lunedì 26 gennaio 2015

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Francamente assurde, le pretese di Raffaele Fitto. Sembra gli sfugga la ragione prima e ultima di Forza Italia, partito che è proprietà privata di Silvio Berlusconi, fondato per tutelare i suoi interessi. Lamenta «una resa incondizionata ai diktat di Matteo Renzi», Raffaele Fitto, e sembra non aver chiaro che il sì di Silvio Berlusconi a ciò che Matteo Renzi chiede potrà far perdere altri voti a Forza Italia, forse, ma torna utile a Silvio Berlusconi, senz’alcun dubbio. Il sì all’Italicum, col premio di maggioranza attribuito alla lista e non più alla coalizione, coi cento capilista bloccati: Raffaele Fitto lamenta che questo significa rendere insignificante l’opposizione di Forza Italia, peraltro limitando enormemente il numero dei deputati eletti con le preferenze. Appunto, no? Chi in Forza Italia può contare su un consenso personale, per aver radicato bene sul territorio, lo piglierà in culo e abbasserà la cresta. Un numero di parlamentari forzisti assai più esiguo, poi, sarà un problema solo apparente: saranno sempre abbastanza per tornar utili a Matteo Renzi, se le opposizioni interne al Pd dovessero minacciare di far venir meno la maggioranza parlamentare. Raffaele Fitto sembra non voler capire che, per tornare utile a chi ne è proprietario, un partito non ha bisogno necessariamente di vincere le elezioni. Basta che torni utile, meglio se indispensabile, a chi va al governo. Il patto del Nazareno, in fondo, non è che questo: Silvio Berlusconi sfrutta al meglio la crisi di consenso, e Matteo Renzi non può che accontentarlo, per poter fare del Pd un partito personale, in cui le opposizioni interne contino meno di quello che contano adesso, contino quanto Raffaele Fitto conta in Forza Italia. Se stupisce che Raffaele Fitto non l’abbia capito, stupisce ancora di più non l’abbia capito Daniele Capezzone, cui non dovrebbero essere ignote le logiche di un partito personale: dovrebbe sapere che agli interessi personali del leader che è proprietario del partito si può e si deve sacrificare tutto, anche il consenso elettorale. Passi per Raffaele Fitto, che sembra non capirlo, e si muove come un signorotto della Dc dei tempi andati: per Daniele Capezzone è lecito pensare si tratti di stupidità, stupidità senza speranze. 

domenica 25 gennaio 2015

«Che pretendi?», ho detto

L’odio è un sentimento che si è soliti infamare, ma per mera convenienza, per quel debito di ipocrisia che ci accolliamo per essere accettati in società. Non lo infamiamo solo per offrire agli altri la faccia più gradevole, quella mansueta, quella non pericolosa: quello che ci costringe a dire che siamo incapaci di odiare, o almeno che evitiamo, e sempre con piacere, senza sforzo, fino al paradosso di dichiarare che odiamo l’odio, è il fatto che, quando non produce gli effetti voluti, spesso assai al di sopra delle nostre forze, l’odio rivela un nostro fallimento, rendendoci ridicoli, e in società il ridicolo uccide. Questo accade pure con l’amore, ma l’amore si accontenta d’essere ricambiato, mentre l’odio è sempre più esigente, spesso chiede l’impossibile, soprattutto fa più fatica dell’amore ad arrendersi, anzi, nel non trovare soddisfazione s’invigorisce, e non è affatto raro che per trovare ristoro si ritorca su chi odia, infliggendogli una doppia sconfitta, dunque rendendolo ancor più ridicolo. Chi odia, insomma, rischia di più, molto di più. Si finisce per risolversi a non odiare, il che è disumano, sennò a dissimulare l’odio al meglio, per lo più sublimandolo. Conveniente, senza dubbio, ma profondamente ingiusto. C’è sempre un prezzo da pagare nel rinunciare all’odio e spesso è sempre più salato del ridicolo che ci si procura odiando senza riuscire a produrre gli effetti voluti. L’odio è un sentimento forte, bello, nobile, tragico come tutti i sentimenti, e come tutti i sentimenti va curato, certo, ma non corrotto.

Ogni tanto prendo a caso uno dei tanti quadernetti riempiti in gioventù e rileggo qualche pagina. Quella che ho ritrascritto qui sopra, mettendo solo un poco d’ordine alla punteggiatura, reca la data del 6 luglio 1980: l’ho riletta stamane, fumando la prima sigaretta della giornata. Ero più saggio allora, ho pensato. Forse un po’ più goffo, com’è naturale quando si ha solo poco più di vent’anni, ma senza dubbio assai più saggio. Nel fondo, mi son chiesto, queste cose non le pensi anche adesso? E saresti capace di scriverle esattamente come le scrivevi allora? Vabbe’, mi son risposto, che ci vuole? Copio e pigio «invia». E così mi ero ripromesso di fare, ma poi all’ultimo momento ho constatato che in calce avevo scritto «6.7.1980»: una vigliaccheria, tentavo di dissociarmi.
«Hai visto?», m’ha chiesto il ventitreenne di allora. «La pensi come me, ma non riesci a sottoscrivere quello che ho scritto senza prendere le distanze. E che distanze! Ci metti in mezzo sette lustri e così salvi la faccia, fellone!».
«Che pretendi?», ho detto.
«Che ti prendi la tua parte di ridicolo: spara il nome di uno che odi. Ma di uno che odi veramente, fino alla tua ultima cellula. Uno che, potendo, ti lavoreresti di rasoio e fiamma ossidrica per secoli e secoli».
«Mi vergogno», ho detto.
Mi ha riso in faccia e ha detto: «Vabbe’, lasciamo perdere. Rimettimi nello scaffale e cerca di non venire più a rompere il cazzo».

sabato 24 gennaio 2015

Al netto

Pensate un attimo alla differenza che, almeno sulla carta, sta tra un matrimonio religioso, che è un sacramento, e cioè un «segno sensibile ed efficace della grazia, istituito da Cristo per la santificazione dei fedeli», e un matrimonio civile, che invece è un negozio giuridico, e cioè un «atto mediante il quale il privato è autorizzato dall’ordinamento giuridico a regolare interessi individuali nei rapporti con altri soggetti». Differenza enorme, senza dubbio, ma appunto solo sulla carta, perché basta mettere a confronto Codice di Diritto Canonico e Codice Civile per constatare che i diritti dei coniugi sono pressoché simili, e così i doveri, sia quelli reciproci, sia quelli verso i figli. Ad evitare che quanto affermo sollevi contestazioni, ripeto: diverso il significato che i due codici danno al matrimonio, diverso l’apparato normativo che ne regola la fattispecie, ma il carico dato ai coniugi è sostanzialmente lo stesso, e ovviamente parlo dei codici attualmente vigenti.
Differenza enorme, tuttavia, sembrerebbe esservi nel fatto che il matrimonio religioso è indissolubile e quello civile no, ma anche qui solo sulla carta, mentre sul piano pratico l’annullamento, previsto dal Codice di Diritto Canonico, dà effetti sostanzialmente simili a quelli del divorzio, previsto dal Codice Civile. Cosa consenta il divorzio a chi si sia sposato con un matrimonio civile è noto, e altrettanto cosa consenta l’annullamento a chi si sia sposato con un matrimonio religioso: anche qui, sulla carta, sembrerebbero esservi enormi differenze, però, con una sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a riconoscere i casi in cui a uno o a entrambi i coniugi sarebbe mancata la consapevolezza riguardo agli impegni derivanti da un matrimonio religioso al momento di contrarlo, all’annullamento sia arriva anche più in fretta che al divorzio. In entrambi i casi, Chiesa e Stato prendono atto che quei due non possono più vivere sotto lo stesso tetto, e il fatto che la Chiesa ci aggiunga che non avrebbero mai potuto, perché il matrimonio è sempre stato nullo, fa differenza, certo, e anche bella grossa, soprattutto per quello che riguarda gli strascichi, ma in sostanza gli effetti finiscono per essere coincidenti. Anche qui: diverso il significato che i due codici danno al fatto che due coniugi non debbano più essere considerati tali, diverso l’apparato normativo che regola il come ci si arrivi, ma il carico dal quale vengono liberati è lo stesso. Anche qui: se parliamo dei codici attualmente vigenti. 
Su quanto segue, invece, mi aspetto forti obiezioni. Affermo, infatti, che la sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a dichiarare la nullità di un matrimonio non sia altro che il tentativo – quanto conscio non saprei, ma azzarderei non troppo – di rendere competitivo il matrimonio religioso rispetto a quello civile: nell’impossibilità di poter rivedere il vincolo di indissolubilità, la Chiesa viene incontro alla crescente difficoltà di tenere in piedi un matrimonio religioso con la disponibilità a considerarlo nullo, poi vai a capire quanto entri in gioco la misericordia e quanto la santissima cazzimma. I matrimoni religiosi validi, dunque, sarebbero quelli che si mantengono in piedi, gli altri non lo sarebbero mai stati: un modo come un altro per ribadire il primato del matrimonio religioso in quanto sacramento.
Di qui il frequente tornare di Bergoglio sulla necessità che la Sacra Rota agevoli nei tempi e nei costi i procedimenti di annullamento: più sarà chiaro che il matrimonio religioso offre una via d’uscita più agevole del divorzio, più facile sarà invertire la tendenza che da decenni lo vede sempre meno favorito rispetto a quello civile. Anche in questo, come per il resto, Bergoglio rincorre il secolo, e con strumenti relativamente efficaci. Solo relativamente, però, perché, come per il resto, rischia grosso. Se, infatti, come ha affermato ieri, «il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata [perché] questa eventualità  non va più ritenuta eccezionale come in passato, data la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa», la validità di un matrimonio religioso resta confermabile solo a posteriori, cioè se nessuno dei coniugi solleva la questione della sua invalidità col dichiarare l’esistenza a priori di una «riserva mentale circa la stessa permanenza dell’unione, o la sua esclusività». C’è bisogno di indicare dove si annidi l’insidia alla fede stessa?

venerdì 23 gennaio 2015

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In Isole, il secondo dei capitoli di Caro Diario, c’è uno straordinario Renato Carpentieri che interpreta Gerardo, «un amico [di Nanni Moretti] che si è ritirato lì [a Lipari] undici anni fa [e che] da allora sta studiando solamente l’Ulisse di Joyce». Gerardo vanta con orgoglio di non guardare mai la tv («Mai, sono trent’anni che non la guardo più»), ma è accompagnando l’ospite in un giro per le Eolie, alla ricerca di un’isola in cui poter lavorare in pace, che incappa in una puntata di Beautiful che fatalmente lo incanta da un televisore acceso a bordo di un traghetto. Un Ulisse che cede al canto delle Sirene, potremmo dire. In un niente, Gerardo diventa teledipendente, al punto che alla fine dell’infruttuosa ricerca del posto giusto dove trovare un po’ di concentrazione, approdando ad Alicudi, «l’isola più lontana, l’isola più selvaggia», dove non arriva l’energia elettrica e dunque neanche la tv, è preso da una violenta crisi d’astinenza, e fugge via, imprecando contro Enzensberger e Popper: ma quale zero-medium, ma quale unftaithful servant, la tv è l’Omero dei tempi moderni.
Calcando un po’ la mano, com’è naturale quando si vuole pungere sul vivo, Brunella mi ha paragonato a Gerardo per l’attenzione che durante le vacanze di fine anno ho dedicato alle dodici puntate di Gomorra, la serie televisiva tratta dall’omonimo volume di Roberto Saviano, andata in onda l’anno scorso su Sky Atlantic e da me allora fieramente snobbata. È cominciato coll’incappare in una parodia della saga dei Savastano (The Jackal), la curiosità m’ha portato all’originale (su Youtube ho trovato tutte le puntate della prima serie) che ho letteralmente divorato con godimento non inferiore a quello provato qualche anno fa, quando m’incapricciai della Congiura dei Pazzi sprofondandomi nella lettura di tutto ciò che ne era stato scritto. Quando poi sono passato a colmare un’altra enorme mia lacuna tra i fondamentali, guardando tutte le puntate della prima e della seconda serie di Romanzo criminale, che fino a quel punto avevo sempre evitato anche di striscio, ho avuto serio conflitto interno e, temendo di scivolare sempre più in basso, semmai arrivando ai Sopranos, ad House of Cards e Dio solo sa a cos’altro, ho messo fine all’andazzo, mi sono ricomposto e per punizione mi sono inflitto la rilettura dell’Estetica di Benedetto Croce.
E però bisogna dirlo, Stefano Sollima è un gran figlio di puttana. Come sirena, dico, ha un canto ammaliatore niente male. Un poco ti vergogni a dire che sa cucinare intingoli da farti sbavare, anzi, te ne vergogni assai, ma, quando capisci che devi cominciare a vergognarti, è tardi: l’hai fatto e t’è piaciuto. E allora ti castighi considerando che «l’arte contemporanea, sensuale, insaziabile nella brama dei godimenti, solcata da torbidi conati verso una malintesa aristocrazia che si svela ideale voluttuario o di prepotenza e crudeltà, sospirando talora verso un misticismo, che è altresì egoistico e voluttuario, senza fede in Dio e senza fede nel pensiero, incredula e pessimistica, e spesso potentissima nel rendere tali stati d’animo, quest’arte che i moralisti vanamente condannano, quando sia poi intesa nei suoi profondi motivi e nella sua genesi, sollecita l’azione, la quale non volgerà certo a condannare, reprimere o raddrizzare l’arte, ma a indirizzare più energicamente la vita verso una più sana e profonda moralità, che sarà madre di un’arte più nobile di contenuto e, direi anche, di una più nobile filosofia», ma poi fanculo Benedetto Croce, che solo per il tempo che ti ha fatto perdere dovresti spararlo in bocca. 

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giovedì 22 gennaio 2015

Il royal baby

Troverete ben poca politica nel libricino scritto da Giuliano Ferrara (Il royal baby, Rizzoli 2014), anche se si presenta come «breve conversazione sul nuovo nato», e cioè su Matteo Renzi, a mo’ di instant book sul Patto del Nazareno. In realtà, si tratta di un monologhetto dal quale si potrebbe trarre il testo d’una pièce teatrale, coll’io narrante in proscenio e sul fondale, a scorrere, immagini d’archivio, quelle sì tratte dalla cronaca politica, da quella più recente a quella che ormai data trent’anni. La politica, insomma, sta dietro il discorso, che qui non è lectio e non è oratio, anche se assume la maniera qua dell’una e là dell’altra: va in scena il caso umano, il personaggio che tira le somme della propria esistenza, nella quale la politica – più che altro, i suoi rumori – hanno fatto da colonna sonora.
In questo senso, l’incipit è onesto: «A me è necessaria la politica. Non posso vivere senza i suoi travestimenti, le frodi, l’impostura, i segreti […] Non posso vivere senza l’imprevisto, l’inimmaginabile, il callido. Ho bisogno della legge bronzea, della forza che dispiega l’intelligenza di una cause célèbre, la controversia, il bagno di odio metaforico, la violenza della rottura costruita con il compromesso necessario». Della politica, in buona evidenza, qui si descrive l’atto, non già il fatto – d’altronde non è escluso che per Giuliano Ferrara la politica possa ritenersi puro atto (ovviamente cosa un po’ diversa dal gentiliano «atto puro», ma non troppo distante) – e tuttavia che il fatto abbia una sua ratio, di cui l’atto non è che rappresentazione, ci era sembrato non gli sfuggisse in pagine più seriamente meditate, come nella prefazione a Scrittura e persecuzione di Leo Strauss (Marsilio, 1990) o in quella a La saggezza della fronda. Massime del Cardinale di Retz e di François de La Rochefoucauld (Giuseppe Laterza, 2001). Qui, no.
Qui, come in una fin de partie, sembra che la categoria del politico (schmittianamente inteso) riduca amico e nemico a mere marionette di un teatrino, svilendo la tragedia a dramma, a comédie humaine, mentre l’Ausnahmezustand si contrae in un eccitato stato d’ansia, che ci si sforza di sentire stuzzicante. Quanto possano aver giocato i recenti problemi di salute e la severa dieta alimentare cui è stato sottoposto (al momento con buoni risultati, nell’ultimo anno deve aver perso almeno venti chili) è questione che andrebbe approfondita, sta di fatto che in questo libricino (poco più di 120 pagine, di 21 righe ciascuna, per 50 battute a riga: su Il Foglio sarebbe entrato tutto in tre paginoni di inserto) c’è solo una patina di dottrina, e ad un colpetto d’unghia salta, rivelando che sotto c’è solo umore, e solo in apparenza buono. Anche dove parrebbe dispiegarsi un metodo, nel tentativo di costruire un sistema, tutto abortisce nella provocazione, nel gusto un po’ malato di scandalizzare: «Quel che serve non è un Paese migliore […] Quel che serve è una rete di interessi corporativi combinati, che non esclude patti trasversali e inconfessabili doppi, tripli giochi, sempre nascosti dietro la fiera denuncia dei patti col demonio stipulati dagli avversari del momento». Così quando sembrerebbe stia prendendo avvio un ragionamento sulla natura del potere in era postdemocratica: «La leadership personale [...] è questo: non ci sono più partiti come sistema, non cè un ceto produttivo e borghese, non cè lintellighenzia, non cè la classe con la sua rappresentanza, il populazzo è come in Guicciardini “mille volte uno pazzo”, si muove flessuoso tra unelezione e laltra, è disponibile allavventura, al fidanzamento, non appartiene più, non resta che la persona, luomo solo al comando di se stesso che prova a manovrare il consenso diffuso dellinterdizione del mugugno, dellinfluenza e della furbizia». Bene, e dunque? «In questo, Renzi, allievo naturale del suo venerato predecessore, è ben piazzato». Stop.
Nulla del trattatello, dunque, anche se di tanto in tanto il tono fa il verso all’encomiastica di certi scrivani del XVI e del XVII secolo, che tra un inchino e l’altro infilavano un consiglio. C’è tanto di quell’io, in questo libricino, che Silvio Berlusconi e Matteo Renzi sembrano maschere, e maschere sembrano i tanti citati nelle ultime 20 pagine, dove l’io si veste addirittura di terza persona, per una breve autobiografia che cede alla celebrazione e pecca di pesante autoindulgenza, sebbene un po’ attenuata da qualche gigionismo e tante strizzatine d’occhio. Per chi conosce i fatti come davvero sono andati (Pino Nicotri, L’arcitaliano Giuliano Ferrara, Kaos 2004), questa storiella, che negli ultimi dieci anni ci è stata riproposta almeno cinque o sei volte, sembra un training autogeno. Così con Matteo Renzi, che poi «non è nemmeno il mio tipo», ma è che «volevo un vendicatore di questi vent’anni [e] l’ho avuto». Non gli è difficile convincersi che può dirsi soddisfatto del film che ha visto: ha vociato durante la proiezione, la trama ha preso la piega che voleva, esce dal cinema con la sensazione di aver concorso alla sceneggiatura. Non gli è difficile, soprattutto, presentare Matteo Renzi come figlio naturale di Silvio Berlusconi: stessa tecnica d’un Marco Travaglio, ovviamente rovesciando il segno.
Nulla di nuovo, dunque, si tratta di un libricino pressoché inutile. Prezzo di copertina 15 euro, scontato del 25% già a due settimane dall’uscita, a presto sulle bancarelle degli invenduti a 2 euro. Se volete comprarlo, vi conviene aspettare.  

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Guarda un po’ a cosa ci riduce, l’andazzo dei tempi: siamo costretti a trovare sennate, addirittura bene argomentate, perfino ottimamente espresse, le ragioni di un Paolo Cirino Pomicino. Certo, conviene chiudere un occhio sulle cause che trova all’andazzo (tutto sarebbe dovuto allo smarrimento di una democristiana arte di governo) e alle soluzioni che prospetta (ci vorrebbe il presidenzialismo, ancorché con opportuno sistema di contrappesi), ma l’analisi non è corretta?


martedì 20 gennaio 2015

Famiglia numerosa sì, famiglia numerosa no

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Bergo’, aspe’ ché ti sbobino un attimo le cazzate che hai detto in aereo al ritorno dalle Filippine, così chiariamo ’sta questione di tua madre, del cazzotto, eccetera, con stretto rigor di termini.
Tu dici: «In teoria, possiamo dire che una reazione violenta davanti a una offesa o a una provocazione – in teoria, sì – non è una cosa buona, non si deve fare. In teoria, possiamo dire quello che il Vangelo dice: che bisogna dare l’altra guancia». Ora, non è per impiccarti alle parole, che pure, essendo papa, dovresti calibrare bene prima di lasciarle uscir di bocca, ma tu, nell’intervista concessa all’andata, hai detto testualmente che un cazzotto dato a chi ti offendesse mamma è «normale». Non so se a Buenos Aires il termine ha un significato diverso, ma in italiano significa «regolare», «esemplare», «conforme», «logico», ed estensivamente «umano», «naturale», «comune». Tutto ciò, oggi, lo poni in antitesi alla «teoria» del messaggio evangelico, e allora, scusa, fammi capire: starai mica a dire che, sul come si deve reagire ad un’offesa, il Vangelo ci dà un precetto illogico, innaturale e disumano? Sarai mica nietzchiano o anche stavolta ne hai sparate due così, tanto per dire, e ti son venute a carajo de perro?
Ma procediamo. Tu aggiungi: «In teoria, possiamo dire che abbiamo la libertà di esprimerci. E questo è importante. Sulla teoria siamo tutti d’accordo, ma siamo umani e c’è la prudenza, che è una virtù della convivenza umana. Io non posso insultare, provocare, una persona continuamente perché rischio di farla arrabbiare, rischio di ricevere una reazione non giusta. Ma è umano, quello». Anche qui, consentimi, non ti seguo proprio. Tu dici che abbiamo libertà di esprimerci, e su questo non puoi immaginare quanto io ti stimi, pensando a quelle merde dei tuoi predecessori che sulla libertà di espressione avevano idee un pochino diverse. Non so se ad ammettere che gli uomini abbiano la libertà di esprimersi tu ci sia arrivato da solo o non abbia avuto bisogno di qualche aiutino da quei pensatori che fino allo scorso secolo finivano all’Indice, ma qui non è il caso di stare a sottilizzare: sappiamo che a suon di bastonate il mulo impara. La questione è un’altra: è che anche qui tu dici «in teoria», e solo per creare un’antitesi tra ciò che è giusto «in teoria» e ciò che «normalmente», «umanamente», smette d’esserlo. Fino a quando lo fai con il Vangelo, cazzi tuoi. Ma affermare che la libertà di espressione sia una cosa bella, buona e giusta, ma che debba fare i conti con chi non lo pensa, e che a conti fatti debba trovare il modo di reprimersi sennò è «normale» debba aspettarsi una reazione violenta, beh, non ci siamo proprio.
Non corro il rischio di averti capito male, perché tu dici testualmente: «Per questo dico che la libertà di espressione deve tener conto della realtà umana e perciò dico che deve essere prudente». Sarà reticenza tutta ovattata, ma in sostanza tu dici che, se con la mia libertà di espressione io do fastidio ad uno che non la tollera, io devo rinunciarvi, sennò è «normale» ch’io mi pigli il cazzotto che chi è contrario alla mia libertà di esprimermi possa ritenere giusto, a suo parere, io mi pigli. Dico: per caso usi un aereo che ha problemi di pressurizzazione?
Di là della questione posta in generale, tuttavia, resta un problema: che fine fa il cazzotto che qualche giorno fa tu minacciavi di dare a chiunque offenda tua madre? Voglio dire: tu sei per la «teoria» che insegna il Vangelo o per quella che a te pare «normalità» se riferita a ciò che definisci «umano»? In altri termini: quando parlavi di tua madre, il «tu» eri davvero tu o era un «tu» impersonale? Essendo papa, non è questione da poco. Perché mettiamo che domattina io mi svegli e decida di esprimere una libera opinione su tua madre o sulla tua fede, che a torto o a ragione tu possa recepire come offesa, mi pare sia fondamentale sapere se mi aspetta in risposta la «teoria» evangelica o la «normalità» dell’uomo che si lascia andare a una «risposta non giusta». Bada bene: la «risposta non giusta» potrebbe essere «normale» in risposta a qualcosa che risulti offesa a te, ma che in realtà lo sia solo a voler dare per scontato, contro ogni «teoria», che la mia libertà di espressione debba fermarsi dinanzi a ciò che tu ritieni intangibile al mio giudizio, se non positivo.
Ti faccio un esempio, via. Metti caso che domani, a reti unificate, sento dirti le solite cose, quelle indimostrabili, che o ci credi o no: che Dio esiste, che si è incarnato in un uomo detto Gesù, il quale è nato da una vergine che è rimasta tale dopo il parto, la quale l’avrebbe concepito senza aver avuto rapporti sessuali, e che ’sto Gesù poi è morto, ma è risorto, insomma, Bergo’, le solite cose, che a te sembreranno cose serie, ma a me fanno un po ridere e un po girar le palle. Bene, ho libertà di esprimermi e dire che sono stronzate? Comprendo che tu possa sentirla come offesa, ma dove va a finire la mia libertà di espressione se non ho il diritto di dire ciò che penso riguardo a ciò che tu ti senti in dovere di dire? Che fai, mi sferri un pugno come farebbe un islamista che ha lasciato a casa il kalashnikov o abbozzi? Capisci bene che la differenza è grossa, e sta nel capire se giustifichi la «risposta non giusta» in nome di un’«umanità» che ti apparenta all’islamista. 
Ma tu dici: «La prudenza è una virtù umana che regola i nostri rapporti. Io posso fino a qui, di qua, di là. E questo volevo dire, che in teoria siamo tutti d’accordo, c’è la libertà di espressione, una reazione violenta non è buona, è cattiva sempre, tutti d’accordo, ma nella pratica fermiamoci un po’, perché siamo umani e rischiamo di provocare gli altri. Per questo la libertà deve essere accompagnata dalla prudenza. Quello volevo dire». Perfetto, però ti rendi conto che, con questo bizzarro modo di intendere la prudenza, il limite che separa il «di qua» dal «di là» può deciderlo solo chi eventualmente possa dare anche una «risposta non giusta»? Ce n’è di che ritenere offensiva la  sola presenza di un cristiano in terra d’islam, e bruciarlo vivo sarebbe certamente una «risposta non giusta», «in teoria», mentre la prudenza necessaria consisterebbe, per il cristiano, nel fare bagagli e andare via: stride un po’ col dichiararlo martire, se resta e lo bruciano vivo, non ti pare? Che facciamo in questo caso: gli diamo dell’imprudente? A mio modesto avviso, Bergo’, hai le idee assai confuse, come d’altronde è inevitabile accada quando si pretende di trovare la quadra tra logica e senso comune, tra dottrina e vita, tra principi e cazzi propri.
Così con la questione dei figli, che a farne troppi il cristiano smetterebbe d’essere pecora, come dovrebbe, e diverrebbe coniglio. A parte il fatto che un tizio con quattro, sei o dieci figli potrebbe a buon diritto ritenersi offeso, scordarsi per un attimino ogni «teoria» e, consentendosi una «risposta non giusta», però «umana», sferrarti un cazzotto in piena faccia: grondando sangue dal naso rotto, te la sentiresti di dire che tutto è dovuto ad una tua imprudenza? Bergo’, fattelo dire: sei una frana. 

lunedì 19 gennaio 2015

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Molta più gente fuori il Pirellone, a contestare, che dentro, al convegno di omofobi già ampiamente pubblicizzato, le scorse settimane, da altre contestazioni. Legittimo contestare queste merdacce, ma contestandole si fa loro il gran favore di enfatizzarne la visibilità, per giunta consentendo possano assumere posa da vittime. Comprendo quanto sia difficile non reagire a un certo tipo di provocazioni, ma farlo è proprio quanto nel calcolo di queste insopportabili facce da schiaffi. L’arma davvero micidiale è ignorarle del tutto, ma se si è miti, e ci si accontenta di infliggere loro qualche ferita, può bastare il coro: «Sce-mi! Sce-mi!». Senza rabbia, però, con un sorriso largo. Niente di più che «Sce-mi! Sce-mi!», e si vaporizzano in pochi mesi.

domenica 18 gennaio 2015

Una proposta

Ogni volta che c’è da mandarne uno nuovo al Quirinale, è sempre la stessa storia: da chi ha il pieno controllo su consistenti pacchetti di deputati e senatori a chi non controlla bene nemmeno i propri sfinteri, tutti a puntare su un Presidente della Repubblica di proprio gradimento. È umano, sia chiaro, ma l’esperienza insegna che questo genere di scommessa è quasi sempre persa in partenza, e tuttavia nessuno sembra capace di rinunciarvi. Non io. Fosse per me, ad esempio, previo ritocco dell’acconciatura, al Quirinale manderei Luciano Canfora, ma su di lui non scommetto neanche un euro, neanche avanzo la proposta: un Presidente della Repubblica deve rappresentare l’unità nazionale e un paese come questo non può affatto essere rappresentato da una persona tanto intelligente, retta e signorile. La mia proposta è un’altra, ed è proposta che invece di rincorrere i miei gusti personali vuol essere un concreto aiuto a chi tra qualche giorno sarà chiamato a decidere: propongo Francesco Rutelli, che non ho in alcun conto, né come uomo, né come politico, ma che – qui e ora – mi sembra il candidato perfetto. Bella presenza. Cattolico. Amico di quasi tutti, ma non troppo. Mai avuta un’idea in vita sua, il che infonde tanta serenità. Da qualche tempo ai margini della vita politica, il che fa tanto super partes. Uno splendido pendant tra due corazzieri, pensateci. Insomma, signori deputati, signori senatori, rinunciando ad ogni personale gradimento, pensando unicamente al bene supremo della nazione, io propongo lui. A chi di voi avesse qualche dubbio faccio presente che, a differenza di Romano Prodi, Giuliano Amato, Pietro Grasso e tutti gli altri nomi che circolano in questi giorni, Francesco Rutelli sarebbe capace di starsene buono buono per sette anni, tra vasellame e arazzi, senza colpi di testa o entrate a gamba tesa. Pensate, poi, a una first lady come la Palombelli. 

venerdì 16 gennaio 2015

giovedì 15 gennaio 2015

Mamme

Bergo’, io non conosco tua madre, quindi non posso parlarne, né male, né bene. Certo, una mezza idea ce l’ho – me la son fatta proprio oggi, sai?, e grazie a te, grazie a quella sparata da gradasso di suburra – però, ripeto, non la conosco e sospendo il giudizio. Mettiamo caso, tuttavia, la conoscessi, avessi prova certa che da giovane ne abbia combinate d’ogni genere e che oggi sia una vecchiaccia petulante e ipocrita, un decrepito bagascione che si dà arie da gran signora, una pazza fottuta che vaneggia senza posa per giunta pretendendo ossequio, pensi che dirtelo in faccia sarebbe farti offesa? Sì, capisco, la mamma è sempre la mamma, e poi tu vieni da uno di quei paesi dove la mamma, prima di essere la mamma, è un’istituzione, un feticcio che concentra in sé ben altro, capisco che la sentiresti come offesa e, almeno per quanto mi riguarda, sta’ sereno, io non aprirei bocca. Tutt’è a intenderci, però, su un punto che a mio modesto avviso è essenziale. Se tu una mammina così te la tieni chiusa in casa, nulla quaestio. Se però la porti in giro, e la esibisci con orgoglio pretendendo che tutti la considerino la migliore donna al mondo, e quando apre bocca vuoi che tutti stiano a sentirla come fosse la quintessenza della saggezza, beh, fattelo dire, fanculo a te e a tua madre: mi prendo la libertà di dire che lei è quello che è e che tu sei suo degno figlio.
Oh, sia chiaro, metto in conto che tu mi possa tirare il cazzotto che minacciavi oggi a chiunque ti sfiori mamma, ma tu metti in conto il fatto che io mi possa difendere e romperti il culo. Poi ci sarebbe un’altra questione, collaterale ma strettamente conseguente. Ad avere una mamma impresentabile potresti non essere da solo. Qualcuno come te, convinto che la sua sia la migliore mamma al mondo, potrebbe ritenere che tenerla chiusa in casa sia proprio un peccato, che sia giusto portarla in giro, sotto braccio, dicendo a tutti: «Questa è la mia mamma, donna eccezionale, pozzo di sapienza e vetta di bontà. Fatele l’inchino, offritele dei fiori, ditele che è bella, buona e tanto, tanto, tanto intelligente». Capisci bene dove sorga il conflitto, no? A consentire questo a figli come voi, si sprecherebbero le occasioni di fare a pugni, e a passare dai pugni al coltello quanto ci vuole? E dal coltello alla pistola?
Ovviamente si allegorizza, Bergo’, d’altronde quando dicevi «mamma» intendevi dire «credo», no? Bene, allora si dà il caso che su tua madre io non possa dire nulla, ma sul tuo credo sì, e anche su quello dei terroristi che hanno fatto fuori la redazione di Charlie Hebdo, ai quali oggi hai offerto una ragione di legittimo risentimento. Oh, sì, hai detto che uccidere per difendere l’onore della propria mamma non è bello, non si fa, ma occorre fare proprio a te la lezioncina sulla natura della violenza, cazzotto o pallottola che sia? Credi davvero si possa far tutta questa differenza – torno all’allegoria – tra quella gran zoccola di tua madre e quella degli islamisti? Hai fatto cenno a quando era giovane: «Pensiamo alla nostra storia – hai detto – quante guerre di religione abbiamo avuto! Pensiamo alla notte di San Bartolomeo! Anche noi siamo stati peccatori su questo, ma non si può uccidere in nome di Dio, questa è una aberrazione». Uccidere no, dunque, o almeno non più, però cazzotti sì. E, di grazia, a cosa equivarrebbero i cazzotti a chi fa satira mettendo a nudo le vostre mamme?        

domenica 11 gennaio 2015

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La Costituzione recita che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53), dunque qualsiasi norma che non ne tenga conto è incostituzionale, com’è nel caso di una legge che fissi per tutti i contribuenti, indipendentemente da quale sia il loro reddito, la stessa soglia di rilevanza penale alla percentuale di reddito evaso. Così è per l’art. 19 bis del decreto sul fisco che il Governo annuncia per il 20 febbraio, e non sorprende che a rivendicarne la paternità sia lo zotico che lo presiede, né che per farlo sfoggi la faccia di cazzo con quale solitamente intende rappresentarci la fierezza d’essere zotico.
Ma la Costituzione recita pure che spetta al Presidente della Repubblica «autorizza[re] la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo [ed] emana[re] i decreti aventi valore di legge» (art. 87). Così, il 20 febbraio, vedremo il nuovo Presidente della Repubblica alla sua prima prova di garante della Costituzione.

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Gli avanzi di banlieue che sublimano in jihad il proprio disagio esistenziale trovano i loro migliori alleati in quanti ce li dipingono come avanguardie dell’attacco che da qualche tempo l’islam avrebbe mosso all’occidente giudaico-cristiano. Si dovrebbero portare in tribunale come complici dei terroristi, questi stronzi, non importa se in buona o cattiva fede.

venerdì 9 gennaio 2015

Coda

Molte email di protesta, alcune accompagnate da insulti, mi costringono a tornare su quanto ho scritto in morte di Pino Daniele.


Se uno ama la città in cui è nato, la lascia solo è costretto a farlo. La lontananza gli causa nostalgia. Vi ritorna ogni volta gli sia possibile, anche se solo per poco. Nulla di tutto questo nel caso di Pino Daniele. Lasciò Napoli per sua scelta, appena ebbe modo di comprarsi una casa altrove. Su quella decisione non tornò mai indietro, né diede modo di fare intendere gli fosse dolorosa. Andò a vivere ad appena due ore di auto da Napoli, ma per anni e anni evitò di metterci piede. Ancora nel 1993 diceva di non volervi neppure tenere un concerto e, quando nel 1998 si decise a farlo, nelle due settimane di preparazione all’evento, la sera preferiva tornare a dormire a Sabaudia. Poi, certo, tutto sta nel metterci d’accordo su cosa significhi Napoli. La sfogliatella di Scaturchio? Il Cristo velato del Sanmartino? Totò e il ragù? E allora sì, possiamo dire che Pino Daniele amasse Napoli. Se invece per Napoli intendiamo la stragrande maggioranza dei napoletani – il minimo comune multiplo e il massimo comun divisore di quei vizi morali che ne fanno il carattere trasversale alla più lercia plebe, alla più vile borghesia, alla più fatiscente nobiltà – non possono esserci dubbi: Pino Daniele non la sopportava, non la sopportava affatto. E teneva a marcare le distanze: «Io non sono figlio di Napoli… È un popolo che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello» (Corriere del Mezzogiorno, 3.6.2011). Più di tutto, odiava come questa Napoli le si stropicciasse addosso e coi funerali in Piazza Plebiscito ha pagato con interessi salatissimi l’averla tenuta a debita distanza. Quando diceva: «Io amo e odio Napoli», parlava di due Napoli diverse: la prima era la città che non avrebbe mai avuto il bisogno di lasciare, quella che forse immaginava fosse esistita un tempo, e chissà quando, o quella che avrebbe potuto finalmente essere (fidava in Antonio Bassolino, povero Pino Daniele!); la seconda era quella reale, a cominciare dalla famiglia di provenienza. Coi funerali in Piazza Plebiscito a Pino Daniele è stata inflitta la punizione che era impossibile infliggergli da vivo: mummificarlo in icona della napoletanità, quel tappeto sempre più logoro sotto il quale si continuano a nascondere secoli di sporcizia. Un altro comodo pretesto di fierezza per gente che forse, e dico forse, avrebbe una pur minima speranza di riscatto nel cominciare col vergognarsi di se stessa. 

giovedì 8 gennaio 2015

«Non siamo e non saremo mai domati»

L’intervista concessa da Vincenzo Gallo, in arte Vincino, a Eleonora Martini, per il manifesto di giovedì 8 gennaio, è assai più divertente di tante sue vignette. «Continueremo ad essere irriducibili… La satira non si ferma, non è addomesticabile… Seppure feriti gravemente, non siamo e non saremo mai domati…», cose così, come da scampato per miracolo alla strage consumatasi ieri in rue Serpollet. Cosa abbia a che fare, l’umorismo di Vincino, con la satira di Charlie Hebdo, difficile capirlo. Quando mai Vincino abbia sfidato chi davvero potesse fargli male, non si sa. In quanto alla posa da duro e puro, sprezzante di ogni pericolo, che qui culmina in un intenso «non fai questo mestiere con la paura», corre alla mente la volta che lo vedemmo chinato a pecora non già davanti a un terrorista islamico, ma a un direttore, non già per aver offeso Allah, ma l’editore.


mercoledì 7 gennaio 2015

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Un’altra infornata di cardinali dalla quale resta fuori. Sapendo quanto tiene alla porpora, starà soffrendo anche stavolta come un cane, poveraccio. Indispensabile, perciò, una parola buona. E dunque. Coraggio, Rino, e sappi che ti son vicino. Se vuoi sfogarti un poco, non fare cerimonie, chiamami, ché due o tre belle bestemmie in circostanze simili sono liberatorie, e a me non fanno né caldo né freddo. Ciao. 

martedì 6 gennaio 2015

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Pino Daniele odiava Napoli, almeno questo è quanto mi confessò nell’estate del 1976, al termine di un concerto che tenne ad Ischia Ponte, davanti a non più di due dozzine di spettatori, mi pare che il biglietto costasse tremila lire. Poi, sì, l’odio è un sentimento ambivalente, e allora possiamo dire pure che l’amasse, ma tacere dello schifo che provava per i peggiori difetti dei napoletani – basta leggere come si deve Napul’è, ’Na tazzulella ’e cafè e Terra mia – significa fargli un grosso torto, piacesse o non piacesse la musica che componeva. Pino Daniele apparteneva a quella minuscola percentuale di napoletani che di Napoli non sono disposti a sopportare quella rassegnazione, quel fatalismo, quella strafottenza, quella pusillanimità, quella furbizia da servi e quel viscido sentimentalismo che taluni riescono perfino a esibire con orgoglio come un carattere che esige uno statuto di antica nobiltà: se ne hanno la possibilità, fuggono via, e appena poté farlo Pino Daniele lo fece. Il fatto che usasse il dialetto napoletano significa poco o niente, di fatto la sua musica non ha nulla di napoletano, né della tradizione classica, né di quanto su quella è venuto a imbastardirla, per lo più caricaturizzandone i tratti. Era un apolide, si era scelto un linguaggio fuori d’ogni contesto regionale o nazionale, e in quanto al carattere, scontroso com’era, più che napoletano lo si poteva dire abruzzese, friulano, tutto, ma non napoletano. Vedere come Luigi De Magistris si avvoltola nel suo sudario, come a farsene un tabarro, è spettacolo vomitevole. Ancor più, però, lo è il vedere una città intera che fa finta di piangere – lacrime finte, di quelle vere non è più capace da secoli – e del morto non aver capito un cazzo.  

lunedì 5 gennaio 2015

Quando un’azienda dal marchio prestigioso... / 2

Con quel «si sa che l’omosessualità è creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non è naturale e non è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi» (Il Foglio, 2.1.2015), deve aver avuto qualche noia, e allora eccolo correre ai ripari. Il nodo della questione è quel «non è naturale», che suonava come «non è fisiologico», dunque come «patologico», buono solo ad invischiare Il Foglio della merda che tra poco spargerà La Croce. Ecco, allora, che Ferrara si affretta a spiegarci la differenza che c’è tra lui e Adinolfi: l’omosessualità è un peccato, pensare che sia una malattia è «una scemenza col botto», è «intolleranza ignorante».
Ve l’avevo anticipato già a settembre, rammentate? «Quando un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti – scrivevo – all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim. Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. […] È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi» (Quando un’azienda dal marchio prestigioso...Malvino, 16.9.2014). Ma era settembre, l’uscita de La Croce era ancora lontana, e «non siamo ancora a questo punto – scrivevo – con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in provincia». Ora, invece, la cosa comincia a diventare imbarazzante, perché il prodotto contraffatto non si limita a far concorrenza, ma minaccia di svalutare l’originale. La dinamica di mercato è nota, gli esperti del settore dicono che ne tocca un buon 20-30%: il rischio, in questo caso, è che l’omofobia dozzinale di Adinolfi sollevi la questione di quanto veramente valga quella sofisticata di Ferrara. Perché – avvisavo – «solo a un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato [il parallelo era con le borse di Louis Vuitton originali e quelle contraffatte]. È differenza che al momento si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi».
Si preoccupa solo alla vigilia dell’uscita de La Croce, Ferrara, e cerca di recuperare il ritardo, ovviamente con qualche affanno. Ma quale malattia! L’omosessualità è peccato, sennò tutto è malattia, e allora «tutti abbiamo bisogno di essere curati e soprattutto di essere lasciati in pace». E poi, che cazzo, parlarne come di una malattia non è «riportare la cultura cristiana e cattolica dentro le ossessioni ideologiche del tempo, mettendo la psicologia comportamentale e altre bellurie dentro la nuova evangelizzazione»? E in fondo non erano ricchioni pure Socrate, sant’Anselmo e il cardinale Newman? «Le tirate di san Paolo contro i sodomiti sono le benvenute, perché parlano di peccato e non di malattia», ma, per l’amor del cielo, si eviti «l’irrigidimento caricaturale e clinicizzante dei materiali culturali non negoziabili che furono lo stigma d’intelligenza di una lunga stagione cattolica e laica del contemporaneo». Ecco, qui sta il punto: La Croce è una caricatura de Il Foglio. E questo l’avevamo intuito. Quello che ci sorprende è che Ferrara sia assai più preoccupato di quanto fosse prevedibile aspettarsi. Come se Louis Vuitton volesse innanzitutto convincere se stesso che il pregio di una sua borsa stia tutta nel marchio, il che finisce per risultare ingeneroso verso la qualità dei materiali, che in questo editoriale di lunedì 5 gennaio sono daltronde esaltati in modo fiacco, quasi stanco. Ma forse si riuscirà a fare di meglio nei prossimi giorni.