Suppongo sia superfluo
spiegare al mio lettore, che mediamente è assai colto, la differenza
tra un’iscrizione nel registro
degli indagati (più correttamente, iscrizione della notizia di
reato) e un avviso di garanzia (più correttamente, informazione di
garanzia), sta di fatto che nessuno dei due atti obbliga un eletto
del M5S a doverne rendere personalmente conto quando questo non sia a
suo carico, ma invece a carico di chi egli abbia scelto come
collaboratore, consulente o (nel caso in cui l’eletto
sia un sindaco) assessore.
Per meglio dire, quest’obbligo
non è contemplato da alcun documento fin qui redatto allo scopo di
normare la vita interna del movimento fondato da Beppe Grillo e
Gianroberto Casaleggio: non ve n’è
traccia dell’atto costitutivo,
né nel programma, né nel cosiddetto non-statuto, né in alcuna
delle versioni del codice etico che i candidati e gli eletti sotto il
simbolo del M5S sono tenuti ad impegnarsi di rispettare. È evidente
che il forcaiolismo dei grillini non arriva al punto da attribuire
una proprietà transitiva della personale responsabilità penale, che
d’altra parte nell’iscrizione
nel registro degli indagati e nell’avviso
di garanzia è ancora tutta in ipotesi.
Altra cosa, ovviamente,
quando uno dei due atti sia a carico di un candidato, ancor più nel
caso sia a carico di un eletto, dove il doverne dar conto non si
limita al doverne dare tempestiva comunicazione agli organi direttivi
del movimento, ma di regola comporta la somministrazione di drastiche
sanzioni, ancorché intese come misure di preventiva sterilizzazione
di eventuali condotte configurabili la continuazione del reato fino a
quel punto solo in ipotesi. Qui il forcaiolismo è patente, ma si
esplica in un momento di autoregolamentazione che assume i caratteri
di una sfida alle altre forze politiche che lasciano l’eletto
dov’è
anche quando sia stato condannato in primo grado, un po’
come accade con l’autoriduzione
dello stipendio di parlamentare e con il rifiuto del finanziamento
pubblico: sfida sul piano morale, e dunque pesantemente retorica, ma
in fondo legittimamente provocatoria.
Ciò detto, a me paiono del
tutto strumentali le accuse che in questi giorni piovono su Virginia
Raggi: non è lei ad essere iscritta nel registro degli indagati e
nulla la obbligava a rendere pubblico che Paola Muraro lo sia, né
nei confronti di chi l’ha
votata, e in fin dei conti neppure nei confronti dei vertici del M5S,
perché quell’iscrizione non era
a suo carico, e a conoscenza dell’atto
poteva essere a corrente solo l’indagata,
e solo nel caso in cui quest’ultima
si fosse attivata per venirne a conoscenza. Ora è accaduto che Paola
Muraro si sia appunto attivata in tal senso; e che così sia venuta a
conoscenza che a suo carico un’iscrizione vi fosse (da rammentare che per
reati di un certo rilievo all’indagato
che ne faccia richiesta si può dare una risposta che in sostanza la
rigetta: «non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione»,
come a dire «non ve n’è alcuna di cui l’esserne a conoscenza
possa attivare l’iscritto a frapporre qualche ostacolo
all’indagine»); e che di questo abbia subito informato Virginia
Raggi, la quale – questo quanto le si rimprovera – non avrebbe
reso pubblica la cosa. Domanda: perché avrebbe dovuto?
A norma del
codice di comportamento degli eletti sotto il simbolo del M5S da lei
sottoscritto prima essere candidata, non era tenuta a farlo. In
ossequio al codice etico del movimento, neppure. Risulta, inoltre,
che, seppure con qualche settimana di ritardo, abbia informato almeno
due dei membri del minidirettorio romano che gli organi direttivi
centrali le hanno affiancato: solo di questo
ritardo deve rendere conto, e non al paese, non a chi l’ha eletta,
nemmeno ai militanti del M5S, ma eventualmente solo a Beppe Grillo e
alla Casaleggio Associati, visto che in Italia partiti e movimenti
non hanno personalità giuridica e possono darsi le regole che
vogliono.
Altrettanto strumentali mi
paiono le accuse di doppia morale che vengono rivolte al M5S, come
d’altronde è di pacifica
evidenza per i casi che sono presi in considerazione per dimostrarla:
a Parma, Federico Pizzarotti è stato sospeso per non aver reso
pubblica un’iscrizione nel
registro degli indagati che era a suo carico, non a carico di un suo
assessore; a Quarto, Rosa Capuozzo è stata espulsa per non aver
denunciato i tentativi messi in atto da un consigliere comunale per
condizionarne le decisioni; altrove, ogniqualvolta il M5S ha chiesto
le dimissioni di eletto sotto il simbolo di un altro partito, era a
questi, e non ad altri, che era ascritto il reato di cui v’era
notizia negli atti che precedevano il rinvio a giudizio, se non nella
stessa imputazione.
Ai vertici del M5S potrebbe
bastare far presente questo, ma si può capire perché abbiano una
fottuta paura che possa non bastare, e perché dunque si preparino a
dare spiegazioni di quanto è accaduto a Roma rinunciando ad
argomenti ragionati, preferendone altri, di quelli che non richiedono
troppo sforzo per essere ritenuti convincenti da chi solitamente
fatica a ragionare: c’è da
attendersi che spiegheranno la loro posizione tagliando due o tre
teste (Muraro, Marra e De Dominicis), cosa legittima e forse
opportuna, e, non dovesse bastare, anche quella del sindaco, il che
sarebbe peggio di un suicidio. Sarebbe un errore madornale, perché
rivelerebbe che la ratio messa a fondamento dell’onestà
che vogliono al centro della politica non è una logica, ma un umore.
Quel che è peggio, non l’umore
della base grillina, ma quello che ad essa è attribuito da chi a
vario titolo e da diversa posizione vuole il fallimento
dell’esperienza romana.
In
definitiva, direi che quello di Roma è un importante stress test per
il M5S: o accetterà di indossare la caricatura che in tanti tentano
di calcargli addosso, e allora sarà la fine, il che non sarebbe
neppure tutta questa gran perdita, o riuscirà a darsi una credibile
coerenza che non sia la semplice proiezione di quello per i
detrattori spiegherebbe il consenso che fin qui ha raccolto.