«Se
lo Stato è santo, la censura deve esistere»
Max Stirner – Der Einzige und sein Eigentum
Giulio
Andreotti, Mariano Rumor, Oscar Luigi Scalfaro, Antonio Bisaglia,
Francesco Compagna. E poi Giuliano Amato, Riccardo Misasi, Antonio
Maccanico, Gianni Letta, Filippo Patroni Griffi. Basta una scorsa ai
prestigiosi nomi che si sono succeduti alla carica di Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio per intuire l’importanza
del ruolo e la competenza che questo ruolo esige. Una competenza che,
a detta di chi sta più addentro agli arcana
imperii
della nostra amata Republichetta, necessariamente implica doti non
comuni sul piano tecnico e su quello politico. Fu per questo che
assai timidamente, l’anno
scorso, avanzavo qualche perplessità sull’iniziativa
presa dall’allora
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Andrea Martella, che
con apposito decreto aveva dato vita ad una commissione chiamata a
studiare soluzioni per contrastare «l’odio
online» (tra
virgolette perché il decreto si esprimeva proprio in questi
termini). Di là dal ritenere – insieme – ridicolo e pericoloso
dichiarare guerra a un sentimento, «non
si capisce che senso abbia questa commissione –
scrivevo – né
quali innovative soluzioni essa possa partorire per arricchire la già
fornita utensileria del nostro codice penale dedicata ai reati che
sono concretizzazione dell’odio in forma di insulto, minaccia,
calunnia, e perfino di malaugurio. Anche laddove essa fosse
immaginata come embrione di un’authority che stabilmente vigili sul
web, si fa fatica a immaginare possa bypassare la magistratura con
funzione di censura» (Bisogna
andarci cauti, col denigrare l’odio
–
Malvino,
9.2.2020). Ma la timidezza con la quale esprimevo queste mie
perplessità era dovuta anche ad altro: questa cosa tra think
tank
e task
force era
composta da quindici persone che il parere pressoché unanime degli
organi d’informazione
dava tra i più esperti delle problematiche relative al web.
Sia
chiaro che qui non s’è
mai preso per oro colato quel che cola dagli organi d’informazione,
però stavolta qualcosa mi spingeva a fidarmi: nulla sapevo di
quattordici dei quindici membri della neonata commissione, ma di uno,
l’ottimo
Mantellini, qualcosina sì, e quello bastava a darmi adeguata
garanzia che anche gli altri fossero d’altrettale
competenza, sicché, anche quando il
Mantellini lasciò l’incarico
per motivi che mi sembrò indelicato approfondire, alla commissione
anti-odio voluta dal Martella restarono appiccicati il prestigio e
l’autorevolezza
che le avevo transitivamente conferito.
Con
queste premesse, si può ben intuire con quanto interesse qui si
attendessero i risultati dello studio della commissione anti-odio a
fugare le mie perplessità, che, che seppure timidamente espresse,
sentivo colpevoli di una patente mancanza di fede in competenze fuori
discussione. Bene, il lavoro della commissione è giunto a
conclusione.
Sarà
che in genere sono incline a farmi sviare dai dettagli marginali, ma
la prima cosa ad avermi colpito è la copertina del documento, che è
opera di SacSix, noto street
artist
newyorkese chiamato ad affrescare gli interni di lussuosi hotel e
ristoranti della Big Apple, a firmare una linea di sneakers della
Adidas, a collaborare per le scene di alcuni film di Spike Lee, a
curare l’edizione
degli MTV Video Music Awards del 2016, e le cui produzioni sono
ottimamente quotate: impensabile che l’illustrazione
che impreziosisce il Rapporto
finale
del Gruppo di lavoro «Odio
Online» non
gli sia stata doverosamente retribuita. Quanto, è senza dubbio una
stupida curiosità. Se fosse necessaria, forse, un po’
meno.
Il
secondo dettaglio che m’è
balzato agli occhi, subito dopo, è l’ultima
pagina del documento, quella dei Ringraziamenti.
Qui vengo a conoscenza del fatto che i quindici esperti chiamati dal
Martella ad estirpare l’odio
dal web – quattordici, dopo le dimissioni del Mantellini – sono
diventati venticinque, che si sono avvalsi di ben ventotto
consulenti, per partorire diciotto paginette dall’ariosa
interlinea, nelle quali ciò che è ragionevolmente condivisibile sul
piano dell’analisi
è di una avvilente banalità, mentre ciò che pare offrirsi a
soluzione del problema è di una sconcertante vaghezza, cui tuttavia
fa schermo il noto gergo da internettologi con almeno due dozzine
d’anni
di esperienza sul groppone, che hanno gas
discharge o
stink
release in
luogo delle nostre banali e ignoranti scoregge.
La
Premessa
apre
con un’affermazione
che deve essere stata oggetto di assai meditata riflessione: l’odio
è un sentimento. Quello che, però, dà la piena misura di quanto la
competenza qui chiamata a esprimere il suo informato parere su un
tema estremamente delicato come l’odio
non sia fredda conoscenza tecnica è la concessione che «gli
esseri umani sono liberi di provare sentimenti».
Non so a voi, ma a me questo pare molto bello.
Sì,
ma cos’è
l’odio?
Di fronte a una domanda tanto impegnativa, quanti di noi, che esperti
non siamo, ci saremmo trovati in seria difficoltà? Non gli
internettologi della commissione voluta dal Martella, ai quali è
venuta in testa un’idea
geniale: consultare un dizionario. Qui hanno preso atto, concordando
(non sappiamo se all’unanimità),
che l’odio
è quel «sentimento
di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la
rovina altrui».
Ci sarà voluto il tempo necessario per arrivarci, ma direi che non
sia stato speso invano. Tanto più che proprio questo primo passo
della commissione consente quello successivo, col quale, in un
assunto assai elegantemente esposto, viene racchiusa una preziosa
perla di filosofia del diritto: «Quando
dal desiderio del male altrui si passa all’azione, per favorire o
realizzare tale male, subentrano le responsabilità».
Così
avviata, la riflessione non può che scorrere spedita, penserà
l’uomo
comune: quando un’azione
è imputata di mirare efficacemente al male altrui, si chiama un
giudice e gli si chiede di valutare se ci sia o meno una
responsabilità penale. L’uomo
comune, appunto, per il quale, dunque, la commissione potrebbe
chiuderla qui e andare a ristorarsi al buffet. In realtà, ciò che
sfugge all’uomo
comune è che un giudice opera in virtù delle leggi che il
legislatore gli mette a disposizione: bastassero quelle vigenti, che
senso avrebbe avuto una commissione anti-odio? È chiaro che quelle
vigenti non bastano, e che ne occorrono di nuove. E tuttavia «i
legislatori devono dimostrare grande saggezza. Perché su questa
materia si osservano diritti in tensione tra loro, come la libertà
di espressione, appunto, il diritto alla privacy, il diritto al
rispetto della libertà di pensiero, coscienza e religione, il
diritto di proprietà e la libertà di mercato, il diritto a essere
difesi contro le violenze... Il problema fondamentale è quello di
bilanciare i diversi diritti»:
in sostanza, il rischio è che nuove leggi possano entrare in
contraddizione con quelle già vigenti. Come se ne esce? È qui che
occorre far spazio a una nuova fattispecie penale. Giacché
«qualunque
policy in materia di odio online non può non considerare che ci sono
diverse gradazioni della gravità dei comportamenti dettati dall’odio
e diverse manifestazioni di odio, […] l’argomento prioritario di
una policy sull’odio online riguarda i casi in cui si arriva a
generare una lesione dell’ordine pubblico»:
in altri termini, dovrà trovarsi il modo di imputare a un’azione
di mirare efficacemente al male altrui, se e quando sia in grado di
turbare l’ordine pubblico, un ordine che è evidentemente diverso
da quello garantito dalle leggi vigenti, a meno che non si voglia
credere che tale garanzia non sia mai stata piena. Si è giocoforza
chiamati a interrogarsi sulla natura di un ordine pubblico così
riconsiderato. Vediamo come.
«L’espressione
di odio attraverso internet non riduce la difficoltà di definire il
sentimento in modo standardizzato ma aggiunge un ulteriore elemento
di complessità, per la capacità delle tecnologie digitali di
influenzare i comportamenti delle persone e amplificarne la portata,
creando nel contempo le condizioni per implementare peculiari
modalità di contenimento».
In buona evidenza, siamo dinanzi al tentativo di immaginare
un’imputabilità
di turbamento dell’ordine
pubblico che scatti quando potenzialmente in grado di creare consenso
riguardo ad un’azione
mirante a turbarlo: in parole povere, al giudice si affianca il
sociologo, qui inteso come ingegnere sociale. Sia chiaro, nessuno è
così ingenuo, qui, da ignorare che qualsiasi legislazione nasce in
un funzione di un particolare ordine pubblico che si intenda
tutelare; né si ignora che, in tal senso, il legislatore svolga un
ruolo di garante degli interessi che tale ordine pubblico è chiamato
a difendere; dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che una cosa è la
difesa di questi interessi, che da particolari sono riusciti ad
affermarsi come generali, con gli strumenti della repressione delle
azioni miranti a lederli, un’altra
è la loro difesa con gli strumenti della repressione delle azioni
miranti a mettere in discussione che essi siano realmente interessi
generali. Ritenendo indispensabile questo secondo tipo di difesa,
diventa «odio»
tutto ciò che sia potenzialmente in grado di minare il consenso
attorno a interessi, che da particolari sono riusciti ad affermarsi
come generali, col metterne in discussione la legittimità
dell’affermazione.
Detto prosaicamente, il tentativo è quello di sterilizzare il
conflitto sociale.
Anche
se non ve ne fosse immediata coscienza, tale fine pare evidente
laddove il Rapporto afferma che «i
media digitali sono strumenti potenti e possono essere trasformativi
anche per i fenomeni di odio, non solo perché i media, che tutti
possono usare per esprimersi, liberano e talvolta amplificano la voce
di ciascuno senza le intermediazioni tradizionali, ma anche perché
gli algoritmi e le interfacce influenzano l’esposizione, la
selezione e la diffusione dell’informazione, diventando veri e
propri filtri cognitivi alla percezione della realtà».
E quale interesse particolare è mai riuscito ad affermarsi come
generale senza dover ricorrere a un filtro cognitivo alla percezione
della realtà? Cos’è
la persuasione, se non la piena accettazione di un determinato filtro
cognitivo? E perché mai i filtri cognitivi dovrebbero essere ad
esclusivo appannaggio delle «intermediazioni
tradizionali»?
D’altronde,
basta entrare nel merito delle proposte avanzate dal gruppo di lavoro
sull’odio
online per aver chiaro che ogni soluzione non riesca a prospettarsi
in altro modo che come riaffermazione di un particolare filtro
cognitivo. Esse sono articolate in tre capitoli: «attività
di prevenzione»,
«interventi
normativi»
e «sostegno
all’infodiversità».
«Attività
di prevenzione»:
«Un
programma educativo per l’epoca digitale, di pari ampiezza di
quello che ha reso possibile accompagnare l’industrializzazione nel
corso del “miracolo economico”, è in gran parte necessario. E
non si rivolgerà soltanto ai giovani, ma all’insieme della
società. [...] Il Ministero dell’Istruzione può lanciare un
grande programma di modernizzazione culturale di base rafforzando il
percorso di educazione all’uso consapevole del digitale previsto
nel quadro dell’insegnamento dell’educazione civica introdotto
nel 2019. [...] Premiare le aziende che attivano percorsi di
formazione rivolti alle famiglie sui temi della consapevolezza
digitale e in particolare sul contrasto ai discorsi di odio e a tutti
i reati legati all’espressione (diffamazione, incitazione alla
violenza e così via). […] Proporre all’Ordine
Nazionale dei Giornalisti l’integrazione
del codice deontologico dei giornalisti con uno specifico articolo
che possa vietare azioni mirate alla diffusione di discorsi di odio.
Introduzione di una strategia di contrasto alla violenza sui media,
con esemplari disposizioni da inserire nel contratto di servizio che
regola il servizio pubblico, della Rai o delle aziende incaricate di
svolgerlo. Condizionamento del finanziamento pubblico ai giornali al
rispetto dell’obbligo – da introdurre – di astenersi dal
ricorso a campagne di incitamento all’odio e dall’uso di un
linguaggio discriminatorio». Stato,
famiglia, ordini professionali: filtri cognitivi affidati ad
intermediazioni tradizionali.
«Interventi
normativi»:
«Un
controllo massivo dello Stato e della pubblica autorità che tenda a
governare e filtrare il discorso pubblico in rete che travalichi la
legittima e doverosa attività di prevenzione e repressione delle
specifiche fattispecie di reato previste per legge sarebbe ovviamente
inammissibile ».
D’altra
parte, «l’ordinamento
già determina quali contenuti sono illeciti e quali comunicazioni in
rete consentono da parte dello Stato interventi di rimozione e
sanzione; ipotizzare una strategia repressiva con nuove forme di
illeciti legati all’odio online appare arduo e inutile».
Bene, e allora? «Per
efficaci politiche di contenimento potrebbe esser utile creare centri
di ascolto e percorsi assistiti per generare consapevolezza negli
utenti resisi responsabili di condotte qualificabili come “hate
speech”, soprattutto se minori o adolescenti. Anche per le vittime
potrebbe esser utile prevedere percorsi di supporto per cercare di
attenuare l’impatto subito da condotte di odio online. In caso di
procedimenti per fattispecie penali legate all’odio online,
potrebbero esser previste forme di definizione del processo con
percorsi di recupero ed educativi, o forme di messa alla prova con
condotte riparatorie in grado di estinguere il reato. […] Se è
errato pensare di delegare alle piattaforme ed a provider privati il
ruolo di “gatekeeper” che decidono ciò che è consentito e ciò
che non è consentito comunicare pubblicamente, è però necessario
incentivare la moderazione dei contenuti caricati dagli utenti a
opera degli stessi provider, per permettere alle piattaforme la
creazione di ambienti digitali più sicuri. [...] Regole certe e
standardizzate per la segnalazione e la rimozione dei contenuti
ritenuti dannosi
[ritenuti dannosi da chi?] eventualmente
agevolando accordi con “segnalatori privilegiati” individuati
[individuati
da chi?] in
relazione al ruolo o all’attività svolta e obblighi di fornire
informazioni all’autorità giudiziaria [in
quale ruolo?]».
Con un odio inteso come mero sentimento, il rischio sarebbe stato
quello di una psico-polizia. Qui, dopo aver concesso che «gli
esseri umani sono liberi di provare sentimenti»,
li si considera alunni discoli e si nomina un capoclasse.
«Sostegno
all’infodiversità»,
capitolo che lascia sospesi tra il riso e il pianto. «Un
contesto nel quale la struttura della piattaforma, i suoi algoritmi,
la sua interfaccia, sia definita essenzialmente intorno al modello di
business della raccolta pubblicitaria, nel quale dunque qualunque
tipo di attenzione è un valore che si può vendere sul mercato della
pubblicità, può tendere ad accettare qualche messaggio tossico in
più. Anche per questo, a quanto pare, certi comportamenti sono stati
consentiti sulle grandi piattaforme sociali attuali. Per l’enorme
successo delle piattaforme sociali basate esclusivamente sulla
pubblicità, una sorta di monocoltura pubblicitaria ha ridotto la
biodiversità in questo settore. Una sorta di esternalità negativa
del modello di business pubblicitario ha aumentato le probabilità,
se così si può dire, di un “inquinamento” dell’ecosistema
mediatico».
Come si può disinquinare? «Nuove
piattaforme, progettate in base a logiche più consapevoli dei
diritti umani, possono essere favorite con forme di sostegno
finanziario»:
un’etica
di stato che si fa ipostasi in social network, ovviamente a spese del
contribuente. Di poi, si potrebbero favorire forme di «aggregazione
di persone che abbiano come loro atteggiamento mentale e sociale
quello di evitare, rifiutare, disprezzare, le manifestazioni di odio.
[...] L’influenza sul comportamento garantito da ambienti che
attraggono soprattutto persone civili, rispettose degli altri,
orientate all’ascolto e al dialogo sereno anche quando conflittuale
o critico, sarebbe un forte incentivo ad adottare comportamenti
civicamente avvertiti»:
dar vita, insomma, ad una aristocrazia dei buoni sentimenti e dei
modi fini, in cui ogni rozzo villano aspirerebbe ad entrare. Parti
come zotico digitale, ma, se ti impegni, come Parsifal, diventi degno
del Sacro Graal della civile conversazione online. Chissà, può
darsi che un pizzico di fortuna possa portarti perfino ai livelli
degli esperti chiamati dal Martella. Ma non metterci troppo il pensiero: l’empireo è già affollato di beati.