occhi le prove indiscutibili di un
attivismo che da mesi e mesi detta modi e tempi alla politica, del continuo venir
meno a star sopra le parti, come d’altronde era in premessa all’accettare il
secondo mandato sub condicione di poter dare indirizzo a Governo e a Parlamento:
come possono negarlo?
lunedì 10 febbraio 2014
Intorno al cacozelo
Ignorato
dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal De
Mauro, il lemma cacozelo (dal greco κακός
ζήλος) è definito «inusit. a noi» perfino
dal Tommaseo, e sta per «imitazione o emulazione
di quel che è vizioso, o men bello per affettazione di
bellezza», anche se la sua miglior definizione è in
Quintiliano (Institutionum Oratoriarum Libri Duodecim,
VIII, 56-58), per il quale sta nel ricorso alla congerie
delle «tumida et pusilla et praedulcia et abundantia et
arcessita et exultantia» ed è perciò «omnium in
eloquentia vitiorum pessimum», perché «mala
adfectatio», aspirazione (al bello) con esito infelice (di
caduta nel lezioso). Col cacozelo, insomma, possiamo
dire che siamo al più goffo infortunio dell’artificio
retorico: l’eloquenza manca il suo fine e si esaurisce in
ostentazione compiaciuta della sua vacua ridondanza.
A
parte, sarebbe da considerare che nel Tommaseo, come
d’altronde dà conto il Pianigiani, l’«affettazione» è
già il fine mancato cui mirava la pretensione dell’«adfectatio»:
nella retorica dev’essere accaduto qualcosa – vedremo
cosa – che ha fatto prendere coscienza delle infauste
conseguenze delle eccessive libertà che, col passaggio dal
Rinascimento al Barocco, la Maniera si è presa nei confronti della
Misura. Basti pensare a come il severo giudizio di Quintiliano
si ammorbidisca, e di molto, nel Seicento. Per François de La Mothe
Le Vayer, ad esempio, «quelli che si sottomettono troppo
scrupolosamente a tutti precetti dell’arte [retorica] senza
volerne trasgredire alcuno sono simili a quei funamboli o ballerini
sopra la corda, che contano i passi che fanno e stanno in apprensione
continua di cadere. Questo timore gl’impedisce di sollevarsi
in alto e, non pensando che a tenersi lontani dal vizio, trascurano
sovente le parti più nobili e più cospicue dell’eloquenza.
Non è per tanto che debbansi sprezzare le sue regole [...] [ma],
ancorché le ridondanze o le superfluità siano molto viziose, le
magrezze e le aridità del discorso lo sono ancora molto più» (Scuola
de’ prencipi e de’ cavalieri, cioè la geografia, la
rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica, e la
fisica; cavate dall’opere francesi del sig. Della Motta Le Vayer,
che le ha distese per istruzione di Luigi 14. re di Francia, tradotte
nella lingua italiana dall’abbate Scipione Alerani - In
Bologna, per Giacomo Monti, 1677).
Ma
qualcosa accade – dicevamo – con l’uscita
dal Barocco, anzi non è di troppo azzardo il ritenere che se ne esca
proprio per ciò che accade: il retore cambia ruolo sociale, non
importa quale sia il suo foro. Non è una scelta: è la società che
gli cambia d’attorno, e in primo luogo si trova dinanzi un
altro uditorio. Per meglio dire: l’argomentazione impone regole
nuove. In altri termini: si vanno ponendo le basi alla nascita della
logica proposizionale, nella quale «le parti più nobili e
più cospicue dell’eloquenza» stanno nella
capacità di dimostrare, piuttosto che in quella di mostrare. Ne è
prova il fatto che la metafora, dapprima considerata banco di prova,
lascia il posto all’analogia, che ben presto sarà guardata
anch’essa con sospetto. Non a torto, perché anche oggi che non è
affatto bandita dalle terre del «dominio
retorico» è l’ultimo rifugio il cui
il cacozelo riesce a trovare accoglienza.
domenica 9 febbraio 2014
La bufala di Michelangelo neurologo
Mauro
Covavich dà credito alla bufala, degna al più di una puntata del Voyager di
Roberto Giacobbo, che, nella Creazione di Adamo affrescata sulla volta della
Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia voluto «inscrivere il gruppo di
Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano», e di suo ci aggiunge il
dirsi «colpito» dal «fatto che, nella religiosità tormentata di Michelangelo,
Dio apparisse in forma d’Intelletto (Nous), ipostasi neoplatonica di qualità
cerebrali che l’uomo riceve in dono» (la Lettura/Corriere della Sera, 9.2.2014
– pag. 21). Da dove cominciare per dimostrare che in meno di sei righe è
concentrato un gran bel mucchio di puttanate?
Cominciamo
col dire che nella prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla
dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora
giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di
consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a
fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della
scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe
poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi
anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle
formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi
cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse
nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso.
Bisogna aspettare il Cerebri anatome di Thomas Willis, che è del 1664, giusto
cent’anni dopo la morte del Buonarroti, e poi gli studi di Marcello Malpighi,
di Giovanni Battista Morgagni e di Xavier Bichat, per avere una descrizione
anatomica del cervello degna di questo nome, e in qualche modo approssimabile a
quella che Michelangelo avrebbe avuto per modello.
Stupisce che il primo a
intravvedere nella Creazione di Adamo una sezione sagittale mediana del
cervello umano sia stato un neurologo? Tutt’altro, basta non avere dimestichezza
con la Storia della Medicina, cosa relativamente comune tra i medici, soprattutto
quelli d’Oltroceano, e farsi prendere dalla tentazione, da nefrologi per
esempio, di intravvedere l’anatomia microscopica di un tubulo renale, descritta
per la prima volta nell’Ottocento, nell’organo idraulico ideato da Ctesibio nel
III secolo avanti Cristo. Questo è il genere d’infortunio occorso a Frank L.
Meshberger (An Interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam Based on
Neuroanatomy – Journal of American Medical Association, 1990 – 264 [14]:
1837-41), che in realtà stupisce solo fino a un certo punto, perché anche le
correlazioni che egli imbastisce tra i dettagli del dipinto e quelli che
dovrebbero essere i corrispettivi anatomici cerebrali sono a dir poco forzati:
in buona evidenza, siamo al tragicomico dei fatti sacrificati in una ipotesi nella
quale vanno troppo stretti. Non è un caso isolato, d’altronde, basti pensare al
più recente tentativo di Ian Suk e Rafael Tamargo, ricercatori della Johns
Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, che qualche anno
fa, su Neurosurgery, scrivevano di aver intravvisto l’anatomia della base
cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio nel pannello della
Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre.
Passi per lo
svarione del dottor Meshberger, che non possiamo neanche escludere abbia voluto
prendersi gioco dei lettori del Journal
of American Medical Association se la sua ignoranza della Storia della Medicina nasconde una sofisticatissima provocazione intellettuale, ma cosa dire del Covacich, che Wikipedia ci assicura avere una laurea in filosofia? In Platone v’è più
d’un cenno a una correlazione tra Nous e cervello, questo è vero, e sappiamo
che i neoplatonici Marsilio Ficino e Pico della Mirandola ebbero contatti con
Michelangelo: anche ammettendo, tuttavia, che per prodigiose virtù divinatorie il Buonarroti avesse nozioni anatomiche del cervello che sarebbero state conosciute solo un
secolo dopo, con un committente come il Papato di quei tempi, di solito
attentissimo all’aderenza dell’opera d’arte a dettami ritenuti indiscutibili,
un artista poteva prendersi certe libertà? Quale era, ai tempi di Giulio II, la
posizione della Chiesa riguardo alla filosofia di Platone? Non benevola,
diciamo. Bisogna aspettare il primo Novecento per trovare un teologo cattolico
che riesca a liberare la teoria platonica delle Idee dall’accusa di contraddire
la dottrina, che l’accompagnava fin dal III secolo. In tale contesto,
Michelangelo poteva ritenersi libero di raffigurare Dio come un Nous in forma di
cervello? Avrebbe mai potuto rappresentarlo come «ipostasi neoplatonica di
qualità cerebrali che l’uomo riceve in dono»?
Senza titolo, al momento
«
La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante d’ogni sua parte»
Eugenio Montale, Gerarchie
Riprendo
la riflessione sui sistemi elettorali che ho interrotto in questo punto: «In
mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e
che anzi abbia inclinazione a frammentarsi, considerare assolutamente
preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente
all’ingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di
governabilità porta ineluttabilmente a limitazioni del diritto di
rappresentanza» (Una premessa – Malvino, 23.1.2014). Qui pongo la seguente
questione: con la forte limitazione del diritto di rappresentanza che si è
avuta coi sistemi elettorali in adozione dai primi anni ’90, si è ottenuta la
tanto agognata governabilità?
Ad evitare che sul termine governabilità si possa
cadere in fraintendimento, cerchiamo di metterci d’accordo sul suo significato
affidandoci a ciò che Gianfranco Pasquino afferma nell’omonima voce
dell’Enciclopedia Treccani: parrebbe che in se stessa la governabilità sia concetto
assai vago, ma che acquisti un senso a considerare il suo rovescio,
l’ingovernabilità, intesa come instabilità del quadro politico cui consegua
l’impossibilità di una salda azione di governo da parte di una maggioranza
democraticamente designata a quel ruolo. E tuttavia questa stabilità è in se
stessa garanzia di governabilità? Non ancora, perché anche una stagnazione è
stabile. Quanto alla salda azione di governo, poi, siamo dinanzi ad un concetto politicamente neutro, perché non dà alcuna misura della sua efficacia.
Potremmo
azzardare che la governabilità sia il miraggio più frequente nel deserto della
ingovernabilità: un mito che nasce dal bisogno di dare allo Stato la forza che
lo giustifica in quanto Stato (sull’assunto troviamo singolarmente d’accordo
Lenin, Schmitt e Weber), e di trarla, quando la democrazia non riesca a
ricavarne dalle urne una adeguata, da un’applicazione del principio
maggioritario che la renda tale sottraendo proporzionalità alle opzioni
espresse, facendo così prevalere artificiosamente la maggioranza relativa (spesso
assai relativa) con un premio aggiuntivo per il numero di eletti. In pratica, si
crea forza di governo sottraendone alle opposizioni nella misura necessaria a
renderla adeguata alla governabilità.
Non occorre un occhio di lince per
scorgere che in questo modo la forza di governo è frutto di un mero artificio,
e che la sua legittimità è surrettizia.
[segue]
mercoledì 5 febbraio 2014
[...]
Non ho trovato
un solo argomento valido tra quelli usati da chi è sceso in polemica col M5S
in questi ultimi giorni, e sì che
non ne mancavano. E invece sono piovute accuse risibili, tanto più ridicole
quanto più si strepitava all’inaudito, perché in parlamento e fuori, in settant’anni
circa di vita repubblicana, c’è stato chi è riuscito a far ben peggio, contro
il codice e contro il galateo. Non me ne stupisco più di tanto, perché ad
essere più critico nei confronti dei grillini è stato proprio chi è corso
appresso a loro con più affanno, e fino a poche settimane fa: se gli argomenti
validi non li trovava allora, perché aspettarsi li trovasse ora? Il sospetto è
che chi in questi giorni ha sparato ad alzo zero sul M5S voglia rimuovere
l’imbarazzo di aver fatto male i propri conti, di essersi illuso che si trattasse
di una bestia addomesticabile, di un’anomalia riassorbibile: incapace di coglierne
il precipuo, ieri, incapace di coglierlo, oggi, perciò costretto a
rappresentarselo come accidente. La stessa cecità dei sussiegosi panzoni dello
Stato liberale in crisi dinanzi agli strambi manifesti di futuristi e
sansepolcristi: il socialismo era in piena mutazione genetica, e i fessi arricciavano
il naso alla volgarità di quei pantaloni alla zuava, di quegli incomprensibili
vocalizzi da barbari. Non voglio tediare il mio lettore, rimando ai numerosi
post che ho dedicato al M5S, e aggiungo che rimango saldo nell’opinione che ho
espresso in quelle occasioni. Non sarà un bel giorno quando il M5S arriverà al
30% o addirittura al 37% – so bene che oggi sembra impossibile, anche il 25% sembrava
impossibile l’anno scorso di questi tempi – però almeno di una cosa potremo consolarci:
un’oclocrazia belluina divorerà una oligarchia inetta.
[...]
Non mi sono mai spinto a chiedere che «the Holy See
assess the number of children born of Catholic priests, find out who they are
and take all the necessary measures to ensure the rights of these children to
know and to be cared for by their fathers, as appropriate», confesso che a questo non ero mai arrivato. Riguardo al resto,
lo dico con un sorrisetto da stronzo dipinto sulle labbra, il documento che l’Onu ha licenziato sugli abusi sessuali commessi da membri del clero cattolico a danno di minori sembra un copia-incolla di ciò che ho scritto tante volte su queste pagine negli anni passati.
martedì 4 febbraio 2014
L’ossessione della «famiglia normale»
La
famiglia è l’ossessione di chi ha vissuto la propria infanzia in una famiglia problematica,
e non c’è affatto bisogno che essa avesse notevoli particolarità per causare
problemi al piccolo, perché anche una famiglia cosiddetta normale è in grado di
causarne. È che «normale» vien da «norma», che vuol dire «legge», e in questo
caso rimanda a «natura», che però è pure sinonimo di quella che in statistica è detta
«moda», cioè «il valore che compare il massimo numero di volte in una
successione finita». Non è il caso di tirarla troppo per le lunghe, però anche «valore»
ha il suo ambiguo, perché rimanda – insieme – a un punto posto su una scala e ad
una logica che pretende di informare il senso di un bene, e non fa differenza
che sia materiale o immateriale. Un gran bel guaio quando si è costretti a
ricorrere a termini cotanto ambigui, e il guaio più grosso si rivela nel fare i
conti con la cosiddetta «famiglia normale», che da un lato potrebbe definirsi
come realizzazione di un disegno trascendente anche quando la si concepisce
come espressione di una «legge» di «natura», perché mai come in questo caso la «natura»
è intesa tanto «dentro» all’uomo da stargli in realtà «sopra» e «prima», e dall’altro
coincide col modello di famiglia conforme alla «moda» in un dato tempo e in un
dato spazio, che di solito costituisce il posticino più rassicurante sotto
una campana di Gauss. È questo che dà un tono tragico al tizio con l’ossessione
della «famiglia normale»: a dover rendere conto di quale «norma» sia informato
il modello di famiglia che per lui è ideale, non può far altro che indicare una
«legge» di «moda», rivelando che il suo «valore» è dato esclusivamente dalla
misura del suo esservi conforme. Si presenta come il difensore di un disegno
trascendente, ma a grattarne via il superficiale strato retorico che lo ricopre
emerge il conformista.
Un
esemplare campione di questo genere di ossessione è Giuliano Ferrara e ad
illustrarne il tragico è il suo editoriale in prima pagina su Il Foglio di martedì
4 febbraio, che prende a spunto la vicenda di cronaca che ha per protagonista
Woody Allen, che una sua figlia adottiva, oggi ventisettenne, ha accusato di atti di
pedofilia che si sarebbero consumati oltre venti anni fa. Dice di non essersi fatto un’opinione precisa su ciò che Dylan
Farrow ha raccontato al New York Times, anzi, dice di credere sulla parola a Woody
Allen, che ha dichiarato trattarsi di falsità, e aggiunge di non volere approfittare
di un’accusa che «sulla scala spettrale del desiderio rimosso» potrebbe nascere
solo dal «rapporto anaffettivo tra una figlia e un padre» per vendicarsi di quel «nichilismo
relativista», che a lui sta terribilmente sul cazzo, di cui i film di Woody
Allen sarebbero il manifesto. In pratica, lo fa. E non ha alcun pudore ad
ammetterlo: «Se non mi
vendico, e limito la vendetta alla sua sconcia e cinematicamente efficace attitudine
al relativismo etico, per lui non piango. Faccio come lui. Non piango, ma non
insinuo. Non ne ho bisogno. In fondo, basta che funzioni». Non ha bisogno di
insinuare che storiacce del genere possano verificarsi solo in un ambiente
moralmente degradato e culturalmente tarato: comunque stiano realmente i fatti,
un presunto pedofilo che ha un modello di famiglia alternativo a quello «normale»
(qui è preso ad esempio quello illustrato da Woody Allen in Whatever works) non
merita le garanzie che, fosse soltanto in termini di solidarietà, sono dovute a
un presunto pedofilo che su questo piano sia un sano conformista.
Superfluo
sottolineare che siamo all’ennesimo sproposito di argomentazione cui Il Foglio
ci ha abituato fino alla noia, ma forse non è del tutto inutile rammentare che al
«relativismo etico» dei nostri tempi bui Giuliano Ferrara riusciva ad imputare
pure gli abusi sessuali commessi su minori da membri del clero cattolico.
Pedofilo o no, insomma, chi è per una famiglia diversa da quella «normale»
sarebbe in parte responsabile, ancorché involontario, di ogni atto di
pedofilia, compresi quelli commessi da chi, almeno a chiacchiere, professa
fede incrollabile nel modello di famiglia «normale». Quanto sia assurda questa
posizione, che pure ha l’estremo pudore di andarsi a rintanare in un volvolo
logico sfacciatamente specioso, è inutile dire: basti il rilievo storico che la
pedofilia è sempre esistita, e si trasmette da abusato ad abusante come il
cognome paterno nelle famiglie perbene. Quanto, poi, all’ossessione per la «famiglia
normale», non c’è bisogno di scavare troppo nella biografia di Giuliano
Ferrara, basta chiedersi donde vengano i suoi disturbi alimentari. In quanto
alla famiglia che si è costruito, infine, non si capisce dove sia la «norma» che
dichiara necessaria, se non nel fatto che la signora Selma è indubitabilmente femminuccia, come lui è indubitabilmente maschietto.
domenica 2 febbraio 2014
[...]
«Non c’è più differenza reale fra tempo libero e tempo del lavoro: fusi nella travolgente rapidità della vita odierna, annullati dall’ansia del vuoto che spinge a riempire ogni spazio della giornata, i due momenti si confondono in un assillante attivismo, condizionato dall’invadenza delle nuove tecnologie. La
smaterializzazione del lavoro e l’assunzione in prima persona di una serie di
microattività che prima erano svolte da altri, nell’illusione di risparmiare e godere
di maggior autonomia, hanno cancellato i confini di ciò che si fa per gli altri
e ciò che si fa per sé. La grande innovazione (o la grande impostura, a seconda
dei punti di vista) della società postindustriale è proprio quella di essere
riuscita a unire otium e negotium, senza distinzioni sociali. Gli apocalittici
potrebbero obiettare che una società in cui non c’è differenza fra tempo libero
e tempo del lavoro è oppressiva e falsamente democratica, esercita il controllo
totale sugli individui con l’alibi di una libertà senza limiti. Che l’homo
ludens sia tornato e non abbia bisogno di imposizioni per lavorare è un’illusione
rafforzata dalla tecnologia. Invece, senza saperlo, lavora anche quando si
diverte, nella convinzione, già propria di Schiller, che “l’uomo è interamente
uomo solo quando gioca”».
Carlo
Bordoni (la Lettura-Corriere della Sera, 2.2.2014)
giovedì 23 gennaio 2014
Una premessa
Dire
che la democrazia è la «forma di governo in cui il potere è retto dal popolo»
(De Mauro) è corretto, ma forse si può dire meglio: è la «forma di governo che
si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la
partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico»
(Treccani). Entrambe, tuttavia, sono definizioni riduttive, perché non danno
conto dello strumento col quale la democrazia si realizza, sicché a «dottrina e
costituzione politica che assegna la sovranità di uno stato al popolo, il quale
la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti» (Palazzi), penso sia da
preferire la definizione di «forma di governo in cui il potere viene esercitato
dal popolo tramite rappresentanti liberamente eletti (democrazia
rappresentativa) o senza intermediari (democrazia diretta)» (Devoto-Oli)
oppure, con maggior cura al dettaglio, «forma di governo basata sull’uguaglianza
e la libertà di tutti i cittadini e in cui la sovranità risiede nel popolo; in
particolare, si parla di democrazia diretta, quando, attraverso la convocazione
di un’assemblea plenaria, il popolo è consultato per qualsiasi decisione di
ordine pubblico, e di democrazia rappresentativa, quando esso elegge delle
persone e degli organi che li rappresentano» (Zanichelli).
Pedanteria?
Può darsi, ma se vogliamo discutere di sistema elettorale, cioè dello strumento
col quale si dà corpo a una democrazia rappresentativa, occorre non perdere di
vista il fine, che è quello di trovare il miglior equilibrio, da un lato, tra
libertà e uguaglianza, e, dall’altro, tra rappresentatività e governabilità, ed è in
tal senso, che va segnalato il rischio di fraintendere un termine come popolo. Se
è vero, infatti, che la democrazia deve evitare che il potere stia nelle mani di
uno o di pochi, non può tuttavia consegnarlo in quelle di tutti, ma solo in quelle di
una maggioranza, il che vuol dire che a tutti deve assicurare una rappresentanza
in parlamento, ma non al governo. Potremmo così concludere, in via preliminare,
che una democrazia rappresentativa degna di tal nome si realizza quando il
popolo dà alla maggioranza la garanzia di governo e alla minoranza – meglio, alle
minoranze – la garanzia di controllo e di critica, cioè di opposizione, assicurando
la possibilità di una reale alternanza di ruoli.
Se non
si sollevano obiezioni a quanto fin qui detto, possiamo scendere nel concreto,
dove dobbiamo prendere atto che non sempre
– in Italia, mai –
una maggioranza è assoluta, il che
pone un problema di non poco conto. Dovendo, infatti, assicurarle la garanzia
di governo, occorre in qualche modo evitare che questa le sia sottratta dalla
garanzia di opposizione assicurata alle minoranze, la cui somma degli eletti sia
numericamente superiore a quella degli eletti per il partito o la coalizione di maggioranza relativa, e soprattutto quando la loro frammentazione renda impossibile l’alternanza. In pratica, occorre che il
principio di rappresentatività ceda, in qualche misura, in favore di quello
di governabilità, il che mette ineluttabilmente in discussione, e in pari misura, quel
proporzionale puro che sembrerebbe il più adatto ad assicurare una effettiva rappresentanza a tutti. Non è
il solo paradosso che la democrazia è chiamata a sciogliere, ma qui il nodo è
assai intricato, perché, a penalizzare troppo il principio di rappresentatività
in favore di quello di governabilità, si rischia una dittatura della maggioranza relativa, mentre al contrario il rischio è quello
di una paralisi del potere.
Prima di passare a discutere di sistemi elettorali, dunque, occorre avere ben presente che, in mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e che anzi abbia inclinazione a frammentarsi (poco importa per quale motivo), considerare assolutamente preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente all’ingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di governabilità porta
ineluttabilmente a limitazioni del diritto di rappresentanza.
lunedì 20 gennaio 2014
«... i radicali hanno convinto Sturzo e Salvemini...»
La cialtronaggine di quest’uomo non ha limiti. Qualche anno fa disse: «Sturzo fa l’esperienza in America e torna antiproporzionalista, uninominalista e presidenzialista». Difficile farlo quadrare con quanto dice oggi: se Sturzo diventa un sostenitore del maggioritario perché «convinto» dai «radicali», delle due una, o i «radicali» sono andati in America a convincerlo o erano già lì, anche se mai nessuno ne ha segnalato la presenza. Scherzo, naturalmente, perché è falso sia quanto affermò qualche anno fa, sia quanto afferma oggi. Come ho abbondantemente argomentato su queste pagine (1, 2, 3), Sturzo torna in Italia nel 1947 e non si dichiara pubblicamente a favore del maggioritario prima del 1953. [Qui basti rammentare che nel 1948 scrive: «Fortuna o sventura, noi europei continentali siamo così divisi per idealità, per interessi e per metodi da non poter ridurre la lotta politica ai due partiti classici dei paesi anglosassoni» (Opera omnia, vol. I), e nel 1954: «Non pochi si meravigliano della mia recente opposizione alla proporzionale» (Opera omina, vol. V), dove quel «recente» taglia la testa al toro]. A fargli cambiare idea non furono affatto i radicali, anche perché il primo Partito Radicale nasce nel dicembre del 1955, e fino a qualche mese prima il termine «radicale» era sepolto nella storia, spazzato via dal fascismo, per essere ripreso solo dal 1949 in poi, sulle pagine de Il Mondo di Pannunzio, ma mai per far riferimento a un movimento politico, ancorché da costruire, tanto meno in fieri, e questo almeno fino al 1954.
Facciamo uno sforzo, ma uno sforzo bello grosso: ammettiamo che il cialtrone non sia un cialtrone e che si sia solo espresso male, concediamo che volesse dire che a convincere Sturzo ad abbandonare il proporzionale in favore del maggioritario siano stati quegli Amici del Mondo che costituiranno l’embrione del primo Partito Radicale. Regge? Neanche così regge, perché molti di loro rimarranno sostenitori del proporzionale anche dopo aver dato vita al Partito Radicale. Un esempio? Nicolò Carandini, che tra gli Amici del Mondo, prima, e nel Partito Radicale, poi, sarà figura eminente.
Posizione che, almeno fino all’inizio del 1953, e in diversi casi anche oltre, fu analoga a quella di Pannunzio, di Cattani, di Craveri, di Ferrara e molti altri. Questi sarebbero gli argomenti che convinsero Sturzo al maggioritario?
Si potrà obiettare che tra gli Amici del Mondo c’era qualcuno a favore del maggioritario e dell’uninominale: non può essere stato lui a convincere Sturzo? Obiezione respinta: si trattava di Salvemini, ma il cialtrone dice che anche lui arrivò ad essere un fautore del maggioritario e dell’uninominale perché «convinto» dai «radicali», e qui si fa ancora più fatica a individuarli, visto che Salvemini torna in Italia nel 1949, e da almeno tre o quattro anni è un critico del sistema proporzionale (cfr. Per la riforma elettorale, Alfredo Guida Editore 2000, una raccolta di suoi articoli che coprono tutto l’arco temporale della sua revisione).
Per finire, l’enorme bufala che «i radicali hanno la stessa posizione di lotta e ufficiale per l’uninominale maggioritario da cinquant’anni». Basta consultare la sezione dell’archivio del Partito Radicale che comprende gli anni dal 1955 al 1998 o, in alternativa, il motore di ricerca dell’archivio di radioradicale.it, che raccoglie la gran parte degli audio che documentano l’attività politica del movimento dai primi anni ’70 ad oggi, per avere prova che maggioritario e uninominale diventano proposta politica non prima del 1986: fino a quell’anno se ne fa vago accenno solo in due articoli apparsi su Notizie Radicali, nell’aprile del 1970 e nel settembre del 1976, e in entrambi i casi senza alcuna presa in carico di quello elettorale anglosassone come modello auspicabile per l’Italia. I radicali, dunque, hanno questa posizione da meno di trent’anni, e per amor del vero occorre dire che l’assunsero per ragioni del tutto funzionali alla crisi di consenso che cominciavano ad accusare nella società italiana, alla ricerca di uno stabile accasamento in uno dei due grandi blocchi che prospettavano nella versione italiana di quel bipartitismo di tradizione anglosassone che con maggioritario ed uninominale sarebbe stato di lì in poi l’obiettivo dichiarato, a dispetto di una posizione sostanzialmente terza, quando in Italia si ebbe la stagione del bipolarismo, sia in seno al centrodestra che al centrosinistra.
domenica 19 gennaio 2014
(passo e chiudo)
Soprattutto
grazie al serrato scambio tra lettori di opposta opinione, perché di mio in
questa occasione ci ho messo davvero poco, su questo blog nei giorni scorsi s’è
avuto un gran bel discutere di sperimentazione
animale in campo medico (1, 2, 3). Discussione che è andata subito al cuore del
problema – la fondatezza o meno degli argomenti antispecisti – perdendo così un
po’ di vista la dimensione integrale dell’oggetto del contendere. Penso sia
giusto richiamarla, e vorrei farlo proponendo un passaggio dell’intervento
tenuto da Silvio Garattini nel corso del convegno su «Sperimentazione animale e
diritto alla conoscenza e alla salute» tenutosi a Roma lo scorso 14 gennaio.
Credo non abbia bisogno di commenti, ma vorrei attirare l’attenzione su un dato che è messo in risalto all’inizio dell’intervento e che in buona evidenza costituisce un paradosso: chi è contrario alla sperimentazione animale tiene a rimarcare le differenze tra uomo e animale sul piano «fisico» per poi considerarle irrilevanti su quello «metafisico». Paradosso che potrebbe sembrare ribaltato in campo avverso, dunque anche qui patente in egual modo, pur se con segno diverso, e tuttavia qui è paradosso che si scioglie nella mancata pretesa di fondare la dignità del vivente sulla base di mere caratteristiche biologiche, anatomiche, fisiologiche, ecc. Siamo, insomma, al nodo del concetto di «valore», sul quale torna utile la lezione di Carl Schmitt: «Se qualcosa ha valore, e quanto ne ha, se qualcosa è un valore, e in quale misura, lo si può stabilire soltanto in base a un punto di osservazione, un punto di vista già posto. [...] Non si tratta quindi di idee, né di categorie, né di principi, né di premesse. Sono propriamente punti. Essi si collocano nel sistema di un puro prospettivismo» (Die Tyrannei der Werte, 1960).
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