1. Qualche
giorno fa, per biasimare il malvezzo di imbastire paralleli tra ruoli, organi e
momenti della Chiesa e quelli che ne dovrebbero essere i corrispettivi in qualsivoglia
forma di Stato – tentazione alla quale si cede sempre quando si fa fatica a
capire cosa accade in Vaticano – mi sono servito di un passo tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli, nel
quale l’incomparabilità dei sistemi è interdetta da una peculiarità del
principato ecclesiastico che manca a quelli di ogni altro genere (non sarà l’unica
peculiarità, ma tutte le altre concorrono a determinarla, o ne discendono): si
arriva a prenderne le redini «o per virtù
o per fortuna», ma anche «sanza l’una
e l’altra si mantengano». Un modo come un altro per dire che anche al papa
più sconsiderato non si può impedire l’esercizio della «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa»
(Codice di Diritto Canonico, Can.
331): anche se è un perfetto coglione, rimane «il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei
vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23; Catechismo
della Chiesa Cattolica, 882), e niente e nessuno può scollarlo dalla cima
del cucuzzaro, finché è vivo. Ogni eccezione a questa regola, peraltro rara, non
abbatte la differenza con tutte le altre forme di governo, nemmeno con le altre
monarchie assolute, dove può ben capitare che il sovrano venga defenestrato
dalla plebe o dalla nobiltà.
2. Al
netto del modo morbido che ha scelto, questo è quanto Bergoglio ha tenuto a
precisare nel discorso tenuto in chiusura del Sinodo straordinario su Le sfide pastorali sulla famiglia nel
contesto dell’evangelizzazione, rammentando che «per volontà di Cristo stesso» può decidere come cazzo gli pare, e
che ogni documento licenziato dall’assemblea dei vescovi non ha altro valore
che quello consultivo. Illuminato da questo memento, l’invito a non lesinare in
parresia rivolto al Sinodo in apertura dei lavori acquista un significato
ambivalente: da un lato, rimane esortazione a esplicitare senza riserve le
proprie opinioni sulle questioni in discussione, di modo che ogni decisione che
seguirà prenda ragione del terreno sul quale andrà a cadere; dall’altro,
diventa lo strumento col quale il Principe saggia le potenziali resistenze dei
suoi subalterni alla decisione cui intendessero esprimere parere contrario, con
ciò neutralizzandone di fatto ogni effetto, poco importa se intimidendoli,
prima, o demansionandoli, dopo. Anche in questo, come per il resto, la
differenza con ogni altro genere di principato è posta dall’inamovibilità di
chi regge il governo ecclesiastico, ma qui c’è da segnalare che era dai tempi
di Pio IX che non si sentiva un papa rammentarlo ai vescovi, e la cosa è tanto
più significativa se si pensa al fatto che Bergoglio ha fin qui esibito piena
aderenza a quello spirito di collegialità che dal Concilio Vaticano II in poi fa
velo all’inemendabile primato petrino. Segno di debolezza, doverlo rammentare,
ma anche prova del fatto che senza obbedienza al papa verrebbero meno non già la
sua virtù e la sua fortuna, ma quelle dello stesso principato ecclesiastico,
che così smetterebbe di avere la peculiarità gli assicura il vantaggio su tutti
gli altri tipi di principati. Ci fosse bisogno di prova in dettaglio, possiamo
prendere in considerazione Caffarra, tra i più duri oppositori alla proposta di
Kasper, vicinissimo alle posizioni di Bergoglio: al termine del discorso del
papa (*), si è affrettato in enfasi di gesto e in trepidezza di verbo, più che
esplicito nel labiale, a riconfermare la sua obbedienza a Bergoglio, qualunque
cosa vorrà decidere per la pastorale, in culo alle sue solidissime argomentazioni
dottrinarie che gli hanno procurato fama di fiero resistente ad ogni novità.
3. Tutto questo rende insensato anche il dibattito che segue alla chiusura del Sinodo straordinario tra gli osservatori esterni alle cose vaticane. Ci si chiede chi abbia vinto e chi abbia perso. C’è chi dice che abbiano vinto gli oppositori alla linea di Bergoglio e chi dice che comunque questa abbia avuto la meglio, non foss’altro perché non si potrà più liquidare certe realtà come perdite della grazia sacramentale o violazioni della legge naturale. C’è chi dice che la partita si sia chiusa in pareggio e che tutto venga rimandato al 2015. Considerazioni che non hanno alcuna solida ragion d’essere e che al più rivelano l’incapacità di cogliere che «dall’ambizione de’ prelati nascono le discordie e li tumulti infra e’ baroni» (Il Principe, XI), ma non fra papa e vescovi: ogni contrapposizione immaginata tra Bergoglio e parte del Sinodo è mera proiezione della mentalità laica su quella clericale, ogni lotta politica che cerca corrispettivo in una disputa teologica o in una controversia dottrinaria non ne trova mai la posta in gioco, prima ancora di non trovarne i modi. I vescovi si azzuffano, quando decidono di far finta, per dare rappresentazione plastica di un dissidio che non è interno alle gerarchie ecclesiastiche, ma ai vasti piani bassi dell’ecclesia.
[segue]