venerdì 31 luglio 2020

Normalità (La Grande Sineddoche / 3)


Un mese fa, via Twitter, Pier Luigi Castagnetti ci comunicò ch’era deluso: neanche la pandemia era stata in grado di cambiare «il modo di pensare degli italiani». L’aveva sperato, evidentemente. Ma invano.
Ora qui potremmo discettare a lungo se esista, o meno, un modo di pensare degli italiani e, se sì, quale sia. Fatto sta che «modo di pensare» è «atteggiamento mentale» (Devoto-Oli), «insieme di principi e di convinzioni caratteristico di qcn.» (De Mauro), e che «italiani» implica una generalizzazione che resta tale anche nel caso in cui Castagnetti avesse inteso dire, come è assai probabile, «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani», ecc. Discettarne, insomma, imporrebbe innanzitutto chiederci quanto sia corretto ridurre milioni di persone a un «qcn.».
Io credo sia corretto solo a voler concedere che esista quel «carattere nazionale» che invece per molti autorevoli studiosi di scienze sociali è mera costruzione letteraria: considerare posture, gusti, inclinazioni, tic, che peraltro lesperienza quotidiana ci mostra diffratti in infinite varianti, come fedeli e coerenti espressioni di principi e convinzioni, per sussumerli in un organico sistema etico-estetico, quello dell«eccezionalismo negativo», che, come ormai ampiamente dimostrato, è uno stereotipo da sempre funzionale a una polemica ad andamento carsico.
Su queste pagine, riprendendo la riflessione che sulla questione fu sviluppata quasi trentanni fa da Giulio Bollati (Litaliano – Einaudi, 1983), mi sono intrattenuto già due o tre volte su questo stereotipo, di cui oggi due storici, Francesco Benigno e Igor Mineo, ricostruiscono la genesi (LItalia come storia. Primato, decadenza, eccezione – Viella, 2020), a partire da Giacomo Leopardi («il più cinico de popolacci»), passando per Giuseppe Prezzolini («i cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi»), per Pier Paolo Pasolini («paese ridicolo e sinistro»), fino all«amoral familism» di Edward Banfield, in una scia di scorata denuncia di franco tenore moralistico, che spesso ha dato il segno dessere l’ultima risorsa di chi aveva perso una partita culturale e politica: era un limite antropologico a rendere gli italiani – «quasi tutti gli italiani», «la maggioranza degli italiani», «tanti italiani» – refrattari al superiore modello etico-estetico offerto loro dall’eroico ingegnere sociale di turno o dallintellettuale tanto più «antitaliano» quanto più innamorato dellItalia.
Storia di una lunga frustrazione, dunque, quella sintetizzata dal tweet di Castagnetti: «il modo di pensare degli italiani» non gli piace; aveva sperato che almeno la pandemia potesse cambiarlo; e in meglio, naturalmente, giacché non si dà speranza che non sia di segno ritenuto positivo da chi spera; un «meglio», che rimanda esplicitamente a una scala di valori, sulla quale «il modo di pensare degli italiani» ha da stare giocoforza di almeno una tacca sotto al modo di pensare di Castagnetti (o comunque a un modo di pensare che Castagnetti ritiene migliore). Ma abbiamo modo di sapere quale sia il modo di pensare che Castagnetti ritiene gli stia sopra di almeno una tacca? Nel tweet non vi fa cenno, dovremmo inferirlo da quanto di lui ci è noto, che – ahinoi! – è troppo poco. Pur essendo persona pubblica da molti decenni, infatti, Castagnetti è incolore come uno straccio milleusi dopo mille e un uso. Io, per esempio, ho memoria solo della volta in cui disse: «Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, per tutti noi cattolici, insomma, il vero capo è lui: il Papa» (Corriere della Sera, 25.3.2009), che come «atteggiamento» mi è chiaro, ma mi lascia assai nel vago in quanto ai «principi» e alle «convinzioni». Di quale natura possono essere, per esempio, i tuoi principi e le tue convinzioni, quando devi obbedienza a un Papa che ti dice che candidarti alle elezioni non expedit, ma pure a quello che gli succede, e che invece dice che expedit, expedit eccome?
Sorvoliamo anche su questo punto, dunque, e limitiamoci piuttosto a considerare questo desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», da cui, a onor del vero, nessun essere umano è totalmente immune, ma che nell’uomo politico assume forme prossime alla smania. Comprensibilmente, sia chiaro, perché l’uomo politico – ogni uomo politico – letteralmente vive del consenso che riesce ad ottenere. Un maggioritario «modo di pensare» coincidente al suo, infatti, è la premessa indispensabile ad assicurargli che gli sia affidato il governo della cosa pubblica. Comprensibile la smania, dunque.
Questione più delicata, invece, quella relativa agli strumenti solitamente impiegati dall’uomo politico nel tentativo di ottenere un cambiamento del maggioritario «modo di pensare», che, esclusi i casi in cui voglia ricorrere alla violenza fisica, sono quelli coi quali solitamente si mette in atto il tentativo di persuadere o di convincere «qcn.» (sul fatto che tra le due cose vi sia una differenza rimando a quanto ne ho scritto qualche tempo fa, qui). Retwittando il tweet di Castagnetti, lho commentato a questo modo: «Un altro che ci aveva fatto un pensierino, e ora è deluso. Non hanno argomenti per “cambiare il modo di pensare” al prossimo, ma ne hanno una smania incontenibile: se la carota non basta, se il bastone non si può più, speriamo in un’epidemia». In un tweet, si sa, ci va tutto e niente. Dal mio restava fuori quanto qui proverò a spiegare relativamente a quel desiderio di voler cambiare l’altrui «modo di pensare», che ho concesso sia di ogni essere umano, e che in qualche misura dà ragione dell’assunto che fa di ogni uomo un aristotelico πολιτικόν ζώον. Io credo che il desiderio si trasformi necessariamente in smania quando la πολιτική come forma di cittadinanza, di partecipazione alla vita della πόλις, si trasforma in Politik als Beruf. Il riferimento al saggio di Weber, qui, sta a chiarirci che «professionista della politica» non è solo l’uomo di governo, il dirigente di partito, il parlamentare o qualsiasi altro eletto a questa o quella carica, ma, in senso lato, chiunque, «seppur in posizioni modeste dal punto di vista formale», eserciti (o aspiri ad esercitare) «unazione sugli uomini», partecipi (o aspiri a partecipare) «al potere che li domina», e soprattutto abbia «il sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana».
«Sentimento» assai più comune di quanto si potrebbe credere, perché tratto distintivo di quella variegata schiera di intellettuali che è sul mercato altrettanto variegato delle consulenze, delle partecipazioni a task force di varia natura e varia finalità, che non a caso sembra registrare un gran traffico in tempi segnati da una patente crisi della politica. Difficile dire se questa crisi sia causa o effetto dell’odierna povertà di riflessione intellettuale nel paese, perché da sempre qui in Italia, come daltronde altrove, lintellettuale ha avuto qualcosa di serio da dire solo quando in favore o contro il Principe, e quando il Principe era tanto forte da potergli offrire vantaggi o minacciarne lesistenza, quando insomma Politik als Beruf e Wissenschaft als Beruf si articolavano in modo dialettico. Più in generale, cè da rilevare che, col tempo (il punto di rottura può essere identificato con la fine della Seconda Guerra Mondiale), la soluzione all«eccezionalismo negativo» ha smesso di essere il recupero dell«eccezionalismo positivo» sul modello dei fasti del passato, ma la conquista di una «normalità» che come punto di riferimento aveva le società nordeuropee, quelle di cultura anglosassone, ecc. È questa «normalità» che probabilmente era nelle deluse speranze di Castagnetti, e riprendere in mano Un paese normale di Massimo DAlema (Mondadori, 1995) può essere utile ad averne unidea, ma anche a capire quanto essa fosse in franca antitesi alla «normalità» di sempre, quella dell«eccezionalismo negativo», cui da poco Silvio Berlusconi aveva dato piena legittimità, liberandola da ogni senso di colpa, e addirittura dandole ragioni di autocompiacimento. Due «normalità» in contrapposizione da sempre, l’una dell’Italia com’è, l’altra di come dovrebbe essere. Di come poteva cambiare grazie alla pandemia, di come pare che neppure la pandemia è stata in grado di cambiare.
Un articolo apparso su Il Post lo scorso 26 luglio è la glossa più eloquente al tweet di Castagnetti: «Ora che l’emergenza si è attenuata eccola di nuovo di fronte a noi l’idea della normalità. Non più la normalità ridotta e condizionata dal coronavirus, ma quella aumentata, baldanzosa, quella che prova a superare la pandemia di slancio. Così oggi si scontrano, spesso con grande violenza, due idee per il prossimo futuro. Da un lato una normalità che aspira a una tranquillizzante restitutio ad integrum. [...] Dall’altro l’idea di una nuova normalità, che nasce e cresce come inedita occasione. Una normalità dai tratti rivoluzionari: diventare migliori grazie al coronavirus, controbatterne gli effetti distruttivi trasformando quello che ci è capitato in una possibilità». Parrebbe esserci, così, una residuale speranza, ma «sembra piuttosto evidente che la nostra nuova normalità […] sarà molto simile a quella vecchia, e per i giovani di questo Paese la soluzione migliore continuerà ad essere quella di andarsene. Per provare a salvarsi in qualche modo. Per garantirsi una vita finalmente normale».
Ho chiuso lultimo paragrafo de La Grande Sineddoche dicendo che «il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che l’esito può esserne previsto dall’andamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi». Col ricorso ad una locuzione come restitutio ad integrum, che in medicina sta per completa guarigione, pare evidente la vocazione a uscire dal conflitto con le ossa rotte.

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venerdì 3 luglio 2020

La Grande Sineddoche / 2


L’accezione estensiva può portare un termine anche assai lontano dal suo significato proprio, e la procedura che opera questo allontanamento sfrutta sempre lo strumento di una figura retorica. Non ci sorprenderà, dunque, che metafora o metonimia, iperbole o litote, possano conferire a un termine un’accezione che distorce anche sensibilmente il significante. A posteriori, tuttavia, il significato dell’accezione estensiva sarà sempre riconoscibile come quiescente, potenziale, in quello proprio del termine.
Si prenda, per esempio, un termine come scrittura, che da mera «operazione dello scrivere» una figura retorica come l’antonomasia fa diventare Scrittura, e cioè «Parola di Dio». Al significante, che ci parla di cosa indubbiamente scripta, laccezione estensiva dà il significato di cosa eminentemente orale (Verbum), ma ci è chiaro che solo una «voce divina» può dettare un «testo sacro»: lorale quiesceva nello scritto, la figura retorica lo ha destato e reso attivo.
Quale figura retorica dà a senso, che viene da sensus, participio passato di sentire, che vuol dire percepire, e cioè cosa eminentemente soggettiva, laccezione estensiva di «contenuto logico oggettivamente valido» (Treccani), «criterio ultimo di giudizio» (De Mauro), «congruenza con un ordine logico, con la verosimiglianza, e anche con la realtà effettiva e attuale» (Devoto-Oli), con quella valenza di dato oggettivo che così spesso va a esprimere in locuzioni del tipo «il senso della vita», che da «quel che percepisco sia la vita» diventa «quel che la vita oggettivamente è», «il vero e inconfutabile significato della vita», ecc., con ciò conferendo oggettività a un termine che esprime la pura soggettività del sentire? La sineddoche – la figura retorica che ci dà la parte per il tutto – e questo accade anche per altre accezioni di senso, come quella di direzione («il senso di marcia»), quella di logicità («il senso di una proposizione») e quella di conformità («ai sensi della vigente normativa»): un vettore diventa orientamento, una congruenza diventa sistema, una corrispondenza diventa adeguamento.

Ho chiuso lultimo post dicendo che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ma – di sponda – lo diventa sempre. Bene, accade come per il senso, che da soggettivo percepire di una cosa riesce a imporsi come suo vero e inconfutabile significato: la «sponda» è la figura retorica. Potremmo azzardare, dunque, che tutte le forme di vita associata sono piani su cui si saggia lefficacia delle figure retoriche, selezionando quelle in grado di rendere generalmente accettabile la trasformazione del significato proprio di un significante in quello della sua accezione estensiva. Non mi si fraintenda, però. Non intendo insinuare che le dinamiche relazionali siano riducibili a quelle che nel foro pubblico decidono le sorti evoluzionistiche dei significanti, mi limito a suggerire che il successo e il fallimento delle operazioni messe in atto per rendere efficace questa o quella figura retorica siano la più trasparente sovrastruttura del conflitto sociale. Ne conseguirebbe che il conflitto sociale può essere letto attraverso le figure retoriche che si fronteggiano sul piano del linguaggio corrente, e che lesito può esserne previsto dallandamento delle loro sorti in campo nei momenti di crisi.

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sabato 27 giugno 2020

La Grande Sineddoche / 1




Neanche due ore erano passate dal bollettino col quale la Protezione civile ci aveva comunicato che i positivi erano 70.065, e 26.676 i ricoverati, 3.856 quelli in terapia intensiva, e che in isolamento domiciliare ce n’erano 39.533, e il numero dei morti erano arrivato a 10.023 – era il 28 marzo – quando, sprizzando euforia da ogni poro, Urbano Cairo comunicava ai suoi che il Covid-19 aveva aumentato del 30% gli ascolti de La7, e li spronava a moltiplicare le energie per cogliere appieno le grandi opportunità offerte dall’epidemia.
Con un palinsesto fatto per cinque settimi da talk show – Omnibus alle 8,00, Coffee break alle 9,40, L’aria che tira alle 11,00, Tagadà alle 14,15, Otto e mezzo alle 20,35, e poi in prima serata, per quattro giorni a settimana, Di martedì, Piazza pulita, Propaganda live e Non è l’arena (repliche su repliche di film visti e rivisti, negli altri tre) – una tv costa solo due soldi, ma 4-6 blocchi pubblicitari ogni ora ne fanno una gallina dalle uova d’oro, se c’è l’evento. E qui l’evento c’era, e sommamente spettacolarizzabile: pigiassero sul pedale dell’ansia e della commozione, quelli in studio, si dessero da fare a vendere spazi pubblicitari, quelli in ufficio.

Siamo onesti, chi poteva indignarsi per un calcolo del genere? Solo chi coltivasse l’assai datata idea di bene comune come bene di un corpo sociale organicisticamente inteso, dove la parte non può e non deve avere interesse diverso – non necessariamente opposto, anche solo difforme – da quello del tutto. Idea datata, e tuttavia ancora assai diffusa. Proprio nei talk show de La7, per esempio.
Cosa rendeva odioso, infatti, al pubblico fidelizzato dai talk show de La7, che qualcuno approfittasse dell’epidemia per maggiorare del 700% il prezzo dell’Amuchina? Credere nel bene comune come interesse generale rispetto al quale quello particolare non può e non deve avere segno diverso. È in nome di questo così inteso bene comune che a chi oggi traeva un utile dall’evento epidemico, come ieri da quello sismico, andava l’indignazione dei Formigli, delle Merlino, dei Floris, tutti, senza eccezione, ma se lutile veniva dallAmuchina. Non uno, infatti, riuscì a spiaccicare una sola parolina a commento della patente disparità di segno, nel contesto dell’epidemia, tra gli interessi del loro datore di lavoro e quelli del paese tutto. Qualche anno prima, sulle immagini delle macerie de L’Aquila avevano ritenuto necessario montare l’audio dell’intercettazione telefonica tra Francesco Piscicelli e Pierfrancesco Gagliardi, imprenditori edili euforici al pensiero dell’utile che avrebbero potuto trarre dalla ricostruzione. Coerenza non avrebbe voluto che sulla colonna di camion carichi di bare per le strade di Bergamo si montasse l’audio dell’euforico Urbano Cairo esortare i suoi a «darci dentro», a «stare in pista», perché «oggi abbiamo la grande opportunità di fare meglio dello scorso anno»?
Forse, ma non si poteva pretendere, come brillantemente ci spiegò il Mantellini, al quale – avrete compreso – qui ormai guardiamo come a un maître à penser: «Comprensibile [il] silenzio dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il resistere del proprio stipendio, così come la grande cautela di molti altri, quelli che forse ora da tali risorse non dipendono, ma chissà poi domani, che il mondo è piccolo ed è meglio stare cauti». Chi, allora, se non in nome del bene comune, almeno in nome dell’onestà intellettuale, era autorizzato a indignarsi? «Quelli che non hanno molto da perdere, perché abitano già la terza classe della nave semiaffondata della cultura italiana, sia che lavorino nei media, coi libri o sui giornali, o perché sono iscritti alla curva sud del più intransigente purismo culturale».
Dovremmo concludere che la coerenza, se non l’onestà intellettuale, è un lusso che possono permettersi solo i fanatici o gli sfigati? Tutto dipende dal credere o meno nel bene comune come la Grande Sineddoche che ci dà la parte per il tutto, e viceversa.

Qui, però, occorre rilevare qualche contraddizione. L’indignazione per la maggiorazione del prezzo dell’Amuchina, infatti, è senza dubbio un elemento di drammatizzazione dell’evento epidemico, che sul piano mediatico contribuisce a spettacolarizzarlo. Ecco che, allora, questa indignazione si mette al servizio di un bene particolare che ha segno opposto a quello del tutto.
Stessa contraddizione rilevabile in chi considera «comprensibile [il] silenzio dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il resistere del proprio stipendio, ecc.», il che denota grande indulgenza nei confronti di un bene particolare che ha segno opposto a quello del tutto (con implicita ammissione dell’aleatorietà della Grande Sineddoche), e nello stesso tempo si commuove dinanzi alla prova di senso civico data dagli «automobilisti che guidano da soli con la mascherina inutilmente indossata», che dunque potremmo definire coerenti nella fede del bene comune come bene del tutto, e cioè fanatici o sfigati. Qui, commoventi. Patetici, invece, quando indignati perché i conduttori dei talk show de La7 non si sono dimostrati equanimi nello stigmatizzare chiunque abbia lucrato sull’epidemia.
E però – sappiamo - «very well then I contradict myself / I am large, I contain multitudes». E allora la questione trascende i conduttori dei talk show de La7 (Alessandro Guerani ne ha dato una definizione tanto acuta quanto lapidaria: «la coscienza infelice della piccola borghesia») e anche il buon Mantellini, per mettere in discussione la titolarità di chi contains. In altri termini, di come e quanto la Grande Sineddoche possa reggere a fronte dell’evento epidemico. Ancora più esplicitamente: se esista veramente, o no, un bene comune che ci possa ridare il corpo sociale come unità organica. Perché a me pare evidente ci sia chi col lockdown non ha perso niente, anzi, ci ha persino guadagnato qualcosa. E non mi riferisco tanto a chi ci ha guadagnato in termini economici, ma a chi sta tentando di ricavarne una rendita morale (dove il termine qui rimanda ai mores, e cioè ai costumi che dettano etica). In un tweet ho parlato di «orfani dellepidemia», riferendomi a quanti nelle condizioni (im)poste dall’emergenza hanno trovato modo di poter candidare un interesse tutto personale a interesse generale. È chiaro che dovremo farci carico di queste vittime della fine dellepidemia con la stessa cura che riteniamo indispensabile per le vittime (sanitarie ed economiche) dellepidemia. Chiaro, altresì, che questo implicherà il prendere atto che il corpo sociale non è Uno. E questo potrà causarci qualche vertigine, come quando scoprimmo...

Quando scoprimmo che erano stati degli Elòhim a dire: «Sia la luce!» (Gen 1, 3), e non un Elòhah, il Librone quasi ci cadde di mano: Dio era sempre stato Uno, cos’era adesso questa novità?
Stessa vertigine di quando su Le Scienze leggemmo che l’Io era solo l’artefatto risultante da una complessa serie di funzioni cerebrali integrate: avevamo già concesso per tempo che fosse ambiguo, contraddittorio, sfuggente, ultimativamente insondabile, ma rinunciare al fatto che la prima persona singolare fosse quel bel Tutt’Uno cui eravamo abituati da millenni, con quanto a premessa e a conseguenza, onestamente era troppo.
Due mazzate micidiali, ma in qualche modo ci riprendemmo, perché, ok, Elòhim è plurale, ma plurale accrescitivo – ci spiegò il teologo – e dunque non sta in luogo degli dei pre-abramitici adorati dalle tribù che si affacciavano sul Giordano, ma di un unico Elòhah alla sua massima potenza, fa niente che poi questo Elòhah somigli in modo impressionante a Kemosh, quando si incazza, ad Astarte, quando è bonario, a Moloch, quando pretende sacrifici, ecc.
Anche queste neuroscienze, poi, che vogliono? Sapevamo già – ci spiegò il poeta – che «I contain moltitudes», ma chi resta il soggetto di «contain»? Sempre «I», no? E allora dov’è il problema? Sarà molto sfaccettato, ma l’Io resta monolite.
Venga pure la vertigine, dunque, dinanzi alla sorpresa che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ci riprenderemo col considerare che comune – di sponda – lo diventa sempre.

[segue]

venerdì 19 giugno 2020

Sul Liside di Platone e oltre




Il Liside di Platone, che per oggetto ha lamicizia, chiude con la constatazione che se nè discusso a vuoto: «Non siamo stati in grado di dire cosa sia». È quello che solitamente accade quando si ritiene superfluo trovare un preliminare accordo sul significato da assegnare al termine che designa l’oggetto della discussione: ciascuno dà per scontato non gliene si possa dare uno diverso da quello che a lui sembra essere il più appropriato e, confidando in questo, si procede, almeno fino quando comincia a serpeggiare la sensazione che si è a un parlar tra sordi. Già è tanto quando si è in grado di intuire che il fraintendersi è reciproco, perché più spesso accade che ciascuno creda sia l’altrui malafede a volerlo travisare, e slealmente, visto che discutere rimanda sempre – in ultimissima analisi – o al duello o al gioco o al baratto. Questo rischio incombe su ogni discussione, ma non cè da stupirsi che si sostanzi con più frequenza, e con le più infauste conseguenze, quando si discute di sentimenti, perché di essi è assai difficile immaginare un tipo di esperienza diverso da quello che abbiamo fatto noi.
Col Liside, quindi, siamo alle solite, e tuttavia desta stupore il fatto che a commettere lerrore, qui, sia proprio il Socrate del τί ἐστι a premessa di ogni speculazione, e ancor più strano è il fatto che vincorra proprio quando in discussione è la φιλία, e cioè un sentimento che, assai più della pietà o del dolore, dello stupore o del rancore, della noia o della nostalgia, ha contorni imprecisi, giacché mutua generosità e premura dalla ξενία, e per familiarità e dimestichezza è spesso indistinguibile dalla στοργή, mentre per l’incondizionato e disinteressato affetto somiglia all’αγάπη, senza che le sia estraneo, seppur sublimato, il piacere dellintimità e della complicità che è dellέρως. Così, quando la discussione si incarta, Socrate è costretto ad ammettere: «Forse non abbiamo impostato correttamente la ricerca». Di fatto, nel reimpostarla, la φιλία continua a restare senza definizione condivisa, sicché in breve si arriva ancora a un punto morto, e ci si chiede: «A che scopo continuare a discutere?». Limbarazzo è risolto mettendoci una pezza, che francamente, però, è patetica: sè fatto tardi, arrivano i pedagoghi di Liside e Menesippo a portarseli via, il gruppo deve sciogliersi, la discussione è rimandata ad altra occasione.

Comprensibile che sia sempre parso il più scombiccherato dei dialoghi platonici, il Liside. Plato, però, mi è amicus, e la veritas potrebbe ferirlo. Dirgli o non dirgli, allora, che il Liside fa cagare? La cortesia cui mi obbliga la ξενία consiglierebbe di evitarlo. Non così la fraterna franchezza della στοργή. Lέρως, poi, mi consente confidenza e gli garantisce la mia connivenza: sa bene che la cosa resterebbe tra di noi, non lo direi mai ad altri. Ma lamorevole delicatezza che mi impone lαγάπη può farmi correre il rischio di ferirlo. E dunque cosa farò per onorare la φιλία?
Fossi Aristotele, non avrei problemi: suo, infatti, è quel «άμφοΐν γαρ οντοιν φίλοιν οσιον προτιμάν την άλήθειαν» (Etica nicomachea, 1096a 16-17) che poi diventerà il celeberrimo «Plato amicus, sed magis amica veritas», e che chissà non vada letto in combinato disposto a quell«amici miei, non ci sono amici» che non ha scritto da nessuna parte, ma che pure gli viene unanimemente attribuito.
Io, però, non sono Aristotele. Già il fatto che mi ponga il problema se dire o no a Platone che il Liside fa cagare, ed eventualmente come dirglielo, dimostra che credo nellamicizia. Spacciare, poi, per άλήθεια unopinione personale, in più per preferirla come amica a Plato, mi pare tradisca ogni possibile definizione di amicizia. Chi mi dice, per esempio, che il Liside non sia volutamente inconcludente per dimostrare a chi sa leggerlo come si deve che la φιλία è indefinibile per la semplice ragione che non è possibile?
Aspetta un attimino, aspetta un attimino: sul punto, dunque, Platone anticiperebbe Aristotele? Bellamicus, sto Plato! E io qui a farmi tanti scrupoli se dirgli o no, e come, che il Liside fa cagare? Certo che fa cagare, e ora glielo dico. Cioè: prima promuovo a veritas la mia opinione, poi le faccio lonore di dirla mia amica, e infine sparo: Plato, sto dialogo è na merda!
Si scherza, naturalmente, ma neanche tanto, eh! Comunque, torniamo allamicizia. Allamicizia vera, dico. A quella che la veritas, vabbè, ma con tatto e moderazione, e solo se lamico non è permaloso. Di più: torniamo allamicizia sulla quale Platone non è riuscito a dire niente di sensato, ma Montaigne sì. Prendiamo i suoi Essais e abbeveriamoci alla fresca fonte della sua disarmata e disarmante franchezza.

Montaigne sembra volere arrivare al τί ἐστι procedendo a spirale, e gira, gira, «quelli che chiamiamo abitualmente amici e amicizie sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza o vantaggio», e stringi, stringi, «in queste amicizie ordinarie bisogna procedere con prudenza», seguendo il precetto di Chilone («amatelo come se un giorno doveste odiarlo; odiatelo come se un giorno doveste amarlo»), «tanto obbrobrioso nel caso di una amicizia signora e sovrana, quanto salutare nella pratica delle amicizie ordinarie», per arrivare a cosa, poi? Che di amicizia vera lui ne conosce una sola, quella che ha condiviso con Étienne de La Boétie (lautore de La Servitude Volontaire). Bene, e a darcene una ragione? «Perché era lui; perché ero io». E questa sarebbe una definizione?
Più utile il materiale di scarto: ci è chiaro, ma già un sospetto lavevamo, che le cosiddette amicizie ordinarie vivono della rappresentazione di quegli affetti (ξενία, στοργή, αγάπη, έρως) che della φιλία si offrono come succedanei. Di più, la loro mera rappresentazione (quella che da ύπο-κρίσις ci mette niente a diventare ipocrisia) è la lingua del legame sociale. Possiamo, allora, definire lamicizia come l’ambito ristretto del sociale dove la rappresentazione deve coincidere col rappresentato? Sì, ma come ci suggerisce Franco La Cecla (Essere amici – Einaudi, 2019), «l’amicizia presuppone la sua revoca, non è né un diritto né un dovere»: è «un’ingiusta gratuità», e ingiusta «perché non è offerta a tutti».
Nemmeno i dizionari ci vengono in aiuto. È «affetto vivo e reciproco tra due o più persone» (Zingarelli), ma siamo certi che la sostanza dellamicizia tra due persone sia uguale a quella tra più persone? È «vivo e scambievole affetto fra due o più persone, ispirato in genere da affinità di sentimenti e da reciproca stima» (Treccani), «sentimento affettuoso, tra due persone, ispirato generalmente da stima e simpatia reciproca» (Palazzi) ma la stima implica una scala di valori: è indispensabile che questa scala sia condivisa? E, se sì, questa condivisione implica qualcosa in più o qualcosa in meno del «legame basato su reciproco affetto, stima, fiducia», che parrebbe elemento essenziale per De Mauro? Dobbiamo parlare, allora, di un «reciproco affetto, costante e operoso, tra persona e persona, nato da una scelta che tiene conto della conformità dei voleri o dei caratteri e da una prolungata consuetudine» (Devoto-Oli)? Non è una definizione che esclude molte altre, altrettanto sincere, amicizie?
Non se ne può più, speriamo che arrivino presto i pedagoghi di Liside e Menesippo a portarseli via.