lunedì 30 maggio 2016

Interpretare / 1

Non ho ancora acquistato il libro scritto a quattro mani da Mario Brunello e Gustavo Zagrebelsky (Interpretare, Il Mulino 2016), di cui oggi Il Fatto Quotidiano ha mandato in pagina uno stralcio, nel quale mi pare venga riproposta in modo più che esplicito una questione che probabilmente non sarà mai chiusa con un accordo tra le parti in causa, cioè tra il legislatore e il magistrato giudicante. Nei prossimi giorni mi procurerò il volume e vi saprò dire se mi ha offerto spunti di riflessione, ma fin d’ora, a mo’ di premessa, ritengo utile far sgombro il campo da possibili equivoci su un tema che è estremamente delicato e che costituisce un capitolo centrale della discussione sui rapporti tra politica e giustizia, già affrontato su queste pagine nel commentare in modo critico – aspramente critico – gli interventi di chi muoveva alla magistratura l’accusa di esorbitare dalle sue prerogative per riempire i vuoti lasciati dalla politica o addirittura per usurparne ruolo e funzione. Come mi auguro sarà evidente dalla lettura di quanto segue, io ritengo che la separazione dei poteri implichi necessariamente che il legislatore perda ogni facoltà di controllo sul testo di legge dopo che lo ha licenziato, e che, laddove le sue intenzioni non siano fatte esplicite dal testo, la sua interpretazione è giocoforza nella disponibilità di chi applica la norma, ovviamente nei limiti posti dalla giurisdizione costituzionale. Ma su questo tornerò nelle conclusioni in coda alla serie di post di cui questo è il primo.



1. I problemi posti dall’«interpretazione» sono già tutti impliciti nellincertezza che a tuttoggi resta sul suo etimo. Se è chiaro, infatti, che «inter-» stia per «tra», a intendere una relazione tra cosa e cosa, è controverso cosa la stabilisca, visto che per alcuni la «-pretazione» sarebbe «negoziazione» o «permuta» (per significato estensivo dato a περαω, che sta per «vado a vendere»), mentre per altri sarebbe «esposizione» o «spiegazione» (da φραζω, che sta per «mostro», «indico», «dichiaro», ma che ha molti altri significati, non meno pertinenti in questo caso, come «scorgo», «medito», «delibero»). Probabilmente è questo che dà ragione della notevole plasticità che assume il significato dell’«interpretare», al pari di ciò che accade col «tradurre», termine che gli è affine sia nell’accezione che fa dell’«interprete» colui cui spetta «trans-ducere» un testo da una lingua a un’altra, sia in quella che ne fa l’intermediario tra l’autore e chi è destinato a fruirne, com’è nel caso di una commedia o di un brano musicale. Questaffinità tra «interpretazione» e «traduzione» spiega perché all’«interprete» e al «traduttore» venga spesso mossa la stessa accusa, quella di aver «tradito», per colpa o per dolo, il testo che erano stati chiamati a «interpretare» e a «tradurre». È accusa che non di rado è assai difficile stabilire se fondata, perché il presunto «tradimento» è spesso ai danni di chi solo avrebbe pieno diritto di lamentarlo, ma non ne ha la possibilità: Johann Sebastian Bach è morto da troppo tempo per dirci quanto possa sentirsi soddisfatto dell’«interpretazione» che Ramin Bahrami dà delle sue composizioni; per la stessa ragione, Herman Melville non può dirci se si ritenga più «tradito» da Cesare Pavese o da Ottavio Fatica (laddove potesse, daltra parte, sarebbe necessario avesse una buona conoscenza della lingua italiana); e così accade pure per la Costituzione degli Stati Uniti d’America, perché ad ogni sentenza della Suprema Corte che ne richiama questo o quellarticolo manca il visto di approvazione da parte di George Washington, Thomas Jefferson, Benjamin Franklin, ecc. In generale, potremmo dire che per provare il «tradimento» di un testo siamo spesso costretti a ricorrere ad un’autorità di provata competenza alla quale affidiamo il compito di «interpretare» le reali intenzioni dell’autore, quando questi non abbia modo di farlo di persona. Nel caso di una legge, per esempio, quest’autorità è affidata alla magistratura giudicante, tenuta a rispettare il criterio di «interpretazione», indispensabile allapplicazione della norma, che le è imposto dall’art. 12 delle Preleggi: «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Tutto sembrerebbe essere predisposto per non dar luogo ad alcun contenzioso, se non fosse che anche qui siamo dinanzi a un testo da «interpretare», per giunta relativamente ambiguo. L’«intenzione del legislatore», infatti, sembrerebbe doversi ritenere evidente nel testo stesso della norma, «fatta palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», e tuttavia non è affatto raro che le parole usate lascino ampio margine a «interpretazioni» diverse, perfino opposte, per non parlare di come la «connessione» delle parole stesse sia spesso ulteriore fonte di dubbio. Il suddetto art. 12 sembra farsi carico di questa evenienza, perché recita che, «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe», e, «se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato», che però sono espressi da parole, il cui «significato proprio», «secondo la connessione di esse», può risultare non univoco. A ciò il testo della norma sembra spesso voler porre rimedio col ricorso a perifrasi che tolgano ogni possibile ambiguità a parole che consentirebbero più d’una «interpretazione», ma non sempre questo è sufficiente, né risolve la questione il connetterle in proposizioni che costringano a una lettura inequivoca, perché il caso al quale la legge va applicata ha uno specifico che rende sempre necessaria una trasposizione del principio astratto nella realtà fattuale. In conclusione, potremmo dire che non si può applicare una legge senza interpretarla, né si può interpretarla senza attribuirle un senso che spesso non è fatto così inequivocabilmente palese dal testo, come invece chi lha scritto avrebbe preteso fosse. 

[segue]

sabato 28 maggio 2016

Non è un infortunio logico, è un «“clic” psicologico»

Oggi Michele Serra scioglie ogni dubbio su quanto ieri Massimo Cacciari affidava alla penna di Ezio Mauro e ci costringe ad arrossire per lingenuità di cui abbiamo dato prova nel segnalare la patente incongruità tra premessa («riforma maldestra») e conclusione («voterò Sì»): non si trattava di un infortunio logico, ma di un «“clic” psicologico». Bastava saper leggere a dovere quel «non abbiamo la faccia per dire no»: «Non abbiamo la faccia, noi sinistra, noi classe dirigente del Paese, noi italiani senzienti e operanti tra i Sessanta e il Duemila (e rotti) – spiega Michele Serra – per giudicare con la puzza sotto il naso il lavoro di un governo di giovanotti avventurosi e forse avventuristi. Dal riflusso in poi (dunque dai primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso di esistere se non come reazione stizzita al presente. [...] Ora la sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata». È questo che «impedisce [a Michele Serra, ma anche a Massimo Cacciari, come Michele Serra ritiene di poterci assicurare] di essere antirenziano pur avendo, con Renzi, quasi zero in comune». «Quasi», perché «il papà di Renzi è la sinistra depressa» e «la mamma della Boschi è la bicamerale». Insomma, «c’è una ineluttabilità, nel renzismo, che da un lato sgomenta, dall’altro chiede di compiersi per il semplice fatto che più niente di davvero significativo si è compiuto, a sinistra, dopo gli anni costituenti e quelli dell’avanzata operaia. Dal riflusso in poi (dunque dai primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso di esistere se non come reazione stizzita al presente».
Anche qui sembra evidente una patente incongruità tra premessa («quasi zero in comune [con Renzi]») e conclusione («la sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata»), ma non faremo lo stesso errore di segnalarla come infortunio logico: se nella sinistra dei Serra e dei Cacciari non è più la logica a spiegare atteggiamenti e a motivare scelte, tutta lattenzione deve essere spostata a quel «“clic” psicologico» che inibisce in conclusione ciò che in premessa parrebbe non aver ragione di essere inibito. Siamo autorizzati – direi di più: siamo obbligati – a spiegarci atteggiamenti e scelte di quella sinistra non renziana che più o meno obtorto collo a Renzi finisce per dir sempre sì – quella che «se lavesse fatto Berlusconi, saremmo tutti in piazza a manifestare» – come manifestazioni cliniche di un vero e proprio disturbo delladattamento con evidenti segni di una sofferente capacità di giudizio. In pratica, di una nevrosi.
«In Renzi – scrive Michele Serra – vedo la nemesi della sinistra italiana: non esisterebbe, non si spiegherebbe, se non alla luce della verbosa e presuntuosa impotenza che lo ha preceduto e soprattutto lo ha generato». Se è corretto attribuire a «nemesi» il significato di punizione riparatrice, saremmo dinanzi a un Renzi che la sinistra non renziana avverte come necessaria espiazione del peccato di impotenza. Sul piano politico troverebbe sintomo nellinibizione a un giudizio di merito su quello che Renzi fa, perché sarebbe pur sempre qualcosa rispetto al niente di cui è stata capace la sinistra negli ultimi trenta o quarant’anni, ma allo stesso tempo troverebbe prognosi infausta per tutto ciò che la sinistra ha inteso rappresentare fino a quando ne ha avuto gli strumenti culturali. In tal senso, la sua sostanziale acquiescenza alle tante decisioni politiche prese da Renzi che hanno segnato una drammatica rottura rispetto alla tradizione culturale della sinistra italiana andrebbe letta come ammissione di un fallimento strategico, non tattico. La sinistra non renziana che vede nel renzismo il Purgatorio necessario per mondarsi dalle proprie colpe è in realtà già all’Inferno: non è chiaro quanto ne sia cosciente, ma di fatto ammette che non le è possibile governare il paese attirando a sé il Centro, ma solo facendosene attirare, per diventare in esso irriconoscibile, pena l’esserne espulsa. Il Partito della Nazione è già nei fatti: prim’ancora che nei maneggi con i verdiniani e i cosentiniani, è tutto esplicito nel «“clic” psicologico» di Massimo Cacciari e di Michele Serra. 

Patapaf

«La direttrice di Raitre martedì scorso ha convocato costumiste e truccatrici. Perché è soprattutto alle donne della Terza rete che è rivolto il nuovo codice sul modo corretto di vestirsi e truccarsi. Niente più abiti fascianti, niente tubini, rigorosamente banditi quelli di colore nero. Sono troppo sexy per la tv di Stato. Per quanto riguarda gli uomini c’è poco da obiettare, completo classico (gessato e non) con camicia e cravatta di buon gusto. Ma le donne devono prestare più attenzione. Anche ai dettagli. Sugli orecchini la Bignardi è stata lapidaria: al bando quelli vistosi. Bandito anche il tacco 12. Pure sul trucco non si può uscire dal seminato. L’ordine della Bignardi è perentorio: “Trucco leggero”. Nessuna licenza, neanche se la richiede la conduttrice. Il dress code è severo: camicetta sobria (consigliati i “colori tenui”), scollature minime (al massimo si può far prendere aria al collo), gonna o pantalone e tacco rigorosamente basso» (Il Messaggero, 27.5.2016).
Per chi si è lasciato scappare un velenoso sospettuccio alla sua nomina, patapaf, arriva uno schiaffo morale: questa donna incide sul costume.


venerdì 27 maggio 2016

Cacciari e il male minore


Sembra che Cacciari non riesca a immaginare altre ragioni di dissenso alla riforma costituzionale voluta dal governo Renzi se non quella di chi in passato ha invano tentato di farne una: «Chi ha fallito si ribella», dice nell’intervista concessa a Mauro (la Repubblica, 27.5.2016), e nel novero dei perdenti – aggiunge – «ci sono anchio», riandando a quando, «con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, [...] ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché […] pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico». Sente di aver fallito, Cacciari, ma non si ribella: dice che voterà Sì, anche se si tratta di «una riforma maldestra».
Sarebbe ingiusto liquidare questo atteggiamento come mera premura di esibirsi intellettualmente onesto a differenza di quanti ieri tentavano una riforma costituzionale, però senza riuscirvi, e oggi sarebbero contrari a quella voluta dal governo Renzi, che invece è riuscito a farla approvare dal Parlamento, solo perché invidiosi del successo mancato a loro. Non è però altrettanto ingiusto negare ad essi, e più in generale a chiunque sia contrario a questa riforma, che d’altronde lo stesso Cacciari non ha difficoltà a definire «maldestra», altre ragioni che non siano solo così meschine? Se è «maldestra», devono esservene. Sì, ma manca «la presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n’era bisogno». Sembra di capire che, in presenza di questa presa d’atto, sarebbe legittimo ritenere che quella voluta dal governo Renzi sia una pessima riforma costituzionale, e dunque votare No, ma allora come è possibile che Cacciari, cui questa presa d’atto non manca, voterà Sì, anche se non gli sfugge il rischio di una «concentrazione oligarchica del potere» che essa favorirebbe?
Saremo ingenui, ma almeno dai filosofi ci aspetteremmo un buon uso della logica. Ammetti che la tal riforma favorisca una «concentrazione oligarchica del potere»: se vuoi tale concentrazione, voti a favore della riforma; se non la vuoi, voti contro; se non la vuoi, ma voti Sì, un problemino c’è. Problemino secondario, parrebbe, perché «il vero problema – dice Cacciari – non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente». Può darsi, ma, proprio mentre l’intervista a Cacciari andava in pagina, dal Giappone, dov’è per il G7, Renzi ripeteva: «LItalicum non si discute».
È lo stesso Renzi che sul referendum di ottobre continua a ripetere di volersi giocare la permanenza al governo, e addirittura il continuare a fare politica. A Cacciari non è sfuggito, anzi, parrebbe che sia proprio questo, in fondo, a motivare il suo Sì al referendum di ottobre, anche se è l’argomentazione a lasciare perplessi: «Ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata – dice – e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo? [...] Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo? [...] C’è una teoria della cosa, si chiama il “male minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele».
Anche qui possiamo concedere a Cacciari di avere naso più dell’Oracolo di Delfi, ma ci vuole Aristotele per capire che una lacerazione della società italiana di fatto già c’è tra chi vuole e chi non vuole una «concentrazione oligarchica del potere», e che a causarla è proprio chi la vuole? Il male minore sarebbe dargliela per evitare la lacerazione? 

mercoledì 25 maggio 2016

Altro non riesco a spiaccicare


Temo di non poter mantenere la promessa fatta al geometra Gaetano Barbella, «studioso eclettico dotato di singolari capacità intuitive che, unite ad una considerevole abilità delluso di “riga e compasso”, fanno di lui un singolare ricercatore» (così nella scheda biografica a corredo del suo saggio su Caravaggio, il geometra degli infiniti mondi di Giordano Bruno, che ha graziosamente voluto sottoporre alla mia attenzione, attribuendomi molto immeritatamente unautorevolezza di cui manco mi sogno di lambire lo zoccolo): in un momento in cui lanimo mi traboccava di soddisfazione per il felice esito di una macumba alla quale lavoravo da due anni, gli avevo promesso di esprimergli ampio e documentato parere sulla tesi da lui esposta in quelle pagine (centoquattordici), ma confesso che, pur avendole lette col massimo scrupolo, non ho parole neppure per azzardare una peraltro assai malcerta impressione.
È che il Barbella è certo di leggere in alcuni quadri del Merisi certe linee che a me paiono tendersi tra punti scelti assai arbitrariamente e, dallincrocio di esse, certi quadrati, certi rettangoli, e altre più complesse figure geometriche, che non ho ben capito come starebbero a summa del pensiero di Giordano Bruno, di per se stesso già abbastanza oscuro, non meno oscuro a vederselo chiarito grazie a un «codice segreto», che tale resta. A chi ha contestato a Marco Bona Castellotti laver ipotizzato una relazione tra la pittura del Caravaggio e la filosofia di Giordano Bruno senza portare uno straccio di argomento – è per quel post che sono stato chiamato a esprimere un parere  «lestrapolazione di peculiari “invisibili geometrie”», sulle quali il Barbella è certo che il pittore abbia costruito i suoi soggetti per dar corpo alle cosmografie del filosofo, pare qualcosa più di niente, ma assai meno che qualcosa. E altro non riesco a spiaccicare.

[...]

«My whole life I’ve been a fraud. I’m not exaggerating.
Pretty much all I’ve ever done all the time is try to create
a certain impression of me in other people.
Mostly to be liked or admired. It’s a little more complicated than that,
maybe. But when you come right down to it it’s to be liked, loved.
Admired, approved of, applauded, whatever. You get the idea»

David Foster Wallace, Good Old Neon (2004)



giovedì 19 maggio 2016

Ora una rivoluzione sta per cominciare


Non sarei troppo severo. I mezzi sono poco sorvegliati, ma il fine della comunicazione politica non è tradita.

martedì 17 maggio 2016

[...]


In un dibattito politico quasi sempre urlato, spesso degradato a rissa, ormai da troppo tempo intollerabilmente intossicato dal ricorso pressoché costante a pratiche di mistificazione e di impostura, una voce che ci invita a ragionare, ad affrontare una questione armati solo di buon senso, non può restare inascoltata. In questo caso, poi, si tratta di una voce che chi sa apprezzare la sempre più rara virtù dellonestà intellettuale non può non considerare amica, dunque porgiamo orecchio.
Linvito di Massimo Bordin – chi lo conosce potrà tranquillamente chiudere un occhio sul fatto che il suo invito parta dalle pagine del quotidiano più schifosamente renziano – è a far uso del solo buon senso per discutere di quella che a molti è parsa esplicita intenzione di Matteo Renzi – ora da lui risolutamente negata: gli sarebbe stata disonestamente attribuita dai suoi avversari – di trasformare il referendum di ottobre in un plebiscito sulla sua persona.
Questione interessante di là dal caso che la solleva, perché attiene al più generale tema della comunicazione in ambito politico. Qui, in sostanza, ci troveremmo di fronte a un clamoroso misunderstanding. Ne sarebbe stato fatto oggetto proprio luomo politico che da tanti è considerato il più abile comunicatore attualmente sulla piazza, sicché tertium non datur: o a Matteo Renzi è stata disonestamente attribuita unintenzione che davvero non aveva, e allora cè da denunciare un odioso complotto ai suoi danni, o quanto ha detto in numerose occasioni rendeva chiara ed inequivocabile lintenzione che gli è stata attribuita, e allora cè da segnalare la ritirata strategica di uno sbruffone, bugiardo matricolato, spudorato quaquaraquà.
Prima di passare allanalisi degli argomenti che portano Massimo Bordin a concludere che «se perdo, vado a casa» non intendesse affatto snaturare il senso del referendum sulla riforma costituzionale, ma solo «anticipa[re] una conseguenza logica del voto di ottobre» nel caso di una vittoria dei no, cè tuttavia da segnalare un motivo di perplessità riguardo al metodo che egli ci propone: che significa «con mente sgombra da sovrastrutture teoriche»? Per «sovrastruttura teorica» dobbiamo intendere quanto pretende di conferire sostanza veritativa a un principio meramente assertivo, come quando l’espressione è usata nei commentari di Diritto per richiamare a un’interpretazione più consona allo spirito che alla lettera della norma, o invece parliamo della costruzione ideologica che impone alla realtà lastrazione dei modelli analogici da cui procede, come accade nella più comune violazione del metodo scientifico? Tutto sommato, è problema marginale, forse il richiamo è solo a non vedere necessaria confliggenza tra senso comune e buon senso. Continua a perplimere, ma passiamo al testo, sennò ci impantaniamo.

«Proviamo a immaginare – propone Massimo Bordin – che il referendum di ottobre si concluda con una inequivocabile sconfitta della riforma voluta dal governo. Cosa succederebbe?», si chiede. «Di sicuro l’opposizione chiederebbe con un certo vigore che il governo, sconfitto su una questione certo non marginale, levasse il campo. Non ci sarebbe obbligo, secondo Costituzione, ma visto che già oggi non passa giorno senza che qualche esponente autorevole della minoranza parlamentare intimi a Renzi di dimettersi, sarebbe a dir poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si sentisse dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non restate al governo”. Non si capisce allora perché sia così grave che Renzi abbia anticipato una conseguenza logica del voto di ottobre».
È qui che il dover dare per scontato che Massimo Bordin sia in buona fede – mi è impossibile fare altrimenti – mi costringe alla sorpresa del constatare che il suo celebrato acume non riesca a cogliere la differenza tra il dover far fronte alle conseguenze di una sconfitta, come sarebbe la bocciatura di una riforma sulla quale Matteo Renzi ha più volte detto di volersi giocare la faccia, fra le quali vi sarebbe senza dubbio una richiesta di dimissioni da parte delle opposizioni – dimissioni di cui comunque non ci sarebbe obbligo – e il fare di questa eventualità una vera e propria posta in gioco nel lanciare una sfida. Il dover dare per scontato che Massimo Bordin sia in buona fede mi costringe alla sorpresa nel leggere che tale sfida sarebbe già tutta implicita dellimpossibilità che si realizzi il caso «a dir poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si sentisse dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non restate al governo”». Da che mondo è mondo, quandè che un governo è tenuto a ritenere fondate le richieste delle opposizioni, se queste sono al di fuori delle condizioni poste dalla Costituzione? È legittimo che, anche al di fuori di tali condizioni, le opposizioni dicano «se perdi, vai a casa», ma dire «se perdo, vado a casa» da Presidente del Consiglio cambia inevitabilmente il senso della partita.
È il caso che si ebbe con le Amministrative del 2000: nessuno obbligava Massimo DAlema a lasciare Palazzo Chigi dopo la batosta presa dal suo partito, ma prima del voto aveva ripetutamente legato la sopravvivenza del governo da lui presieduto al risultato di quelle elezioni, personalizzandone il significato. Forse non ne aveva neppure voglia, ma accadde che un giornalista gli gettò il guanto e lo sventurato raccolse la sfida. È probabile che, dopo quella batosta, le opposizioni avrebbero comunque chiesto le sue dimissioni, ma, se non le avesse messe nel piatto, chi avrebbe potuto pretenderle come atto dovuto?
Se è vero, daltronde, che Matteo Renzi è legittimamente alla guida del governo – non ha mai avuto tale investitura dallesito di elezioni politiche, ma la Costituzione non la rende necessaria per andare a Palazzo Chigi – non è altrettanto vero che ha più volte preteso che tale investitura gli sarebbe stata conferita dal risultato delle Europee del 2014? È errato affermare che ci troviamo di fronte a un tizio per il quale la Costituzione a volte è tutta letterale e a volte è tutta materiale? Nega, oggi, di aver voluto, fino a ieri, fare del referendum di ottobre un plebiscito sulla sua persona, ma è evidente che questo sia dovuto solo al timore di aver caricato la sfida di un peso che non è più sicuro di poter reggere.
Nel voler legare il risultato del referendum di ottobre alla sua permanenza al governo vi era la convinzione che le urne gli assicurassero lapprovazione della sua riforma costituzionale per scongiurare una crisi dagli sviluppi incerti e dalle conseguenze potenzialmente gravissime, prima fra tutte la tremendissima ingovernabilità, che oggi fa più paura dell’anarchia: era un modo per dire che a lui non cerano alternative credibili, ma adesso, con i guai giudiziari in cui annaspa il suo partito, sente di non poterlo più dire. E dunque, sì, non ha mai detto testualmente «dopo di me, il diluvio», ma lha abbondantemente dato a credere, in ciò sostenuto anche da chi non gli ha risparmiato critiche: meno peggio di Berlusconi, meno peggio di Grillo, meno peggio di Salvini – così, più o meno, si argomentava – e altri in giro non ce nè, dunque teniamocelo. Ma comincia a farsi strada, seppur molto lentamente, troppo lentamente, che in realtà, peggio di lui, nessuno. Matteo Renzi lo ha capito: «Personalizzare lo scontro non è il mio obiettivo...», dice; con una faccia tosta che ormai non ci stupisce più, aggiunge: «... ma quello del fronte del No». Quale buon senso, quale logica, quale mente sgombra da sovrastrutture teoriche può tollerare questa patente menzogna?

Manderei a cagare chiunque provasse a dimostrarmi che Matteo Renzi non avesse intenzione di personalizzare il referendum di ottobre, ma qui, forzandomi a quella signorilità tutta eufemismo ed ironia che è la sua cifra inconfondibile, a Massimo Bordin mi limito a dire: direttore, ma sa che non mi ha convinto? 

lunedì 16 maggio 2016

Era meglio Berlusconi (cit.)

Capisce di aver sbagliato, ma figuriamoci se può permettersi di ammetterlo, e allora cerca di cambiare le carte in tavola: «Personalizzare lo scontro non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del No» (*). Con la faccia di culo che si ritrova, vedrete, non avrà alcuna difficoltà a fare anche di più: se i sondaggi metteranno male, finirà col dire che, per evitare che il referendum di ottobre si trasformi in un plebiscito sulla sua persona, è disposto a fare un sacrificio, a tornare indietro sui suoi passi: se la sua riforma costituzionale sarà bocciata, non lascerà Palazzo Chigi, non lascerà la segreteria del Pd, non lascerà la politica. Pressappoco dirà: «Avevo detto che ci mettevo la faccia e che in caso di sconfitta ne avrei tratto le dovute conseguenze, me ne sarei andato a casa, ma con amarezza sono costretto a prendere atto che unassunzione di responsabilità è stata volgarmente strumentalizzata dai miei avversari, dunque, comunque vada, resto. Però sono sicuro di stravincere, anzi, pardon, sono sicuro che stravincerà lItalia che vuol cambiare». E allora il referendum lo vincerà davvero. Povia sarà un mentecatto, ma ha ragione: era meglio Berlusconi. 

La maschera è caduta

Oltre a quella torva, che è la più nota, cè una forma bonaria della velleità totalitaria, tanto bonaria che del totalitarismo mostra solo l’anelito, peraltro mitigato in aspirazione alla concordia, alla convergenza, alla grande intesa. Qui, lannientamento degli avversari è perseguita per assorbimento, previa aggregazione dichiarata indispensabile a fronte di cogenti istanze emergenziali, non importa quanto reali o fittizie, in vista di quellunità nazionale che è leufemismo dellequivalenza tra nazione, stato e partito.
Sotto diverse maschere, la via italiana al socialismo del Pci ebbe proprio questa forma, e perciò sembrò sempre avere un volto umano: con Togliatti, prima, con Berlinguer, dopo, ma anche con Occhetto, con DAlema, con Veltroni, con Bersani, quando dunque il Pci già aveva cambiato pelle, e in quella prendeva a cambiare il resto, lobiettivo rimaneva quello di aggregare, per assorbirle, le tradizioni politiche che avevano dato vita – sorvoliamo con quale risultato – alla Dc e al Psi: quella della dottrina sociale della Chiesa e quella del riformismo. Obiettivo che col Pd possiamo dire sia parzialmente riuscito nel metodo, ma completamente fallito nel merito, visto che, a otto anni dalla sua fondazione, il partito – mi auguro che in quanto sto per affermare si sappia leggere lellissi – è assai più democristiano che comunista, assai più craxiano che amendoliano o ingraiano.
Nulla di scandaloso, quindi, nel fatto che i pochi sopravvissuti della vecchia dirigenza del Pci di Togliatti e di Berlinguer siano tutti renziani: nel merito non ha importanza quale sia il risultato, sta di fatto che Renzi sembra dare successo al metodo, e allora si capisce perché Napolitano lo coccoli, si capisce perché, dopo il risultato riscosso alle Europee, Reichlin lo abbia designato a segretario di un Partito della Nazione (lUnità, 29.5.2014). E tuttavia il golem plasmato con tanto amore sembra rischiare la stessa fine di quello creato da rabbi Yehudah Loew ben Bezalel: di energia ne ha tanta, ma non sa controllarla a dovere, dando cenno a pericolose pulsioni autodistruttive.
Si può comprendere, allora, langustia di Napolitano: «Renzi non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale [al referendum di ottobre]» (Corriere della Sera, 3.5.2016). Si può comprendere la preoccupazione di Reichlin, che oggi, in una lettera indirizzata a Mario Calabresi, scrive: «Non mi piace il modo come si sta discutendo della riforma costituzionale... Io non voglio una crisi di governo al buio... Considero una sciagura questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti contrapposti...» (la Repubblica, 16.5.2016). Cè da capirlo: ha più di 90 anni, più di 70 ne ha spesi sognando il megapartitone dellunità nazionale e, ora che la creatura ha preso forma, la vede messa a repentaglio dal suo mostrare la vera faccia, tuttaltro che bonaria.
«La “rottamazione” era in una certa misura necessaria – scrive ma si è creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale». Troppo tardi, forse. La maschera è caduta. Dietro il Partito della Nazione si è scorto il partito-stato, l’indomita tentazione di trasformare il consenso in egemonia. 

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domenica 15 maggio 2016

«Invertire la tendenza»


Sul rapporto tra sviluppo economico e crescita demografica si è detto di tutto e il contrario di tutto, ma è fuor di dubbio che da almeno un secolo a questa parte continuino a nascere più bambini proprio dove più si muore di fame; fuor di dubbio è che nei paesi a più alto reddito pro capite siano proprio le famiglie più povere ad avere il maggior numero di figli; fuor di dubbio è che il calo della natalità sia un dato costante in tutti i paesi economicamente emergenti, che da sommersi figliavano assai più.
Troppo poco per affermare che lo sviluppo economico deprima la crescita demografica, troppo poco perfino per mettere definitivamente a tacere chi vorrebbe sia indiscutibile che invece la stimoli, ma pensare che un bonus di 160 euro per il primo figlio, e di 240 per il secondo, possa «invertire la tendenza» del calo della natalità, costante ormai da decenni qui in Italia, non è follia? Cifre che a stento coprono la spesa per quattro mesi di pannolini, ma Beatrice Lorenzin è convinta che «rappresentino un sostegno serio» a scongiurare quella che definisce «unapocalisse» (la Repubblica, 15.5.2016).
Degna rappresentante di questo governo, non a caso 160 e 240 sono multipli di 80, il numero magico col quale Matteo Renzi è solito ipnotizzare i polli.


Aggiornamento Pare non se ne faccia nulla, non c’è copertura finanziaria per scongiurare lapocalisse.

sabato 14 maggio 2016

Due domande

Con lo stralcio della stepchild adoption dal ddl Cirinnà, l11 maggio 2016 è giunta a definita approvazione del Parlamento una legge che, pur non contemplando per uno dei due partner di un’unione civile la possibilità di adottare il figlio dell’altro, specifica che, riguardo a tale eventualità, «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozioni dalle norme vigenti» (art. 3).
Il rimando è alla legge n. 184 del 4 maggio 1983, che, al co. 1 dell’art. 7, dice che «ladozione è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità», rimandando ai seguenti (artt. 8-21), per chiarire quali siano i casi in cui un minore possa essere considerato adottabile. Il co. 1 dellart. 44 della stessa legge dice che comunque «i minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al co. 1 dellart. 7»: possono essere adottati, ad esempio, «dal coniuge, nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dellaltro coniuge», ma anche «da persone unite al minore da preesistente rapporto stabile e duraturo», con esplicita specifica che «ladozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato».
Ora, lart. 12 delle Preleggi dice che «nellapplicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». In tal senso, la legge n. 184 del 4 maggio 1983 non si presta ad ambiguità interpretative di sorta: ununione civile è condizione entro la quale il figlio di uno dei due partner è adottabile dallaltro. Né si presta a dubbio alcuno lintenzione del legislatore nel rimando ad essa, che è contenuto nel testo della legge che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Ciò premesso, siano consentite due domande:
(1) dove sarebbe la «creatività» di una sentenza che consente a un minore di essere adottato dal partner del proprio genitore?
(2) quanta cacca cè nella testa di chi afferma che «in tema di stepchild adoption fino a oggi la giurisprudenza ha dato delle interpretazioni creative»

venerdì 13 maggio 2016

«Ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo»

Sempre più spesso mi capita di ritenere superfluo spendere un commento su quanto dichiarato da questo o quel protagonista della vita pubblica, con prontezza diffuso dai canali di informazione, per essere immediatamente fatto oggetto di ampia discussione in ogni sede. Sia chiaro che per commento intendo unopinione adeguatamente argomentata, perché la sensazione che il virgolettato attribuito a Caio o a Tizio non meriti la fatica, e che al più valga la pena di porre ogni attenzione solo alle ragioni che gli procurano adesione o dissenso, può ben lasciare spazio almeno a una battuta, che proprio nella sua estemporaneità esprime il rigetto di una problematicità tutta fittizia. Non sempre, ma quasi sempre, accade perché, a dispetto del rilievo che sembrerebbero meritare, si tratta di affermazioni fatte senza altro scopo che ottenere quella visibilità che – insieme – nutre e divora il personaggio pubblico, senza risparmiare chi aspira ad esserlo agganciandosi al bandwagon dei like e dei dislike. Semplificando, direi che si possano distinguerne due tipi, secondo il genere di visibilità che si ripromettono di riscuotere: ci sono le affermazioni provocatorie, paradossali, iperboliche, che spesso sembrano voler squarciare il velo dellipocrisia o del conformismo con quelle che sono offerte – ma sarebbe più corretto dire somministrate – come verità che pretendono di essere inconfutabili per il solo fatto di essere sgradevoli o irritanti; e quelle che si limitano a enfatizzare, cercando di renderli solenni o appassionati, concetti di una banalità disarmante, spesso racchiusi in frasi fatte, perfino in idiomatismi daccatto. In entrambi i casi, a dispetto dell’effetto che possono comunque riuscire ad ottenere perfino in chi abbia una capacità critica adeguatamente sorvegliata, anche una sbrigativa analisi è in grado di rivelarle invalide sul piano della logica proposizionale, quasi sempre per tautologia o per paralogismo.
Di questo genere mi pare sia una frase come «ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo», che volentieri avrei evitato di commentare su queste pagine, se non fosse che da quando è stata pronunciata da Matteo Renzi (e non era la prima volta, perché era già accaduto nel 2011, nel 2013, nel 2014 e a febbraio di questanno) sono stato raggiunto da numerosi inviti a farlo, in due o tre casi addirittura pressanti. Inviti nei quali, pur con segno diverso, ho letto il retropensiero di chi da un mangiapreti come il sottoscritto pretende un riconoscimento di merito, come atto dovuto, in favore di un uomo politico da me pesantemente maltrattato in numerose occasioni, ma qui – mi si dice – indubitabilmente splendido campione di laicità.

E allora comincerò col dire che aver «giurato sulla Costituzione» non impedirebbe affatto a un Presidente del Consiglio di poter ritenere non utile, né necessaria, tanto meno indispensabile, anzi inopportuna o addirittura dannosa, una legge che riconosca le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Proprio facendo appello alla Costituzione (art. 81), infatti, e rinunciando a ogni altro argomento di natura etica o di stampo confessionale, si potrebbe essere contrari alla sua approvazione, ritenendo che comporti «nuovi oneri» (si parla di qualche centinaia di milioni di euro) senza essere stata in grado di contemplare i «mezzi per farvi fronte» (larticolato in merito li quantifica a meno di un decimo di quanto sarebbe realmente necessario).
Di converso: aver «giurato sul Vangelo», impedirebbe a un Presidente del Consiglio di essere a favore di una tal legge? Lasciamo stare il Vecchio Testamento, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di Paolo, lasciamo stare la dottrina cattolica, le linee pastorali della Cei, che qui non sono chiamate formalmente in discussione: in quale punto dei Vangeli si legge esplicita condanna delle unioni tra persone dello stesso sesso? E forse non esistono paesi – il caso principe è quello degli Stati Uniti dAmerica – nei quali chi al momento dellinsediamento ai vertici degli organi più alti del governo locale o federale ha giurato sulla Bibbia senza per questo sentire contraddizione nellesprimersi in favore del matrimonio gay?

Via, guardiamo ai fatti: è da tempo che in Italia non cè più un partito che raccolga la stragrande maggioranza di chi sente appartenente al mondo cattolico; lattuale pontificato ha imposto alla Cei di abbandonare la politica ruiniana, lasciando la difesa dei cosiddetti principi non negoziabili a frange ormai minoritarie di tradizionalisti; nei confronti dei diritti rivendicati dal movimento Lgbt lopinione pubblica ha mutato notevolmente il suo atteggiamento; rapidamente mutato, è necessario aggiungere, se si pensa al fatto che Matteo Renzi era fra i partecipanti al Family Day del 2007, a sostenere ragioni che oggi, evidentemente, ritiene superate.
Concedo sia possibile unobiezione: una genuina laicità è dimostrata proprio dallessere capace di avere, da Presidente del Consiglio, unopinione diversa da quella di un comune cittadino cattolico, recependo le istanze di chi non intende essere prono ai veti della Chiesa di Roma. È obiezione debole, perché Matteo Renzi, nel 2007, non era un comune cittadino, ma Presidente di Provincia, e in più, in opposizione a una legge che riconoscesse le unioni civili tra persone dello stesso sesso, sosteneva che Governo e Parlamento stessero commettendo «un errore gravissimo» a non cogliere «il fatto storico di un milione di persone in piazza»: è evidente che, da membro del Governo o del Parlamento, la sua posizione sarebbe stata opposta a quella odierna. Ammesso e non concesso che la sua affermazione odierna basti a dar prova certa di una genuina laicità, deve trattarsi di acquisizione assai recente, che, nellimpossibilità di una controprova, è legittimo sospettare sia tutta funzionale a raccogliere le simpatie di unopinione pubblica che nel 2007 non era favorevole, come invece lo è oggi, a una legge come quella varata laltrieri. Non è un caso, infatti, che lo stralcio della stepchild adoption sia seguita alla diffusione di sondaggi che la segnalavano come questione assai controversa.

Mi pare di poter concludere dicendo che siamo allennesima prova di quel cinismo e di quellopportunismo che nei demagoghi del «populismo dallalto» mettono i sensori del vento che tira a servizio del consolidamento di un potere personale necessariamente disintermediato. E aggiungerei che proprio la scelta di una frase come «ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo» ne riveli il tratto più spregiudicato. Non a sorpresa di avere un laico come Presidente del Consiglio, ma a conferma di avere un uomo di merda come aspirante a dittatorello. 

giovedì 12 maggio 2016

[...]

Meno l’individuo ha strumenti di autocoscienza e di autodeterminazione, più la persona, che ne è la maschera di scena, ha bisogno di darsi cifra identitaria (etnica, religiosa, sessuale, ecc.). È questo che impone (in-pone) una fascia elastica di color rosa, eventualmente fucsia, con un bel fiocco sopra, alla neonata che viene alla luce senza troppi capelli: deve essere evidente che sia femmina, anche se poi era tanto atteso un maschio. Dov’è l’identità sessuale ad essere chiamata come strumento più sicuro per dare saldi punti di riferimenti nella selva relazionale, l’individuo è giocoforza chiamato a esplicitarla con ampio anticipo rispetto alla sequela degli eventi che le conferiscono la maturità anatomica e funzionale, fino al punto che spesso anche questa è chiamata ad anticiparsi (non a caso il menarca è anticipato nella favela brasiliana rispetto al collegio svizzero). Stessa cosa accade quando allindividuo è imposta la cifra identitaria religiosa: sarà fin da bambino che a ogni Ashura il coltello inciderà il suo cuoio capelluto.
Questo avrebbe dovuto dire Corrado Augias, invece di mantenersi in quel vago che lo ha portato ad essere frainteso fino ad essere ingiustamente accusato di aver voluto insinuare che le violenze e la morte subite dalla piccola Fortuna Loffredo fossero dovute allaverla abbigliata a 6 anni da signorinella di 16 o 18: la sua osservazione non era affatto stupida, ma lha argomentata malissimo. Poi, ha fatto di peggio: alle critiche piovutegli addosso (più che altro, alla minaccia di querela) ha ritrattato, ha chiesto scusa, e anche qui con un pessimo argomento: ha detto gli dispiaceva aver ferito la sensibilità dei genitori della bambina, ha detto che la sua osservazione era d’un uomo d’altri tempi, quelli in cui i bambini erano vestiti da bambini. E nel salottino di Fabio Fazio si è beccato applausi prima e dopo. Brutta pagina. Bruttissima.

martedì 10 maggio 2016

La seconda volta come farsa

«Hegel nota in un passo delle sue opere
che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi
della storia universale si presentano
per, così dire, due volte. Ha dimenticato
di aggiungere: la prima volta come tragedia,
la seconda volta come farsa»

Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte



Uomo di Sinistra, il Depretis. È con la nascita del suo V governo, il 19 maggio 1883, che il trasformismo diventa esplicito programma politico. Senza scrupoli di sorta, perché il termine non ha acquistato ancora laccezione negativa che acquisterà dopo, molto dopo (al momento è solo quellanima bella di De Sanctis a storcere il muso), ed è sinonimo di evoluzione, «la legge generale delle cose viventi», come dirà il Minghetti, uomo di Destra, per dichiararsi – potenza delleufemismo – disponibile a discuterne.
Il trasformismo non è il cambio di casacca: a trasformarsi devono essere i partiti, perché Destra e Sinistra sembrano categorie superate, per giunta logoranti. Ad essere logorata, in realtà, è solo la Sinistra, e Depretis cerca di darle una base più solida in Parlamento, in nome di qualcosa che unisca gli eletti di là dalle ideologie. Il bene comune? Senza dubbio, ma cosa è comune agli uomini dei fin lì opposti schieramenti?
«In buona coscienza fanno prima di tutto e soprattutto gli interessi loro propri, dei parenti, dei congiunti, degli amici, dei protetti, facendovi entrare, quando si possa senza proprio incomodo, anche quelli del pubblico»: qualunquista ante litteram, padre Carlo Maria Curci, ma, nel concedere che «Destri e Sinistri si dividevano e si dividono ancora così per i riguardi personali, per divergenze in particolari opinioni, ma quanto al principio generale l’uno vale sostanzialmente l’altro», ammette che il programma di Depretis abbia una solidità di fatto nellevidenza che ormai Destra e Sinistra sono termini «arcaici»Sbarazziamoci delle ideologie, si faccia largo a un sano pragmatismo che porti a confluire tutti gli uomini di buona volontà e di solido appetito in un bel Partito della Nazione.
Vabbè, qui sono andato un po oltre, perché Depretis e Minghetti non si azzardarono a immaginare di poter far confluire Sinistra e Destra in un partito unico. Uomini dellOttocento, cè da capire.

Dovendo sbarazzarsi delle ideologie per poter meglio conciliare i traffici e le spartizioni, era necessario liberarsi degli abiti che si erano indossati fino ad allora per officiare ai riti dello scontro tra chi era al governo e chi allopposizione. Lappartenenza ad una tradizione culturale diventava dimpaccio e chi ne coltivava il culto – si noti dal bisticcio che occupazione stronza – diventava un solenne rompicoglione, un idealista del cazzo, un seccante brontolone.
Quel gufo del Carducci, per esempio: «A questa nazione, giovine di ieri e vecchia di trenta secoli, manca del tutto lidealità... Uomini e partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli vantaggi: dove si baratta per genio labilità, e per abilità qualche cosa di peggio; dove tromba di legalità e alfiere dellautorità è la vergogna sgattaiolante tra articolo e articolo del codice penale». Peggio di uno Zagrebelsky, via, quasi un Davigo.
Per fortuna non mancò chi seppe dare una copertura culturale alloperazione. Provate a indovinare. Bravi, fu quella merdaccia di Benedetto Croce: non importa se il politico sia onesto o meno, limportante che è sia bravo. Bravo a che? Che domande, bravo a far politica, che è scienza dell’utile. Utile a chi? Basta con le domande, ché Sua Eccellenza ha cose più importanti a cui pensare, ha da scrivere un saggio sulla poesia barocca e non può perdere tempo a battibeccare sui social. Date tempo al tempo, aspettate che tutto questo schifo diventi fascismo e vi concederà di venerarlo come iconetta dell’antifascismo. Riempitelo di like, ché ci tiene tanto.