L’ultimo numero di MicroMega (1/2013) chiude con un breve saggio di George Steiner (La morte sta morendo? – pagg. 205-218) che a stralci è stato ripreso da la Repubblica di giovedì 17 gennaio (Addio alla morte – pag. 37). George Steiner si chiede: «La condizione e la fenomenologia della morte classica, rimasta dominante per moltissimi secoli, è in crisi?». È domanda retorica, d’altronde lo sarebbe con qualsiasi altro oggetto «classico» volessimo considerare al posto della morte. Non è in «crisi» pure il modo di concepire la sessualità che dominò per moltissimi secoli? E il modo di concepire la nascita? E la malattia? Sì, ovviamente, perché la «crisi» riguarda sempre ciò che è «classico». Per meglio dire: è «classico» proprio tutto ciò che è andato in «crisi», e per il fatto stesso di essere andato in «crisi». Ancora: il «classico» diventa tale solo quando una «crisi» costituisce ragion sufficiente di considerarne definitivamente chiusa l’esperienza diretta. Che senso ha, allora, la domanda posta da George Steiner? Vediamo se riusciamo ad individuarne il fine, visto che ogni domanda retorica ne ha uno.
Prima di tutto chiediamoci: i «classici» sapevano di essere «classici»? No, ovviamente, perché la «classicità» è sempre antecedente ad ogni presente. Potremmo dire che l’autopercezione della «classicità» sia una contraddizione in termini: nel presente, il «classico» è solo in potenza. È che ogni presente ha nel suo passato un punto rappresentabile come «classico», cioè esemplare, degno di essere preso a modello, anche se la regola vuole sia inarrivabile. Con ciò siamo dinanzi a una percezione della storia come sequenza di cataratte che di «crisi» in «crisi» porta al progressivo deterioramento di un modello ritenuto ideale. In altri termini, siamo dinanzi al culto della tradizione come modello ideale di esperienza che è irreparabilmente perso. Per dirla in altro modo: siamo alla percezione di una rottura nel continuum.
Per George Steiner questa rottura è una «mutazione», dando così per assodato che «la fenomenologia della morte classica» fosse nel patrimonio genetico umano, non già frutto a sua volta di altre «mutazioni», ma cifra connaturata, sennò punto di arrivo di altre «mutazioni», sì, ma tutte necessarie a determinare un modello ideale, tappe di un processo che aveva per fine quello di portare ad uno stadio di insuperabile perfezione, oltre la quale era possibile solo la corruzione.
Leggere la storia umana in questo modo, però, pone un problema insormontabile. Dal Neolitico alla polis greca, infatti, e dall’antica Roma al Medioevo, dal Rinascimento all’Età dei Lumi, la morte non è mai stata uguale a stessa: quando si moriva al modo «classico»? E quando si è smesso? La risposta di George Steiner non è molto diversa da quella di chi lamenta la secolarizzazione: «Mano a mano che i valori scientifici saturano la nostra coscienza, e che le tecnologie si evolvono con un’accelerazione esponenziale, le fantasie sulla trascendenza si fanno ancora più sbiadite o puramente convenzionali».
Non sfugga che quelle relative alla trascendenza sono «fantasie»: siamo alla tesi del Dio che non esiste ma è necessario.
mancavi
RispondiEliminaLeonardo diceva che i blog erano morti, per un po' ci avevo creduto.
EliminaChiaro che è necessario: ad esempio, serve a scriverci su degli articoli e incassare il relativo compenso.
RispondiEliminaForse Dio esiste anche se non è necessario.
RispondiEliminaT
Mi piace
EliminaNon è tesi nuova la necessarietà di Dio insieme all'inutilità della questione circa la sua esistenza (almeno in campo spirituale): perché stupirsi?
RispondiEliminaOppure mi son perso qualcosa.
Ricordo di una storiella, ma non dove le trovai, nella quale si narrava dei vantaggi e degli svantaggi del diventare studente di fisica. Tra questi ultimi c'era quello che da quel momento in poi ci si sarebbe goduti meno degli altri i film di fantascienza, perché da fisico stai sempre lì ad accorgerti di ogni incogruenza con le leggi naturali, di ciò che è impossibile in questo universo.
RispondiEliminaEcco, sembra che ci si stia lamentando di questo. Del fatto che non ci si possa più divertire andando a guardare film fatti male.
Ovviamente, come nei film di fantascienza, potrai comunque goderti i lavori di quelli che sapranno far muovere la fantasia all'interno dei confini tracciati dalle leggi naturali (che è poi dove sa già muoversi bene l'arte), perché è erroneo sostenere che la fantasia venga uccisa dalla conoscenza (forse viene addirittura stimolata; anche, perché no, nel trascendente). Il 2001 di Kubrick fa un lavoro egregio in questo senso, per fare un esempio, portando lo spettatore, attraverso un percorso che non tenta mai di adeguare le leggi della natura, verso un traguardo che di primo acchito ci sarebbe parso soprannaturale se sbattutoci in faccia al mattino. E lascia persino la libertà allo spettatore, in qualche modo, di pensare che si stia parlando di trascendenza.
Non sarà più possibile vendere a tutti la fantasia elaborata a buon mercato, questo sì; a chi percepisce la propria coscienza saturata suggeriamo di fare un minimo sforzo intellattuale e di volontà per incorporare ciò che sa nel proprio vissuto. Se questo non sarà possibile, forse sarà perché è la trascendenza ad essere patologica e non la conoscenza.