domenica 7 aprile 2019

Il lemma trendy





«I comunisti che stanno in carcere?
Sarebbero peggio dei fascisti. Perché almeno questi
sono dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa
le fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi
e le bestialità le fanno bene»

Vitaliano Brancati, Il bellAntonio



Anche se il nostro patrimonio lessicale comprende un numero di voci che il computo dei linguisti stima tra le 215.000 e le 270.000, raramente ci si imbatte in chi correntemente ne impiega più di 7.500, mentre in media se ne usano poco più di un migliaio, e il dato è in calo, perché negli ultimi decenni è considerevolmente aumentato il numero di quanti riescono a farsene bastare 300, a dispetto del tanto digitare sulle tastiere di pc, tablet e smartphone, da cui ci si poteva attendere che gli italiani traessero un arricchimento del lemmario personale, come solitamente accade quando la comunicazione si amplia e diventa più frequente. Attesa vana: si scrive assai più di un tempo, ma in una lingua sempre più povera, refrattaria alla scelta del più appropriato sinonimo di cosa, del verbo che dia precisione al vago fare, dell’aggettivo che chiarisca se con grande sia da intendere voluminoso o rilevante, abbondante o importante.
Ai lemmi d’uso più comune, ridotto a numero tanto esiguo, si aggiungono, però, di tanto in tanto dei termini che godono di un’improvvisa ed estesissima ancorché effimera fortuna, per riaffondare di lì a poco, più o meno lentamente, nelle profondità dell’inconsueto o del desueto dal quale erano stati pescati. In questo modo accade che in un discorso pubblico sempre più piatto e opaco, anonimo e incolore, caschi un termine che fin lì aveva avuto incidenza solo episodica, per giunta assai datata.
Si prenda fuffa, per esempio. Fino a vent’anni fa, era ignorata perfino dal Treccani e dal Sabatini-Coletti. La si trovava sul Devoto-Oli, dove però se ne contemplavano solo le accezioni di «merce dozzinale, ciarpame, paccottiglia» e di «chiacchiera senza alcun fondamento o significato», considerandola «voce onomatopeica di origine lombarda», con ciò disconoscendo il significato originario di «ingarbugliamento dei fili di una matassa» dal toscano «fuffigno», come correttamente segnalato solo dal De Mauro. Poi, d’un tratto, il termine appare in ogni dove, e così per due o tre lustri, mentre oggi, invece, s’usa assai meno. Diremmo stia lentamente scivolando nel démodé.
Démodé? Possiamo sussumere nelle leggi della moda il processo che traccia la parabola di popolarità di questi termini? Se sì, non è difficile capire cosa ne decreti il declino: il lemma non ha le caratteristiche necessarie per diventare un classico e, al pari del capo di vestiario che non riesce a diventare un must nel guardaroba, viene dismesso appena ha smesso di esser trendy. Ma cosa ne decreta il successo? Qui le leggi della moda sono imperscrutabili, consentono solo di essere intuite. Per fuffa, restando al nostro esempio, deve aver senza dubbio avuto un peso il fatto che il lemma suona bene, è insieme buffo e incisivo, dà efficace colore al suo significato. In tal senso si apparenta alla locuzione francese à gogo, che ebbe grande popolarità nei primi anni Settanta, basta sfogliare i quotidiani e le riviste dell’epoca per ritrovarsela dovunque. Ma cosa decreta il successo di termini che non hanno queste caratteristiche? Perché d’un tratto escono dall’ombra per vivere la loro breve stagione di gloria? Se mi si fa passare la metafora, accade che dal baule degli abiti sotto naftalina ne venga tirato fuori uno preconfezionato che riserva la piacevole sorpresa della vestibilità di quello su misura. Fuor di metafora: è la costellazione dei tratti che fanno il significato a cercare un significante, e a trovarlo, quasi per caso, scoprendolo sorprendentemente aderente. In altri termini, la realtà produce un evento, dà vita a un modello, si struttura in una situazione, che non riescono a farsi bastare nemmeno in perifrasi i 300 o i 1.000 lemmi più comunemente usati per darsi un’adeguata definizione; poi, all’improvviso, dal dizionario spunta il lemma che in due o tre sillabe riesce a darne la sostanza per intero.
Anche qui non sarà inutile ricorrere a un esempio. Prenderemo il termine cialtrone che da alcuni mesi furoreggia dappertutto.

Nella persona del cialtrone confluiscono ben sei caratteri, e tutti ben distinti, come è reso evidente dallimpossibilità di trovare sovrapposizione o interscambialità tra i relativi sinomini:
- è innanzitutto persona che mostra assai poca correttezza nei confronti del prossimo, e senza farsi scrupolo di arrivare al dolo (è imbroglione, mascalzone, furfante, lestofante, ecc.);
- né si dà cura nel conferire almeno un minimo di plausibilità all’impostura, che è lo strumento di cui fa più frequente uso (è impudente, volgare, sfacciato, villano, ecc.);
- impostura che è quasi interamente affidata alla sua ciarla (è linguacciuto, parolaio, vaniloquente, ecc.);
- un ciarlare che per lo più è un millantare (è spaccone, pallista, borioso, spocchioso, ecc.), e che si rivela tale nella vistosità di due difetti:
- il cialtrone è sciatto, trasandato, pasticcione, abborracciatore, ciabattone, ecc.;
-  ed è indolente, fannullone, poltrone, scansafatiche, ecc.
Detimo incerto, cè chi ipotizza sia un incrocio tra ciarlone e poltrone (De Mauro, Devoto-Oli, Casalegno-Goffi), ma è evidente che la sua persona non possa esaurirsi in questi due soli aspetti, sicché, se fosse esatta lipotesi, si dovrebbe supporre che la persona del cialtrone sia venuta a costruirsi attorno a quel nucleo. Cosa le avrebbe conferito il resto? Dar carriera a quei due vizi morali: da ciarlone farsi ciarlatano, riscoprire in poltrone la variante di paltone (accattone), diventare impostura ambulante per il mondo, tra immeritate fortune e rovinosi rovesci, per guadagnare linfamia della persona «di volgarità sudicia e moralmente vile» (Tommaseo), «volgare e spregevole, priva di serietà e correttezza nei rapporti umani o che manca di parola negli affari» (Devoto-Oli), che «ricorre a trucchi scoperti per giustificarsi» (Sabatini-Coletti).
Tanto scoperti, i suoi trucchi, da rendere di regola la sua impostura assai irritante, ma talvolta anche divertente. Nel primo caso, il cialtrone è sentito come minaccia sociale, perché della risma dei gabbapopoli (un esempio ne Il viaggio di un ignorante di Giovanni Rajberti, del 1854, dove il cialtrone è per la prima volta accostato al populista, ovviamente ante litteram); nel secondo, la maldestrezza dei suoi mezzucci muove a una sorta di tenerezza (si pensi al «sofisticato cialtrone» affibbiato a Vincino nel necrologio de Il Foglio). Diremmo che labiezione che bolla il cialtrone mira a condannare innanzitutto loffesa che ci fa col ritenere di poterci abbindolare con eccessiva facilità: è un impostore che sottovaluta le nostre capacità di difesa allimpostura, e dunque merita due volte il nostro disprezzo.

Qui possiamo richiamare lassunto relativo alle ragioni che decretano limprovviso ed enorme successo che un termine inconsueto o desueto viene a riscuotere in un determinato momento, chiedendoci quale sia levento, il modello, la situazione che trovano in cialtrone la felice soluzione lessicale. Domanda superflua, basta considerare in quale contesto si registra la più frequente ricorrenza del termine: cialtroni sono i grillini: imbroglioni e villani, parolai e spacconi, fannulloni e pasticcioni.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrà dare un senso al brano tratto da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati posto in esergo, chiedersi se la soluzione lessicale, di cui qui si è cercato di spiegare la ragione, non esprima nel profondo un bisogno di «bestialità fatte bene»


venerdì 29 marzo 2019

Spezzare una lancia in favore di Radio Radicale


È da decenni che la ascolto per diverse ore al giorno, ma soprattutto amo perdermi nel suo sterminato archivio. Poi cè che certe sue rubriche mi sono diventate appuntamento fisso, inderogabile: Cindia di Claudio Landi, Prime pagine di Enrico Rufi, Derrick di Michele Governatori, giusto per citare le prime che mi vengono in mente. E poi le voci: ci sono voci – Lembo, Jannuzzi, Punzi... – che ormai mi sono diventate familiari come i ronf-ronf di Steve e Brian (a chi non lo sapesse, sono i miei gatti). Fosse a pagamento, insomma, pagherei, e anche molto, se necessario. Mi è dobbligo, quindi, spezzare una lancia in favore di Radio Radicale, che a fine maggio potrebbe interrompere le sue trasmissioni. Non lo farò, però, unendomi al coro di quanti pensano che questa sciagura – perché di vera sciagura si tratterebbe – si possa scongiurare con i piagnucolosi appelli dellonorevole acondroplastico o dellattricetta col birignao: ma vi pare che i barbari possano essere sensibili a una tal perdita? Non so quali siano i reali motivi che stanno dietro alla scusa del dover fare economie, potrebbe trattarsi di una mossa nel più generale piano di dare una stretta alla libertà di informazione, ma pure di un calcio nei coglioni a chi ogni mattina dà del «Truce» a questo e del «Giggino» a quello, in ogni caso temo che i gialloverdi procederanno senza ripensamenti, e dunque urgono soluzioni daltro genere. A questo mira il post: a esporre una proposta. Che però necessita di una premessa, senza la quale potrebbe sembrare balzana. Non stupisca quanto sto per dire dopo aver dichiarato la mia dipendenza da Radio Radicale: una valida soluzione del problema può essere trovata solo sgombrando il campo da passioni e pregiudizi. E dunque.

Nel panorama radiofonico italiano, che oggi è dato da poco più di 250 emittenti tra pubbliche e private per un totale di radioascoltatori in media di 34.703.000 al giorno (Radio Ter 2018), Radio Radicale assume un ruolo analogo a quello del giornalista politico così come descritto da Enzo Forcella in Millecinquecento lettori: «Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copia. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dellaspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dellintera politica italiana: è latmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin dallinfanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante».
Lanalogia è innanzitutto nei numeri: nel 2013, su un totale di 34.853.000 radioascoltatori al giorno, Radio Radicale ne aveva 294.000; lanno dopo ne aveva 244.000 su 34.314.000, con un calo del 20,5%; nessun dato dal 2015 in poi, per la decisione di sospendere liscrizione alle indagini di ascolto (occhio non vede, cuore non duole).
Altra analogia è quella dei «lettori privilegiati», come è evidente dallelenco dei bei nomi che in queste ultime settimane si stanno spendendo perché venga ritirata la decisione del governo di dimezzare i fondi da decenni assicurati a Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari, che la costringerebbe a chiudere i battenti: al momento mancano solo gli «alti prelati» al trasversalissimo parterre des rois, ma non è detto che in extremis non vogliano dare anchessi il loro aiuto, visto che spesso sono stati tra i «protagonisti» di quelle «recite in famiglia» in cui si finge di detestarsi, in fondo volendosi un gran bene.
Recite in cui Radio Radicale ha sempre avuto lagio di interpretare sulla stessa scena il doppio ruolo di «organo della Lista Marco Pannella» e di «impresa radiofonica che svolge attività di informazione di interesse generale», godendo della vantata contraddizione di stare «dentro, ma fuori dal Palazzo», sfruttando le opportunità offerte dal «fuori» e dal «dentro», come dimostra la legge che nel 1990 le fu cucita addosso su misura risparmiandole il taglio del finanziamento pubblico per leditoria che colpì ogni altro «organo di partito», consentendole così di continuare a prendere quasi quattro milioni e mezzo di euro ogni anno. In tal senso andrebbe precisato che la decisione del governo di dimezzare i fondi da decenni assicurati a Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari non ridimensionerebbero le sue entrate da dieci a cinque milioni di euro, ma da quasi quattordici e mezzo a quasi nove e mezzo.
Ma questo è solo il tratto più prosaico della contraddizione che a Radio Radicale è concessa more et iure, perché cè quello assai più redditizio sul piano del prestigio e dellautorevolezza: essere – insieme – «istituzione» e «voce libera», bon ton e j’accuse. Ma anche qui possiamo farlo dire a Enzo Forcella: «Cè quasi sempre un angolo dal quale si può fare un po di anticonformismo riscuotendo lapprovazione di altri conformisti».
Da quellangolo, secondo come mette la stagione, si può alternare un «no taliban, no vatican» a un «viva il papa», dare del «buono a nulla» a Tizio e del «capace di tutto» a Caio per allearsi prima con luno e poi con laltro, scatarrare sarcasmo sulle battaglie culturali de Il Foglio e poi diventare fogliante in servizio attivo permanente. Ma si diceva: «protagonisti che si conoscono fin dallinfanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene».
Punto di rottura nellanalogia: «si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante». Qui un pubblico pagante cè, ed è il contribuente, che, tornando ai numeri, tiene in piedi una radio che ogni giorno fa poco più di 200.000 ascoltatori su oltre 34.000.000. Se non sbaglio, saremmo intorno allo 0,7%.

Col taglio del contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari da dieci a cinque milioni di euro il governo vuole la chiusura di Radio Radicale? Si accetti la sfida e si rinunci anche agli altri cinque. Di più: si rinunci anche ai quattro milioni e mezzo che le arrivano dai contributi per leditoria. Si apra una sottoscrizione e i duecentoquarantamilaedispari ascoltatori di Radio Radicale si dichiarino disposti a pagare una quota annua: sessanta euro (14.500.000/244.000≃60). Per quanto mi riguarda – ma sono certo che cè chi la ama assai più di quanto la ami io – sono disposto ad accettare che quanti amano Radio Radicale siano anche solo 122.000, assumendomi quindi limpegno di pagarne 120. Sono disposto ad accettare pure che siano solo 61.000, pagandone 240. Se sono meno di 61.000, vuol dire che me ne farò una ragione: Radio Radicale non aveva ragion dessere.

martedì 26 marzo 2019

Cecchinare stanca (Scrivi, Malvino ti risponde)


Caro Malvino, […] mi aspettavo che sparassi a zero sul World Congress of Families che sta per tenersi a Verona […]
Roberto Russo



Sparare? Vada per il figurato, caro Russo. E dunque.
Per quindici anni da quest’abbaino ho cecchinato in difesa del principio che «su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano»: chierico o laico che lo mettesse in discussione – bang! – sparavo.
Scelta obbligata, quella del cecchinaggio, mai stato in grado di piegarmi alle logiche dell’esercito regolare – una paga, una divisa, un generale che ti dice a chi sparare, e a chi no, e quando sì, e quando no, che poi semmai sorprendi pure a cena col nemico, e neanche puoi sputargli in faccia, perché andarci a cena è parte di un disegno tattico che non ti è dato di poter capire, zitto, rientra nei ranghi e fa’ finta di non aver visto – e chi poteva sopportarlo? Non io.
Mi è mancato il calore umano che in trincea allevia i rigori della guerra? Onestamente, no. Sempre stato molto diffidente su quel tipo di calore, e poi la solitudine non mi ha mai fatto paura, anzi, son sempre stato io a cercarla.
Sì, non c’è bisogno che me lo ricordi, per qualche anno ho militato sotto le insegne di una colonna partigiana, ma dovresti sapere che è durata poco, giusto il tempo per capire che era una banda di sfessati agli ordini di un guardatemi-guardatemi che, al confronto, D’Annunzio era un austero von Clausewitz.
Cecchino, dunque, e in anni in cui non c’era giorno che si potesse stare a guardar nuvole o ad annaffiar gerani: Ratzinger, la Cei di Ruini, gli atei devoti, il referendum sulla legge 40, il dibattito sulla Ru486, quello sulle unioni civili... Occhio incollato al mirino, dito attaccato al grilletto – bang! bang! bang! – più di 11.000 post, quasi 15 milioni di battute spazi esclusi, e in testa sempre lo stesso chiodo fisso: «su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano», chi lo metteva in discussione era un pezzo di merda, andava eliminato. Ma ovviamente – si diceva – siamo nel figurato.
Labile il confine tra perseveranza e ossessione, caro Russo, ancor più labile quello tra senso del dovere e compulsione, sicché io stesso mi son chiesto spesso in questi quindici anni: ma ’sto Malvino è rigoroso o coatto? Non riuscendo a dare una risposta, mi son risolto a credere che la domanda andasse posta in altri termini: ma su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, ’st’individuo vuol essere sovrano? Qui la risposta era facile: a volte sì e a volte no. Sicché pretendere che lo sia sempre è fargli violenza, buttargli addosso una responsabilità che non sa reggere.
E dunque spara, Malvino, ma non sentirti eroe: non sei un sangiorgio, e poi manco sei donna, manco sei gay, nessuno ti discrimina per quel che sei, tutta stabnegazione per una questione di principio non ti puzza di liberalità da gentiluomo di campagna?
Guarda: il referendum sulla fecondazione assistita va deserto, ma dagli abbaini che hai d’intorno non s’ode uno sparo, campioni olimpionici di tiro libero fanno playlist e recensiscono l’ultimo iPhone, l’ultimo serial, l’ultimo film. Ergo, rifatti la domanda: è rigoroso o coatto, ’sto Malvino? Ecco, vedi, ora ti è chiaro: è coatto.
Quella sua fottuta acribia sulle encicliche (via, a chi possono mai interessare le encicliche?), sulle battaglie culturali de Il Foglio (ormai lo legge solo lui, è una fissa), sulle grandi e piccole schifezze de LOsservatore Romano e di Avvenire (ma vuoi vedere che qualche salesiano lha molestato da bambino?): coatto, coatto, i sintomi cerano tutti, ho fatto mia la diagnosi.
E ora? Ora, per piacere, se questo World Congress of Families vi sembra un Medioevo, sparate voi. Sentirete risuonarci dentro encicliche, editoriali di Ferrara, fondi di Vian e di DAgostino, e in sottofondo – ma solo ad averci orecchio – sentirete la spenta eco dei miei bang!, e solo quella: tanto ho cecchinato, e guadagnandoci solo una diagnosi di sindrome ossessivo-compulsiva, che ora lascio, sparate voi, vediamo quanto siete bravi, io mi limiterò a guardare. Se fate cilecca, da quest’abbaino sentirete una risata. 

domenica 24 marzo 2019

Memorandum


Nel gennaio del ’47, quand’è a capo di un governo in cui i comunisti hanno quattro ministeri, e i socialisti tre, Alcide De Gasperi vola in America, ufficialmente per partecipare ad un convegno. Nessuno gliene ha dato mandato, ma lì firma un memorandum d’intesa: un bel paccotto di milioni di dollari in cambio dell’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo. Torna in Italia ed esegue.
Inizia a questo modo quella che per settant’anni sarà celebrata di qua e di là dall’Atlantico come «la grande amicizia tra Roma e Washington». Qualche superficialone parlerà di vassallaggio, ma è perché non ha senso delle proporzioni. Non è normale che, tra due amici, quello più grosso abbia un naturale istinto di protezione verso quello più piccino? È in questo modo che va letta l’amichevole minaccia di morte con la quale Kissinger cerca di dissuadere Moro dal far entrare il Pci al governo: naturale istinto di protezione.
Beh, ora quest’amicizia corre il serio rischio di incrinarsi. Per colpa nostra, ovviamente. È che abbiamo firmato un memorandum d’intesa con Pechino, e si sa che Pechino, a differenza di Washington, non dà mai niente per niente, sicché è possibile (ma che dico? è assai probabile, quasi certo, sicuro) che nel paccotto di milioni di yuan che Xi Jinping porta a Roma sia celata un’insidia (no, più che un’insidia: un pericolo, e non da poco): tra due o tre anni potremmo diventare una colonia cinese.
Il Nando Mericoni che ci portiamo dentro sarebbe costretto a una faticosissima riconversione, mi auguro comprenderete il dramma. In più, potremmo ritrovarci il dizionario zeppo di lemmi asiatici. Più di tutto, perderemmo la sovranità nazionale che fino a ieri abbiamo potuto vantare con orgoglio, liberi da ogni condizionamento, a riparo da ogni ingerenza.
Sì, è vero, potrà sembrare che in questi ultimi settant’anni la Cia abbia messo il naso dove non avrebbero dovuto metterlo, che la Chiesa abbia cercato di dettar leggi al nostro Parlamento, che l’Unione europea ci abbia scritto le finanziarie, ma in fondo non facevano altro, ciascuna a suo modo, che offrirci quello che noi non sapevano di volere, al punto che spesso le abbiamo costrette pure a dover insistere, per il nostro bene. E qualcuno, ingrato, pure a recriminare.

lunedì 18 marzo 2019

Via, siate indulgenti


«Culle vuote e frontiere piene, ma la crisi delle nascite non preoccupa nessuno» (Il Foglio, 8.12.2018). Proprio «nessuno», no: Brenton Tarrant si preoccupava, eccome. «Every day – scriveva – we become fewer in number, we grow older, we grow weaker. In the end we must return to replacement fertility levels, or it will kill us. To maintain a population the people must achieve a birthrate that reaches replacement fertility levels». Né gli sfuggiva la ragione del perché, «despite this sub-replacement fertility rate, the population in the West is increasing, and rapidly»: «sono stati i contingenti di immigrati a vivacizzare una demografia altrimenti morente» (Il Foglio, 14.1.2019), «la nostra “crescita attuale” è come la luce delle stelle molto vecchie, vediamo l’effetto di fenomeni che non esistono più, “drogati” dall’immigrazione» (Il Foglio, 14.6.2018), cioè, per dirlo come lo diceva Brenton Tarrant, «mass immigration and the higher fertility rates of the immigrants themselves are causing this increase in population».
Soluzione? «To return to replacement fertility levels is priority number one», ovvio, ma occorre prendere atto che «dietro al nostro “malessere demografico” si nasconde un malessere culturale» (Il Foglio, 17.2019), giacché «western culture is trivialized, pulped and blended into a smear of meaningless nothing, with the only tenets and beliefs seemingly held to are the myth of the individual»: è il «disaster of hedonistic, nihilistic individualism», «un individualismo sintomo di mancanza di speranza» (Il Foglio, 5.4.2018). 
Dice nulla la relazione tra «empty nurseries» ed «empty churches», da un lato, e «full shopping centers» e «full mosques», dallaltro? È che «the West killed the notion of God, and proceeded to replace it with nothing», ma si può dirlo meglio: «La religione di un popolo, la sua fede, crea la sua cultura, e la sua cultura crea la sua civiltà. Quando la fede muore, muore la cultura e muore la società. E anche quel popolo comincia a morire» (Il Foglio, 28.7.2016).
Che fare, allora? «Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati» (Il Foglio, 25.5.2017). 

Via, siate indulgenti: lunico errore commesso da Brenton Tarrant – quello che ora gli costerà almeno trentanni di galera – è stato quello di far seguire i fatti alle parole.

venerdì 15 marzo 2019

«Mussolini ha fatto anche cose buone»


Se facciamo nostra la tesi che Umberto Eco espone ne Il fascismo eterno, il Ventennio smetterà di essere un problema storico, per diventare semplicemente larco di tempo in cui «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» ebbero ipostasi in un regime politico. Con ciò, però, dovremmo concedere che «un modo di pensare e di sentire» sia possibile al di fuori del contesto sociale che lo produce, che le «abitudini culturali» precedano la costruzione della società che le fa proprie, che il fascismo sia in qualche modo innato perché inscritto nella costellazione di certi «istinti» e di certe «pulsioni» che sono antecedenti al loro precipitare nella storia: «eterno», dunque, perché archetipo preesistente al Ventennio, seppure nella disarticolazione degli elementi che nel Ventennio gli fecero assumere la forma più facilmente riconoscibile (lo dimostrerebbe il fatto che prima del 1919 non possiamo chiamarlo ancora «fascismo», mentre dopo il 1945 non possiamo chiamarlo in altro modo); «eterno», soprattutto, perché con la fine del Ventennio non ha smesso dessere lidea che gli preesisteva, idea che «è ancora intorno a noi», pronta a reincarnarsi, seppure «sotto spoglie più innocenti».
È un caso che questa interpretazione del fascismo veda la luce in un libricino che reca a titolo Cinque scritti morali (Bompiani, 1997)? Ovviamente no, perché, interpretandolo a questo modo, il fascismo diventa un problema solo incidentalmente sociale, politico, economico, ecc. La sua cornice non è la storia, ma la teodicea: è il male – meglio ancora, è il Male Assoluto – che incombe sui destini umani. Se è ab-solutus, non ha discontinuità, dunque non gli si può riconoscere alcun merito, a meno che non si sia vittima dei suoi inganni o complice delle sue nequizie. Dire che «Mussolini ha fatto anche cose buone», quindi, rivela il cretino o il criptofascista, eventualmente il neofascista.
Dà da pensare che questo modo di interpretare il fascismo fu del tutto estraneo a chi più lo avversò durante il Ventennio. Non uno dei grandi antifascisti pensò al fascismo come a unentità metastorica, tanto meno come al Male Assoluto: in tutti, senza eccezioni, il fascismo è un problema da affrontare esclusivamente sul piano delle scienze sociali. Sarà per questo che anche in chi ne fa unanalisi che prolude a una condanna senza possibilità di appello non manca il riconoscimento dun qualche merito, in ossequio a quella onestà intellettuale che consente di giudicare positivamente la bonifica di una palude indipendentemente da chi lha bonificata, al pari di come sul piano logico si è tenuti a dichiarare valida una proposizione, se valida, indipendentemente da chi lha formulata. Così, in Antonio Gramsci e in Benedetto Croce, in Carlo Rosselli e in Gaetano Salvemini, in Lelio Basso e in Leo Valiani, in Palmiro Togliatti e in Luigi Sturzo, non stupisce trovare incisi che alle politiche del regime fascista concedono un po di più di quanto sia disposto a concedergli oggi chi sposa la tesi di Umberto Eco: non saranno dei «Mussolini ha fatto anche cose buone», ma gli sarebbero altrettanto irritanti, se solo li leggesse. 

lunedì 11 marzo 2019

Parafrasi



Quante volte abbiamo detto che la minigonna non è capo di vestiario da donna seria? Tante, rammentate? E non abbiamo certo lesinato in argomenti. Non parliamo poi degli autorevoli pareri che vi abbiamo offerto a supporto.
Ricordate l’Elogio della verecondia di monsignor Sempronio Sguarramazzi che pubblicammo in prima pagina? Dal De verginibus velandis di Tertulliano al «Mìttete scuorno, zucculone!» di Padre Pio, che squisita pastorale! E ricordate che diceva sulle tentazioni che il Maligno tende all’uomo col ginocchio ignudo della femmina iperestrinica?
E il doppio paginone nell’inserto del sabato con l’intervista al professor Einar Stefferlond della Norwegian University of Life Sciences? «È fuor di dubbio che la lunghezza della gonna sia inversamente proporzionale alla resistenza che il sistema nervoso della donna oppone al gammaidrossibutirrato che il malintenzionato le versa di nascosto nel bicchiere».
E voi? Niente. Nel migliore dei casi, un sorrisetto tra il compassionevole e il beffardo, sennò l’epiteto ingiurioso col qualche pensavate di poter chiudere la discussione: retrogradi, eravamo retrogradi. E ora? Ora vi lamentate di tutti questi stupri? 

La fitta


L’appunto di Carlo Michelstaedter che segue a questa premessa (tratto da La melodia del giovane divino, Adelphi 2010, pagg. 205-206) è così bello, così ben scritto, che ricopiarlo manualmente invece di passarlo allo scanner – così ho pensato – potrà in parte lenire la fitta dinvidia che mha inferto ad un fianco nel leggerlo, che mha reso faticoso arrivare fin qui, e che ancora duole. Saper scrivere a questo modo – saper distillare dalla rozza materia del disprezzo una metafisica della cazzimma – Dio, varrebbe la perdita di un braccio, possibilmente quello sinistro.

A Benedetto Croce non per insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia ammirazione. Ammirazione per ogni onesta fatica. «Ho un’ammirazione per questo giovane – diceva un giorno un vecchio commerciante, d’un giovane poeta, ho un’ammirazione per lui: ché se io fossi come lui cretino e ignorante non saprei né leggere né scrivere – e lui fa tragedie». –
Così io che sono un vecchio uomo incallito nel lavoro ho unammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi come lui una mente acuta ed astratta di filosofia non me ne sarei mai curato e avrei fatto il giureconsulto – lui fa sistemi.
Ma i sistemi non si fanno; e Benedetto Croce dopo aver assorbito tutti i libri di filosofia si spreme e dice: «vedete, questacqua dindicibile colore è il prodotto di tutte le altre acque, se ne mancasse una non potrebbe essere quale è; di mio qui cè soltanto laggiunta del mio proprio umore, e la mia angoscia è la sete degli uomini che mancano e che ci verranno soltanto dagli stracci del futuro. Così io mi spremo disperatamente perché è dovere dogni straccio di filosofo di spremersi fino allultima goccia dellacqua propria e altrui, perché altri poi assorba e risprema con laggiunta del suo umore, e altri ancora assorba e sprema, e riassorbendo e rispremendo vivrà lumanità nei secoli allinfinito, il prodotto non sarà mai quello ma sarà sempre perfetto e non risciacquatura come dicono i maligni ma quasi – spirito assoluto».

Niente, ci ho aggiunto anche una virgola di mio, ma la fitta resta.

Perdendomi l’armonia del tutto


Fra i tanti miei difetti metto al secondo posto quello di non riuscire a dare alla visione dinsieme neanche un decimo dellattenzione che do ai dettagli (al primo posto, invece, metto quello di concedere pubblicamente che siano difetti quelli che nellintimo considero essere pregi), e questo accade sempre, da sempre, di fronte a un quadro, nella scelta di un capo di abbigliamento, nella lettura di un testo...
Il «bellissimo pezzo» di Luca Sofri segnalato ieri da Massimo Mantellini, per esempio: mi sarò certamente perso larmonia del tutto, ma a tre quarti del pezzo, che fin lì sera risolto per metà nel riportare brani di un articolo di recente apparso sul Washington Post e per metà nel farne leco, lattenzione sè appuntata su un dettaglio, e di lì non sè più mossa.
«Ci sono in Italia – ho letto – almeno cinque giornali, per restare ai quotidiani, la cui priorità è l’avvelenamento dei pozzi e la costruzione di un continuo risentimento nei propri lettori da indirizzare contro qualcosa o qualcuno».

Almeno cinque? E quali? Libero, La Verità, il Giornale... E poi? Il Fatto? Ok, pure Il Fatto ci sta, ma poi? Quale sarebbe il quinto quotidiano che semina zizzania a larghe mani e aizza i propri lettori al linciaggio di chi gli sta sul cazzo?
A me non viene in mente altri che Il Foglio, e manco tanto Il Foglio diretto da Claudio Cerasa, che, poverino, cerca di ferrareggiare, ma con risultati assai scadenti, quanto Il Foglio sul quale scriveva pure Luca Sofri, mai sapremo se perché facesse andare in estasi il direttore per la sua prosa o se perché raccomandato dal papà.

Era Il Foglio che massacrava dimproperi il politically correct, che lamentava lattacco a Dio, Patria e Famiglia sferrato dalla lobby gay e laicista, che denunciava la pretesa della scienza a dire sempre lultima parola su temi che solo i cretini potevano ritenere fossero scientifici, e invece erano teologici, che definiva bufala il global warming e che tuonava contro levoluzionismo.
Era Il Foglio che chiamava a raccolta i suoi lettori per bersagliare di frizzi, lazzi e fumanti palle di letame ora Roberto Benigni, ora Furio Colombo, ora Emma Bonino, e a chi faceva centro era assicurato un affettuoso occhiolino, ma soprattutto era Il Foglio che si sperticava in lodi per la figura del leader dai modi spicci, schmittianamente inteso come signore dello «stato deccezione», e fanculo alla lettera della Costituzione, ignorante del tanto da poterlo dire cazzuto, volgare del tanto da poterlo dire pop, gaffeur del tanto da poterlo dire al di là del bene e del male.
Poi era pure Il Foglio che di fronte ai barconi di migranti invitava a frenare la pietà perché «il sentimento benigno fa in questo caso la piaga purulenta» (12.1.2010 – pag. 3), e per il quale ogni politica dintegrazione era pia illusione destinata piuttosto a spalancare le porte allinvasore musulmano...
Un giornale salviniano e trumpiano ante litteram, direi.

«Tollerare gli avvelenatori di pozzi – scrive oggi Luca Sofri – permette di chiudere un occhio sulla propria parte di avvelenamento». Pienamente daccordo, ma quante volte, su quelle pagine, sè ritrovato pubblicato accanto a un Camillo Langone che denunciava lingravescente meticciato che sempre più affliggeva il popolo italiano, e ha chiuso un occhio? Gradiremmo avere la lista di quei cinque giornali per capire se quell’occhio, poi, l’ha riaperto.

domenica 10 marzo 2019

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Nel corso dell’evoluzione abbiamo perso la consuetudine di spulciarci a vicenda, pratica di affettuosa cura che presso gli altri primati, soprattutto scimpanzé e bonobo, rinsalda le relazioni tra i membri del gruppo per la forte carica empatica che la connota, al punto da poterle attribuire funzione di «collante sociale», come ormai unanime parere fra gli etologi. Tutto il contrario di quanto accade tra gli umani, dove «fare le pulci a qualcuno» è percepito come il «cercar[n]e accanitamente i difetti e gli errori [...] con spirito animosamente pignolo e malevolo» (Gabrielli – Hoepli, 2018), e sì che nessuno è immune da difetti, tutti incorriamo in errori, e gli uni e gli altri – si rifletta, la metafora non suonerà a iperbole – ci succhiano sangue più degli avidi sifonatteri, per giunta senza neanche darci modo di accorgercene, perché dei molesti insettacci almeno si può avvertire la presenza per il prurito causato dal loro morso, particolarmente irritante. Non così dei nostri inevitabili sbagli, delle immancabili magagne che affliggono anche il più amabile carattere: a irritarci è che qualcuno ci faccia le pulci, mentre troviamo adorabile chi ci carezza il pelo senza frugarci dentro. Scimmie che hanno smarrito il senso della gratitudine, ecco che siamo.

Ogni tanto smarriamo pure il filo del ragionamento, perché qui, sviato dalle implicazioni dordine morale di cui si è fatta greve la premessa, non rammento più dove volessi andare a parare. Volevo ringraziare una tantum quanti hanno fatto le pulci a queste pagine da quindici anni a oggi? Possibile. Nel caso, un sentito grazie a tutti. Se un poco mi conosco, però, è difficile.