giovedì 5 marzo 2015

In entrambi i casi, anche se per vie diverse

Ho voluto che passasse qualche giorno dalla diffusione del video che documenta la distruzione delle opere d’arte conservate nel Museo di Mosul ad opera degli uomini dell’Isis, perché quello che avevo da dire era fuori tema rispetto alle questioni sollevate, che d’altronde erano pienamente legittime, ma a mio modesto avviso superficiali, e per superficiali non intendo dire vacue o frivole, ma – letteralmente – poste in superficie al problema vero, che – voglio dirlo subito – è relativo all’esegesi biblica di Es 20, 4.
Innanzitutto c’era da descrivere, più che discutere, tutte le sfumature dell’orrore che un occidentale prova alla sola idea che un’opera d’arte dell’antichità vada distrutta per mano d’uomo. Sacrosanto orrore, indubbiamente. Fatta eccezione per il movimento futurista, infatti, e al momento non mi viene in mente altro, tutta la storia dell’occidente è storia di un vero e proprio culto delle opere d’arte del passato. E tuttavia mi è parso che questo orrore sia stato solo la trama emozionale sulla quale venivano intessute le questioni ritenute degne di attenzione. Erano originali, quelle statue, o copie? Qual era il fine ultimo di quel video? E appena un po’ più sotto a quell’orrore, ma ancora ben distante dal cuore del problema: tanta barbarie poteva dirsi aderente al dettato coranico, dunque propria della natura dell’islam, o invece era da considerare come ennesimo saggio di una lettura fondamentalista del Corano? Questione un po’ più seria, questa, ma solo in apparenza, perché il Museo di Mosul è stato costruito da musulmani, e da musulmani è sempre stato gestito, il che naturalmente ci dice poco o nulla sulla correttezza della lettura che essi hanno fatto del Corano relativamente al punto che vieterebbe la rappresentazione di persone e animali («O voi che credete, in verità, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli, le frecce divinatorie, sono immonde opere di Satana» - Corano 5, 90), anche se un’idea possiamo farcela sapendo che «idoli» è espresso dal termine «ansab», che letteralmente è «pietra eretta» (statua, stele, obelisco), e che nel Libro questa relativa agli «idoli» non trova la solita ripetizione che è tipica di tutte le più importanti prescrizioni.
La faccenda è ancora più ambigua alla lettura degli hadith, che, com’è noto, sono le sentenze che cercano di far chiarezza sui versetti del Corano che si prestano ad interpretazioni controverse: secondo epoca e luogo, «ansab» conserva il significato restrittivo del termine o accoglie estensivamente tutto ciò che è «immagine», con un ventaglio normativo relativamente ampio, dalla tolleranza dell’«ansab», ma col divieto di produrlo, alla sua condanna, fino all’ordine di distruggerlo (e in quest’ultimo caso siamo nella piena tradizione degli hadith di scuola salafita).
Ciò detto, occorre chiederci donde possa trarre giustificazione esegetica la distruzione delle immagini di persone e animali. Qui, senza entrare troppo nello specifico, possiamo limitarci a dire ciò che vale in innumerevoli altre occasioni: il Dio del musulmano è lo stesso Dio dell’ebreo e del cristiano, come d’altra parte ebrei e cristiani non fanno fatica a riconoscere, anche se le differenze – e significative – sorgono quando si tratta di dargli i connotati del legislatore. L’islam, poi, si sente momento compiuto della vera fede che nell’ebraismo e nel cristianesimo vede stadi anteriori e ancora imperfetti.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.  

martedì 3 marzo 2015

Vicienzo ’a Funtanella

Sorprende, se non è di maniera, la sorpresa che i media riservano alla vittoria riportata alle primarie del Pd da Vincenzo De Luca (Vicienzo ’a Funtanella, per gli amici, a causa dei ridondanti spruzzetti di saliva che schizza quando il tono gli va sullo stentoreo): tenuto conto di cosa siano le primarie in una regione come la Campania, anche quando siano regolari, visto che le primarie, di per se stesse, hanno regole così lasche che tra l’una e l’altra ci passa pure un cane di grossa taglia portando una scopa in bocca; tenuto conto di chi erano i concorrenti, vuoi quello che s’è ritirato, più che altro per non inaugurare l’entrata nel Pd con una figura di merda, vuoi quello che ci ha provato, più che altro sacrificandosi per dare un minimo di pathos a una partita che tutti sapevano non avesse storia; tenuto conto di chi è Vicienzo, inteso come mito, e di come sono fatti gli elettori ai quali chiedeva il voto, inteso come tributo al mito; tenuto conto, soprattutto, di come butta la politica di questi ultimi tempi, la sua vittoria era largamente prevista, alla faccia della legge Severino, alla faccia del partito che lo implorava di fare un passo indietro, alla faccia della faccia di Gennaro Migliore, che per calarsi al meglio nella parte del candidato unitario unico s’era pure cambiato la montatura degli occhiali, che manco più sembrava un comunista, ma un amico d’infanzia di Matteo Renzi, quello che gli passava il compito di matematica. Una furia, Vicienzo, e cotanta cazzimma, cotanta guapparia, cotanta sfaccimma d’uomo – uomo, per giunta, di cotanta conseguenza – in Campania fanno il deus ex machina. Interdetto dai pubblici uffici, ma, come il tizio cui fai presente che corre come un pazzo e contromano, «e che è, ho acciso a quaccuno?». Benemerito della caccia alla puttana e al rom, piglio da federale col bastone animato, patrono dell’urbanistica in scala 1:1, mandibola da pugile, retorica ipertiroidea – e come poteva non vincere, Vicienzo? Non resta che vederlo menar le mani con Stefano Caldoro, ma già sembra di vederlo. «Giovinotto, ma è vero che andate coi trans? Non vi offendete, ohinè, era voce che girava tra i vostri amici di partito, io mi limito a darvi modo di smentirla».   

lunedì 2 marzo 2015

Segnalibro

Corrispondenze

Questo post è una lettera aperta in risposta a chi mi ha scritto dicendo che mi stima tanto, mi legge sempre con piacere, bla bla bla, ma s’incazza quando nego che le radici d’Europa siano cristiane, perché gli sembra che io voglia chiudere gli occhi su una realtà di fatto, e questo gli dispiace, perché gli pare che in questo modo io faccia torto alla mia intelligenza. Capirete bene che non posso lasciare nell’afflizione un lettore che mi insulta in modo così carino, dunque eccomi qui. Sarà un post lungo e noioso, che almeno a chi mi legge già da tempo consiglio di saltare senza indugio, perché qui ripeterò cose già dette.

Ciò premesso, caro ***, vogliamo innanzitutto metterci d’accordo su quello che debba intendersi con «cristiano»? Da quello che mi scrivi («in Europa ogni due passi c’è una chiesa, l’arte è piena di cristi e di madonne…») devo supporre tu voglia intendere quanto attiene al cristianesimo, dunque si tratterebbe di radici non più vecchie di venti secoli. Ammesso e non concesso che prima, col mondo greco e con quello romano, non si potesse propriamente parlare di Europa o che, in subordine, il mondo greco e quello romano siano stati solo il terreno dal quale le radici di cui parliamo abbiano tratto un qualche nutrimento, di quale cristianesimo parliamo?
Non di quello primitivo, suppongo, che nasce in Palestina, terra che con l’Europa c’entra assai poco, come corrente dell’ebraismo, in opposizione alla gerarchia che reggeva il Tempio di Gerusalemme, e nemmeno è detto ancora cristianesimo. Ti risparmio la sinossi delle convinzioni che nutrivano i primi seguaci del movimento, d’altronde ci sarebbe da perderci la testa per le differenze anche marcate riscontrabili tra una comunità e l’altra. Mi limito a dirti che solo un buontempone potrebbe intravvedere in quell’embrione qualcosa che abbia a che fare con quella che a quei tempi già si chiamava Europa, men che meno con quella che sarà l’Europa nei secoli successivi, e perfino con lo stesso cristianesimo di là a qualche decennio.
E allora sarà che le radici cristiane dell’Europa debbano essere cercate nel cristianesimo del II secolo? Nemmeno. In quel secolo il cristianesimo è ben diverso da quello che verrà dopo: è religione di classi agiate che si predispongono alla fine dei tempi, che è attesa da un momento all’altro. Ha già avuto qualche contaminazione con l’ellenismo, ma rimane ancora una profezia biblica, nella quale nessuna Europa precedente o da venire è neppure rappresentabile. Solo verso l’inizio del III secolo, visto che la fine dei tempi non arriva, i cristiani tornano a una vita più o meno normale, mentre si dovrà aspettare ancora un altro secolo perché il cristianesimo si faccia cristianità, comunità unitaria e gerarchizzata che mira a un’espansione senza limiti e a un controllo pieno di tutte le attività sociali. Fino a qualche decennio prima, i cristiani si disponevano sereni al martirio pur di non essere reclutati in un esercito, mentre da qui in poi sarà prevista la scomunica per quelli che abbandonano il servizio militare.
È in questo periodo, con Costantino, che il cristianesimo si fa europeo, innestandosi sul mondo romano, sulle sue tradizioni, la sua cultura, la sua storia, parassitando radici che erano già lì da almeno una dozzina di secoli. A parte, potremmo discutere di quanto il cristianesimo sia realmente cosa nuova o originale: in realtà, nasce già come momento sincretico tra l’ebraismo e i movimenti religiosi del più vicino oriente. Altrettanto a lungo si potrebbe discutere di quanto questo parassitamento abbia cambiato la natura delle radici greche e romane dell’Europa, ma, se dobbiamo leggere la storia senza usare la lente dal verso sbagliato, dal III secolo in poi troviamo più romanità nel cristianesimo che viceversa, d’altronde tutta la Patristica altro non è esegesi evangelica funzionale alla sovrapposizione della Chiesa sull’Impero.
È da questo punto in poi che viene meno la tolleranza verso le innumerevoli varianti dottrinarie che convivono nel mondo cristiano e che inizia la lotta a quelle che così diventano eresie. Di pari passo comincia a prender forma quella imperializzazione del cristianesimo che sarà fatto compiuto solo tra il V e il VI secolo, quando, neutralizzato per assorbimento quanto è riutilizzabile e non sopprimibile del paganesimo, la cristianità assume i caratteri distintivi che, con gli aggiustamenti del caso, manterrà fino a quando non si comincerà a metterla in discussione.
Il cristianesimo impone il suo segno sulle bandiere d’Europa per soli dieci secoli, dodici a volerci mantenere larghi. Dieci-dodici secoli nei quali può godere della pienezza dei mezzi necessari a impregnare di sé la vita di milioni di individui, dalla culla alla tomba, con la pervasività di una violenza che non risparmia niente. Non si tratta di «radici», caro ***, si tratta di rami e foglie che non lasciano spazio ad altro, e fra i quali ogni nido assume la forma del bozzolo, fuori dal quale è semplicemente negata la possibilità di vita e di pensiero. Nessuno nega che lo spazio storico e geografico detto Europa sia ingombro di questa vegetazione – non io, mai fatto, anzi – ma affermare che l’Europa o sia cristiana o non sia, onestamente, mi pare una bestialità.
In quanto al fatto che la sostanza antropologica solitamente detta Europa rechi il segno indelebile del cristianesimo, che neanche il suo avanzato stadio di secolarizzazione è fin qui riuscito a rendere indistinguibile, nulla quaestio: si tratta di quanto resta di una conquista, di tratta nel marchio a fuoco impresso sulle carni dell’animale. Cosa diversa è voler dare a questo segno un senso diverso: le assurdità, le ambiguità e le contraddizioni che usque ab ovo troviamo nel cristianesimo, e che pure acquistano una loro logica nel darsi in elementi dialettici all’interno di una storia, restano quel che sono anche nel loro precipitato, e dunque prefigurano la crisi del cristianesimo per cause che gli sono intrinseche, prima fra tutte il nodo tra immanenza e trascendenza stretto nel dogma dell’incarnazione, perché un Dio che s’incarna non può che fare una brutta fine, anche dichiarandone la resurrezione. In secondo luogo, dare al Dio unico un carattere trinitario: torna utile a inverare nella storia il suo corpo mistico, ma lo espone pure a pulsioni disgreganti.
Come vedi, caro ***, parlare di «radici cristiane dell’Europa» è un’operazione storiografica – insieme – ingenua e strumentale. Che di tanto in tanto venga riproposta, francamente, che palle.

P.S. Ho cercato di contattarti per avere il permesso di riprodurre il testo della tua lettera insieme a questa risposta, ma non mi hai dato cenno, così mi sono risolto a sintetizzarne il contenuto della premessa e a lasciarti nell’anonimato.    

domenica 1 marzo 2015

[...]

Quarantaquattro tra deputati e senatori dei gruppi del Pd (trentadue), di Area popolare (cinque), di Per l’Italia-Cd (cinque), di Scelta civica (uno) e di Lega Nord e autonomie (uno) scrivono una lunga lettera a Matteo Renzi, oggi sulle pagine di Avvenire, perché nel «Piano per la buona scuola» che il governo si appresta a portare in Parlamento vi siano misure di sostegno economico alla scuola privata, rammentandogli che fanno parte della maggioranza che sostiene il governo e producendo gli argomenti, i soliti, che fin qui sono bastati ad eludere l’art. 33 della Costituzione, laddove esso recita che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, [ma] senza oneri per lo Stato».
Non c’è dubbio che analoga iniziativa sarà presa anche da un nutrito numero di parlamentari del centrodestra, e che gli argomenti saranno identici, non escluso quello usato ogni volta che al governo c’è una coalizione almeno nominalmente di centrosinistra, e che torna anche in questa lettera, preso di peso da un articolo di Antonio Gramsci, pubblicato su Il Grido del Popolo il 14 settembre 1918, come ad ingiungere di onorare la fedeltà ad una prestigiosa tradizione culturale e politica: «Noi socialisti – scriveva Antonio Gramsci – dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola [è possibile solo se la scuola] è indipendente dal controllo dello Stato» (tra parentesi quanto è tagliato nella lettera pubblicata su Avvenire).
Orbene, occorre far presente che di denaro pubblico in favore di questa libertà non v’è traccia, né in questo passaggio, né nel resto dell’articolo. Anzi, a dire il vero, quanto precede il brano citato dagli appellanti chiarisce il contesto dal quale è estrapolata l’affermazione di Antonio Gramsci, dandole il suo corretto significato: «Ferve nei giornali e nelle riviste cattoliche la discussione sulla scuola libera. I cattolici propugnano l’abolizione del monopolio di stato sulla scuola, perché sperano che il monopolio passi nelle loro mani. Noi crediamo che i cattolici sbaglino nel fare i conti: è vero che i preti, in quanto godono di uno stipendio e hanno tutta la giornata libera, si troverebbero in condizione di partenza privilegiata nel gioco della concorrenza. Ma appunto il pericolo di un assorbimento dell’attività scolastica da parte dei cattolici metterebbe automaticamente in discussione il problema del fondo culti e porterebbe all’abolizione di questo istituto feudale».
Niente denaro pubblico alle scuole private, dunque, ma addirittura necessità di mettere in discussione l’erogazione dei fondi che per altre ragioni lo stato concede al clero, ad evitare che tale privilegio lo possa avvantaggiare in una concorrenza che altrimenti sarebbe sleale. E tuttavia è probabile che Matteo Renzi accoglierà gli argomenti degli appellanti e tra tutti troverà che quello più forte, almeno sul piano della comunicazione ai gonzi di cui si parlava nel post qui sotto, sia proprio quello di Antonio Gramsci, dai firmatari della lettera usato in modo mistificatorio, ma da Matteo Renzi riusato per mera ignoranza. A stento avrà letto il Manuale delle Giovani Marmotte, figuriamoci gli scritti di Antonio Gramsci.   

I gonzi di una volta e i gonzi d’oggi

Può darsi sia l’età a ingannarmi, ma a me pare che i gonzi di una volta fossero più furbi dei gonzi d’oggi. Sempre gonzi erano, sia chiaro, ma mi sembra che sapessero difendersi meglio da chi intendesse infinocchiarli. Non di troppo, a dire il vero, ma mi pare che la differenza sia sensibile, e cosa faccia questa differenza, è presto detto: dinanzi a un tentativo di infinocchiamento non del tutto consentaneo, i gonzi di una volta presentivano d’esserlo, subodoravano – poi, semmai, serviva a poco, ma chi voleva infinocchiarli doveva metterci più impegno, e almeno la partita diventata interessante – mentre quelli d’oggi respingono con forza ogni presentimento, consentendo che l’infinocchiamento sia comunque efficace, e spesso allora non c’è partita. Direi che i gonzi d’oggi, insomma, siano più gonzi di quelli di un tempo perché peccano di un maggiore orgoglio e che questo – paradossalmente – dipenda dai deleteri effetti di quella che si è solita chiamare istruzione di massa, che poi è cosa che con l’istruzione c’entra poco, tanto meno con l’intelligenza, men che meno con l’intelligenza che riesce a dare la misura dei propri limiti, riducendosi per lo più all’acquisizione di quell’illusoria sensazione di una padronanza di se stessi che nei fatti accentua la vulnerabilità ai congegni persuasivi dell’infinocchiatore: il gonzo di una volta era ignorante, e sapeva di esserlo, e non aveva nessuna difficoltà ad ammetterlo, e questa consapevolezza si traduceva in una maggiore cautela; oggi, invece, il gonzo fa difficoltà ad ammettere i propri limiti anche se stesso, e ostenta sicurezza, con quanto ne consegue nel darsi interamente al proprio istinto, che ovviamente è l’istinto del gonzo.
Prendete, per esempio, la questione del volontariato. L’istruzione di massa ha convinto il gonzo che lo stato non può – e forse neanche deve – far fronte ai bisogni essenziali dei miserabili, e che a questo può – addirittura preferibilmente deve – supplire l’attività benevolente del volontariato, che tuttavia non può farsene interamente carico, sicché necessita di un aiuto, e da chi se non dallo stato? Al gonzo si fa credere che questo si traduca comunque in un risparmio, e il gonzo, oggi, ci crede. Al gonzo d’una volta, invece, mancava il concetto di sussidiarietà: alla richiesta di denaro pubblico per fare beneficenza avrebbe drizzato le antennine, fottendosene altissimamente di poter apparire cinico, ancor meno di rivelarsi ignorante sul ruolo dei cosiddetti corpi intermedi. Il gonzo d’oggi non se lo può permettere. 

[...]


Tutto secondo natura, a quanto pare, ma mettendomi nei panni di un Ferrara o di un Adinolfi – diversa sartoria, ma stessa stoffa, stesso taglio, stessa taglia, stesso drop – la notizia mi dà una fastidiosa inquietudine: c’è questa depravata sovrapposizione di tempi che dovrebbero essere ben distanti, e poi, metti caso che la mamma abbia partorito anche solo un quarto d’ora dopo la figlia, viene a crearsi la vertigine di uno zio più giovane del nipote, e queste sono cose che in quei panni danno un irritante fremere di ciccia. 

giovedì 26 febbraio 2015

E so che suona come una bestemmia

Le schifezze che Matteo Renzi si rivela in grado di far approvare da un Parlamento, la cui maggioranza è stata eletta con un programma che non le conteneva, sono le stesse che erano nel programma di un centrodestra che non era in grado di farle diventare leggi, nemmeno quando stravinceva le elezioni, perciò, se Silvio Berlusconi riesce a mettere insieme il quanto basta per avere una concreta possibilità di battere Matteo Renzi, faccio un serio pensierino all’eventualità di dargli il mio voto, e so che suona come una bestemmia, non è il caso di farmelo presente, ma meglio sorbirsi in ascensore la scoreggia di uno che mangia solo topi morti o essere suo ospite a colazione?

Dedalo di specchi

Daniele Luttazzi non ha ancora pienamente elaborato il trauma della gogna che subì cinque anni fa, ma pare sia intenzionato a risolvere la cosa sublimando piuttosto che rimuovendo e poi fare i conti con una fastidiosa nevrosi, almeno questa sembra l’operazione che affida a Bloom (Edizione Il Fatto Quotidiano, 2015), plagio (che non può dirsi plagio) di un Omero che si riprende il suo Ulisse dal plagio (che non può dirsi plagio) di Joyce. Gioco di specchi, anche molto ben fatto, in cui ci si dovrebbe ritrovare, ma solo a patto di perdersi davvero, onestamente incapaci di dire dove finisca l’aedo e dove cominci il rapsodo. D’altronde neanche si è certi che Omero sia davvero esistito, tutto il nero su bianco l’avrà messo uno che ha spizzicato qui l’orecchiamento di un inno, lì il passaparola di un mito. Ora, se usiamo lo strumento che ci consente di parcheggiare l’auto in un dedalo di specchi senza sfiorarne neanche uno (e qui cito lo spot pubblicitario di una nota casa automobilistica, meglio dichiarare che la paternità della metafora non è mia), toccherebbe a Joyce riprendersi l’Omero di Daniele Luttazzi, e a Daniele Luttazzi toccherebbe stare zitto, senza lamentarsi d’essere stato plagiato. Il cerchio quadrerebbe e potremmo finalmente riavere quello che abbiamo perso cinque anni fa, che oggi è ancora perso in 105 pagine di note al testo e in 103 voci bibliografiche.  

L’avviso è il seguente

L’avviso è il seguente: «A partire dal 23 marzo 2015 non sarà possibile condividere pubblicamente immagini e video sessualmente espliciti o che mostrano nudità su Blogger. Le immagini di nudità sono consentite se il contenuto è di pubblica utilità, ad esempio in un contesto artistico, didattico, documentario o scientifico».
È uno di quei casi in cui legislatore e giudice coincidono e quindi ogni possibile interpretazione della norma non ammette contestazioni. Perché solo «immagini e video»? Se posto il file audio di un porno, altrettanto «sessualmente esplicito», non incorro in alcuna sanzione? E se il contenuto «sessualmente esplicito» sta in un testo scritto? E quali sono i parametri che delimitano i confini di ciò che è «artistico» rispetto a ciò che non lo è? Chi avesse l’intenzione di postare un ciclo di lezioni sul coito anale, naturalmente con supporto video, può legittimamente ritenersi in ambito «didattico»? Saremmo ancora in ambito «documentario o scientifico» con un post che avesse l’intenzione di smontare la bufala della minzione spacciata per squirting, giocoforza utilizzando spezzoni di film a luci rosse? E poi quand’è che «immagini di nudità» sono o meno «di pubblica utilità»?
Domande che naturalmente non ha senso porsi a priori, perché a posteriori ha forza di legge la discrezionale libertà di giudizio, che Blogger si riserva grazie all’inevitabile ambiguità della norma. Inevitabile perché la materia ha per sua natura contorni oggettivamente indefinibili, ma soggettivamente nettissimi, anche se pure la soggettività è estremamente mobile sull’oggetto in questione.
Penso sarebbe stato più onesto formulare l’avviso in questo modo: «A partire dal 23 marzo 2015 Blogger si riserverà di censurare quanto ritenga possa provocarle noie. Giacché il sesso, anche latamente inteso, è materia assai sensibile, comportatevi di conseguenza, ché non vi sarà consentito sollevare obiezioni. D’altronde la pagina vi è offerta a gratis, dunque cercate di non rompere il cazzo»

mercoledì 25 febbraio 2015

Massimo Fini, Una vita, Marsilio 2015

È il suo libro migliore, davvero molto bello, a tratti commovente, ma d’una commozione mai umida, mai ruffiana. Alla scrittura, da sempre d’ottima qualità, qui s’unisce la materia, ricchissima, estremamente varia, sapientemente ricomposta. Come per ogni autobiografia, e anche questa non fa certo eccezione, si potrebbe, volendo, star lì a perdere un’infinità di tempo a dissezionare e a catalogare reticenze che velano e iperboli che sparacchiano, ma la compiutezza del narrato fa passare la voglia: Massimo Fini si racconta e si fa prendere sulla parola. Una pessima copertina, occorre dire. Un sottotitolo fin troppo indisponente, che scimmiotta – chissà se ironicamente o no – lo Zarathustra nietzschiano, e dunque è civettuosamente depistante. Un indice dei nomi, poi, che in fondo a un’autobiografia sta sempre troppo come a piedistallo. Tolto questo, un libro eccezionale. Complimenti. E grazie.   

martedì 24 febbraio 2015

O-oh!

O-oh! A chi gli fa presente che sta a Palazzo Chigi senza essere passato per le urne, il Cazzaro risponde che la nostra è una democrazia parlamentare, e che il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo, ma nominato dal Presidente della Repubblica. Non sono passati neanche due anni da quando, a Daria Bignardi che gli chiedeva: «Lei non vorrebbe governare questo Paese?», rispondeva: «Sì, ma passando dalle elezioni, non dagli inciuci di Palazzo» (Le Invasioni Barbariche, 17.4.2013): deve aver scoperto che non è indispensabile, ma solo dopo aver inciuciato il necessario. Ora – o-oh! – scopre che la nostra è una democrazia parlamentare, ma solo dopo aver scritto una riforma del Senato e una legge elettorale che riducono il Parlamento a un vidimatore di decreti del Governo, per giunta con l’obbligo di doverli vidimare prim’ancora di poterli leggere, sennò tutti a casa, e niente ricandidatura, perché nella lista bloccata c’entri solo se vuole il Segretario del Partito, che incidentalmente è pure Presidente del Consiglio: scopre che la Costituzione esiste solo dopo averla ignorata, il Cazzaro. Come in certi paesini siciliani, come presso certe tribù afghane: prima stupri la ragazza che ti piace, e poi la chiedi in sposa.

lunedì 23 febbraio 2015

Li accarezzava come figli




Volevo scherzare un po’ sulla faccenda confezionando uno di quei video della durata di uno o due minuti ai quali mi lascio andare di tanto in tanto, ma poi ci ho ripensato e ho buttato nel cestino tutto il materiale, salvando solo un fotogramma, quello che ho riprodotto qui sopra. La faccenda nasce dall’Ansa Magazine #49 dello scorso 17 febbraio, a firma di Michela Suglia, dal titolo Li accarezzava come figli (Viaggio tra libri e cimeli del fondo Fallaci), e in particolare dall’intervista al bibliotecario della Pontificia Università Lateranense, depositaria del lascito che Oriana Fallaci ha espressamente destinato a quell’ateneo prima di morire: «li accarezzava come figli» è frase che esce di bocca proprio a lui e, almeno nel contesto in cui è pronunciata, sembra che abbia a oggetto tutti i volumi della biblioteca della scrittrice.
Ora non è che io voglia mettere in discussione l’amore che la Fallaci potesse realmente avere per quei libri, ma credo che considerasse figli solo quelli scritti da lei, peraltro presenti in diverse traduzioni tra i 627 volumi del fondo, sicché è lecito pensare che quelli di altri autori non superino i 500-550. L’espressione, d’altronde, torna in due interviste del 1990 e del 1991 che è facile trovare su Youtube e in cui la scrittrice racconta, più o meno con le stesse parole, di come abbia inizialmente perso tempo prezioso nella sua lotta contro il cancro per dedicarsi alla traduzione in inglese del suo Insciallah, ma che non se ne pente, perché «tra me e i miei libri c’è un rapporto materno e, tra la propria salute e quella del proprio figlio, quale madre non sceglie la salute del proprio figlio?». Possibile che tale affetto fosse pari a quello riservato ai libri di cui era in possesso e di cui non era autrice? Non si può escludere, ma è più verosimile che la Fallaci abbia espresso lo stesso concetto anche al bibliotecario della Lateranense e che questi abbia equivocato l’affermazione come estesa a tutti i volumi della sua biblioteca.
Sia lecito stupirci, en passant, del fatto che fossero assai meno di quanti ci saremmo aspettati in possesso di chi posava a vestale della civiltà giudaicocristiana. Neppure sulla qualità dei volumi, poi, sembra si possano rilevare elementi notevoli, se il volume più prezioso è una malconcia copia del Delle rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina, per giunta in un’edizione posteriore alla morte dell’autore. Il valore del lascito, insomma, sembra tutto e solo nel fatto che questi libri siano stati di proprietà della Fallaci, e che qualcuno rechi qualche nota autografa, qualche altro un post-it a far da segnalibro. Il sospetto è che si voglia accrescerne il pregio spacciandoli come figli, mentre dei veri figli erano tutt’al più compagni di scaffale.

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Se non avesse rotto il patto del Nazareno, «errore blu» che lo ha lasciato senza uno «scudo» politico, ora Silvio Berlusconi non rischierebbe «la gogna della galera» che la Procura di Milano potrebbe infliggergli con una nuova accusa, quella di aver pagato i testi chiamati a deporre nel processo d’appello sul caso Ruby, «coriacea e subdola riproposizione del teorema dell’Arcinemico, del male assoluto, dell’uomo da sfasciare», che alla vigilia della pronuncia della Cassazione sull’assoluzione impone una «nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice», il che implica necessariamente «il “pentimento”, cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso».
Così Giuliano Ferrara (Il Foglio, 23.2.2015), ma chi vuol bene a Silvio Berlusconi può star sereno, perché a difenderlo, nel caso venga incriminato, sarà quasi certamente Franco Coppi, il quale si guarderà bene dall’inguaiarlo con argomenti così idioti. Provate a immaginare: «Signori della Corte, il mio assistito è chiamato a rispondere delle accuse che gli vengono mosse solo perché ha avuto qualche ruggine con Matteo Renzi, sennò col cazzo che il pm avrebbe osato metterlo in galera, sarebbe bastata una telefonatina e oggi non sarebbe in quest’aula, ma a riscrivere la Costituzione insieme al Royal Baby». C’è da supporre che il processo non avrebbe storia.

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Nel caso dei tweet di Gasparri in risposta alle dichiarazioni di Renzi sulla ventura riforma della Rai, c’è da rammaricarsi che, dalla preistoria ad oggi, la disputa a colpi di selce aguzza con la quale i nostri progenitori si sfondavano a vicenda il cranio sia diventata un inoffensivo scambio di battute: invece della povertà dei rispettivi argomenti sarebbe assai più edificante veder da quelle zucche schizzare la pupù, così non rimarremmo nel dubbio su quale ne contenga di più.

Dominus Iesus, 15 anni dopo

Al pari di ogni altro strumento, anche la parola muta nel tempo la specifica funzione per la quale è stata creata per l’ampliarsi o il ridursi delle occasioni in cui ne è richiesto l’uso. Così è per la vis che sta in violentus, dove l’-olentus è quasi pleonastico ad indicare l’eccesso di energia. A differenza della fortia, infatti, che si esprime nella capacità di sostenere un peso e di resistere ad una spinta, e perciò trova sinonimo nella solidità e nella fermezza che implicano uno sforzo isometrico, la vis è eminentemente dinamica, sicché la violenza non sta in una forza che sia solo «soverchia, [ma che sia pure necessariamente] messa in moto» (Niccolò Tommaseo), per lo più nell’impeto di un attacco potenzialmente distruttivo di tutto ciò che le si oppone.
Ciò detto, come altrimenti che violenta potremmo definire la fede che si dà mandato di far trionfare una verità su tutte? Non si ha, questo trionfo, senza che ogni altra verità venga distrutta riducendola a menzogna, e questo rende ineluttabilmente violento il mezzo efficace al conseguimento di tal fine, anche quando è dichiarato esclusivamente persuasivo.
Si prenda il Corano: «Non v’è costrizione nella religione, giacché la retta via ben si distingue dall’errore» (2, 256); «Se Dio volesse, tutti crederebbero in Lui. Tu pensi sia necessario costringerli?» (10, 99); «A chi porta la parola di Dio spetta solo il trasmetterla» (5, 99). Si tratta di versetti che solo in apparenza contraddicono i tratti dell’jihad che si fa truculento quando da lotta interiore per raggiungere il perfetto grado della fede diventa guerra santa contro gli infedeli, perché il dinamismo della vis proselitaria è sempre per sua natura pleomorfo e opportunista.
Si pensi al Manuele II Paleologo caro a Ratzinger: afferma che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza» (Dialoghi con un persiano, VII, 93), ma nella storia del cristianesimo questo sta senza eccessivo imbarazzo accanto ai battesimi forzati di ebrei, indios e neonati.
Tutto sta, in fondo, nella forma che assume la violenza e nella sensibilità a coglierla quando è dissimulata. Così, mentre si preferisce definire «guerra santa» la catena degli eventi che scuotono il mondo islamico, dimentichiamo che tra qualche mese ricorre il 15° anniversario della Dichiarazione «Dominus Iesus» della Congregazione per la Dottrina della Fede, riaffermazione della legittimità della vis proselitaria che la Chiesa di Roma non ha mai rinunciato a esercitare al fine di estendere κατά όλος il suo credo, giacché la sua missione non si esaurisce nell’annuncio evangelico, ma nell’«instaurarlo tra tutte le genti» (18).
Certo, «al termine del secondo millennio cristiano questa missione è ancora lontana dal suo compimento» (2), per giunta certi strumenti del passato sono diventati inutilizzabili. Si pensi a come, per secoli, colonialismo ed evangelizzazione sono andati a braccetto e si prenda atto che non è più possibile: occorre che la vis perda il dinamismo della conquista militare e potenzi il carattere isometrico della fortia che resiste alla conquista militare dei competitori.
«Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio […] [possa] arriva[re con profitto] ai singoli non cristiani [in queste mutate condizioni storiche]» (21), occorre constatare che le cose si son fatte assai più difficili: giocoforza si deve ripiegare sul dialogo, ma senza dimenticare che «la parità, presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali» (22). Siamo alla constatazione che «lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino», ma che i tempi costringono al sospiro del «vorrei ma non posso». Poi, come sempre, ci si può far prendere dall’abbrivio, e allora si può arrivare a bestialità del tipo «la Chiesa non fa proselitismo» (Ratzinger, 13.7.2007).  

[...]


Più di mille musulmani, a Oslo, fanno da scudo umano ad una sinagoga, scandendo lo slogan «no all’antisemitismo, no all’islamofobia». È una ben strana guerra di religione, quella in corso.

domenica 22 febbraio 2015

Graziano Delrio, finissimo biblista


«Il Signore gli disse: “Questa è la terra che ho promesso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, e che darò alla tua discendenza. Ho voluto che i tuoi occhi la vedessero, ma tu non vi entrerai”. […] Quando morì, Mosè aveva centoventi anni»
Dt 34, 4-7


Radiomonitor


Pauroso calo degli ascolti di Radio MariaFatta eccezione per il programma mattutino di quel maestro della satira agrodolce che è padre Livio Fanzaga, sempre seguitissimo, pare che il restante palinsesto abbia scassato la uallera a una discreta percentuale di radioascoltatori.

sabato 21 febbraio 2015

Altro che figlio di Silvio Berlusconi

Abbiamo fatto un grosso torto a Matteo Renzi nel ritenerlo un cazzaro privo di una qualsiasi Weltanschauung: i decreti attuativi del suo Jobs Act rivelano che una visione del mondo ce l’ha ed è quella del ragazzotto che ha visto il babbo condannato sette volte tra cause civili e del lavoro per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro irregolare e roba simile. Da ingenui stavamo lì a tenerlo sotto la lente per cogliere i tratti genetici che lo rivelassero come figlio di Silvio Berlusconi, lasciandoci sfuggire l’ovvio, cioè che il nostro Presidente del Consiglio altro non è che il figlio di un furbastrello di provincia, uno che la sera, tornato a casa, affliggeva moglie e figli coi mugugni per le rotture di cazzo che gli procuravano i dipendenti. Altro non è che il figlio di Tiziano Renzi, il nostro Presidente del Consiglio, la Weltanschauung è quella.