Quando
il nobile decaduto porta il quadro al monte dei pegni, i contorni del
rettangolo
che sul muro rivela i tre o quattro punti di clarté
in più che la carta da parati aveva originariamente corrispondono a
quelli della cornice, non della tela. Così è accaduto con la
definizione del fascismo uscita dal XIII plenum del Comintern,
perché, caduta in disgrazia, la sinistra ha smesso di pensare al
fascismo come alla «dittatura
terrorista aperta agli elementi più reazionari, più sciovinisti,
più imperialisti del capitale finanziario» e
ha cominciato a percepirlo come «un
modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una
nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni»,
l’abietta
antropologia borghese che incorniciava il
fascismo inteso come mero strumento del capitale in funzione
antioperaia, a dar per implicito che il più genuino antifascismo
potesse essere solo anticapitalista, e cioè comunista: svenduta la
lotta di classe, sulla parete del salone in cui
il Partito invitava l’intellighenzia
a prodursi nei suoi deliziosi valzer è rimasto l’alone
della condanna
morale. Niente affatto antitetiche, d’altronde,
le due interpretazioni del fascismo, perché, dal canto suo, la
borghesia ha sempre amato darsi precursori nella natura umana più
che nella storia, pienamente convinta che il mercato sia dimensione
innata all’uomo,
che la proprietà privata stia scritta nel dna specie-specifico,
offrendosi così a chi l’avversava
come incubatrice di quel «fascismo
eterno»
che è innanzitutto metafisica della bestia.
Ora, però, c’è
chi ha raggranellato il necessario per riscattare il quadro al monte
dei pegni, me ne dà notizia il buon Luca Massaro, segnalando
l’editoriale
del n. 16 della rivista tedesca Exit
a firma di Thomas Meyer (Criseet critique de la société marchande)
e una sua traduzione in italiano a cura di Franco Senia (Capitalee Fascismo):
il salone è ancora in pessime condizioni, ma è evidente
l’intenzione
di tornare ai fasti del passato, quando un invito del Partito alla
serata di ballo era motivo di orgoglio per ogni intellettuale – sia
lode alla feconda contraddizione! – borghese.
Nemici della
classe operaia, in quanto liberaldemocratici, noi non siamo invitati.
Poco male, perché non sappiamo ballare. In quanto alla scena
mitologica ritratta in quel dipinto – il fascismo come invenzione
del capitale finanziario in risposta al Biennio rosso – ci è
sempre sembrata farlocca. Toccherà rimetter mano a Le
interpretazioni del fascismo
di Renzo De Felice per argomentare sulla natura socialistoide del
mussolinismo?
sarebbe inutile disquisire, non c'è chi non abbia la "propria" opinione sul fascismo (sul piano storico sarebbe già meglio declinarlo al plurale), a cominciare dall'interpretazione mussoliniana socialistoide. Fu immarcescibilmente anche questo, ideologicamente, ma sul piano sostanziale fu altro: senza i danè degli industriali e degli agrari, senza l'appoggio dell'establishment statuale e monarchico, dove sarebbe andato il Benito Amilcare?
RispondiEliminateniamo in debito conto i rapporti sociali, e dunque di classe, poiché è troppo generico e anche comodo citare come teste a favore la "storia" vs. l'ineffabile "natura" umana [sono modi di scaricare le "colpe" sull'evenemenziale (mussolinismo, hitlerismo, stalinismo, ecc.) o sull'antropologia à la carte (follia, deviazione, ecc.)].
quanto alla metafora del dipinto, il quadro teorico-pratico generale, non l'hanno portato al monte dei pegni, ma spedito in discarica; ora vorrebbero recuperare la scalcagnata cornice, non il dipinto, del quale c’è poco da rimpiangere, tanto è vero che i padroni di casa sapevano bene che quello in salotto altro non era che una copia di pessima mano utile per accalappiare gli intellettuali borghesi e strizzare l’occhio ai liberaldemocratici più problematici.
Trovo che questo commento sia un notevole contributo alla discussione, perché concede che la vulgata di Dimitrov ripresa dal Togliatti delle Lezioni sul fascismo (che non bisogna dimenticare faceva parte del Corso sugli avversari, dove dentro, assieme a Mussolini, si ficcava pure Turati & c.) fosse strumentale. Questo, naturalmente, se non ho frainteso. Comunque, sì, sgombriamo il campo - se possiamo - dalla pretesa che l'unico antifascismo possibile sia solo quello anticapitalista, e dunque marxista, e allora potremo cominciare a capire qualcosa del fascismo, questo nuovo "spettro che si aggira per l'Europa". A quale esigenze risponde? Perché riesce ad avere tanta presa sulle masse? Argomentazioni serie, please, sennò gli "intellettuali borghesi" e i "liberaldemocratici più problematici" non si fanno accalappiare.
Eliminamettiamoci nei panni di chi è disoccupato e non trova lavoro, di chi un lavoro non l’ha mai avuto, di chi non vede prospettiva e non ha più nulla da perdere. Dunque il disincanto (quando va bene) e la sfiducia, hanno radici nella crisi del sistema. Oggi come allora, come sempre. Ovviamente c’è chi sfrutta politicamente queste situazioni, e tuttavia è prematuro e improprio parlare di fascismo, anche se il pericolo è sempre presente nelle situazioni di grave crisi, nelle fasi di transizione dove più acuto si fa lo scontro tra le classi sociali (non necessariamente e subito in superficie). E questo non è che l’inizio, come del resto, nel mio piccolo, scrivo da anni. Quando la disoccupazione diventerà davvero di massa, quando il welfare non sarà più sostenibile, allora il pericolo si farà davvero concreto, così come sempre più concreto è il pericolo di un conflitto armato che aspetta solo un pretesto, indipendentemente e ben oltre la volontà dei singoli protagonisti. Non si può nemmeno escludere, però, che la storia possa prendere inaspettatamente anche un’altra strada … . Ma di questo magari dirò in un’altra occasione.
EliminaBeh, effettivamente c'è da nutrire qualche speranza.
EliminaAlla discussione (se si aprirà una discussione), mi permetto di aggiungere questo post che acclude un articolo a mio avviso di gran pregio.
RispondiEliminaRiguardo a questo passaggio: «la borghesia ha sempre amato darsi precursori nella natura umana più che nella storia, pienamente convinta che il mercato sia dimensione innata all’uomo, che la proprietà privata stia scritta nel dna specie-specifico», mi pare utile ricordare, con Marx, che un conto sono la proprietà privata e il mercato e un conto sono la proprietà privata dei mezzi di produzione e il monopolio.
Conoscevamo il distinguo, Luca, ma sai bene che la borghesia ha mille vite proprio perché sa insinuare la confusione come piano buonsenso.
EliminaSe posso permettermi anch’io una metafora. Siamo a Manhattan, all’86mo piano. Una bella giornata limpida, e vista a 360 gradi. Si vedono tanti edifici, ma…oddio, e l’Empire State Building? Non se ne vede traccia. I casi sono due: o l’hanno buttato giù, oppure siamo dentro all’Empire State Building. Si propende per la seconda ipotesi.
RispondiEliminaSupponiamo ora che ci troviamo in una società dominata dal settore servizi, da una tecnologia in rapida avanzata e che, sì: l’Empire State sia (con traduzione maccheronica) lo Stato-Impero, ossia il settore pubblico. Chi ci sta dentro incarica i più lungimiranti di scrutare l’orizzonte, alla ricerca di una fenomenologia che, oggettivamente, è sempre meno visibile: il capitalista che estrae plusvalore. Si riscontra che per il capitalista questa piacevole attività è sempre meno agevole. I lavoratori o sono disoccupati, o si sono rintanati nel confortevole grattacielo dal quale le loro accademiche vedette scrutano Manhattan. Là sotto, è solo lavoro morto, che non produce plusvalore. E’ solo inarrestabile declino del saggio di profitto. E, tuttavia, il capitalista gode. Il sig.Bezos più ne licenzia e più soldi fa. Il suo saggio di profitto declina, ma lui, il fesso, gode lo stesso. Gli osservatori all’86mo piano spingono lo sguardo un po’ più in là, e vedono minatori cinesi estrarre carbone a picconate. Eccolo là, il plusvalore, esclamano. Ancora per poco, li ammoniscono i più lungimiranti. Il sig.Bezos chiede aiuto al suo collega capitalista, il sig.Zuckerberg. Occorre organizzare un nuovo fascismo, prima che i giovani si ribellino. Il sig.Zuckerberg ha già in mente un sofisticato sistema di controllo del linguaggio. Goebbels gli fa un baffo, al sig. Zuckerberg.
Beh, effettivamente c'è da cagarsi addosso dalla paura.
Elimina@ Erasmo
Eliminail declino del saggio medio del profitto riguarda la “composizione in valore” (i sigg: Bezos e Zuckerberg, monopolisti nel loro rispettivo settore, rosicchiano quote di plusvalore altrui, perciò ridono e godono), ma la sporca faccenda riguarda anche il fatto che la composizione tecnica del capitale è data. Che cosa significa? Poiché l’unica fonte di valore, e quindi di plusvalore, è la forza-lavoro, la diminuzione relativa del capitale variabile implica che si giunga a un punto del processo di accumulazione in cui il plusvalore prodotto è divenuto così piccolo, relativamente al capitale complessivo accumulato, che non è più sufficiente a valorizzare l’intero capitale, facendogli compiere il necessario salto di composizione organica.
In altri termini, non ogni quantità di profitto (plusvalore) può trasformarsi in un aumento dell’apparato tecnico di produzione: per l’espansione – qualitativa e quantitativa – della scala della produzione è necessaria una quantità minima di capitale addizionale, quantità che nel processo di accumulazione diventa, a causa della crescita accelerata del capitale costante, sempre maggiore. Questa maledetta faccenda, nella sfera della produzione, riguarda anche i monopolisti sigg: Bezos e Zuckerberg, che potrebbero godere sempre meno.
Che il capitale tenda a convertirsi in speculazione finanziaria, in azzardo, non serve solo per massimizzare il profitto (come qualsiasi trader munito di sfera di cristallo), ma, cosa di cui tenere gran conto, serve per accorciare i tempi di ritorno del capitale investito rispetto a quanto avviene mediamente nella sfera della produzione (da D-M-D’ a un più rapido D-D’). Tuttavia, come osservava un amico questa mattina, ricalcando Marx, “il capitale è un rapporto sociale che produce instabilmente valore e plusvalore, mica cartamoneta”. Aggiungo, sempre a ricalco dell’ubriacone di Treviri, che il limite al capitale è … il capitale stesso.
Molto interessante l'analisi di Olympe sulla tendenza generale, un'analisi che ha il pregio indiscutibile di riportare alla luce, sebbene per un attimo soltanto, categorie economiche tipiche dell'analisi marxiana: plusvalore, composizione tecnica e organica del capitale, capitale costante e capitale variabile, ciclo di trasformazione D-M-D' ecc. ecc. Il mio è stato un piacevole sussulto: della caduta tendenziale del saggio di profitto non sentivo parlare da non ricordo neppure quanti anni, l'ultima volta forse 30 anni fa, ad un convegno. Da allora sono cambiate molte cose, soprattutto, c'è stata la vittoria assoluta del marginalismo, della teoria dei fattori di produzione, dell'individualismo metodologico, del sistema dei prezzi: il valore, nella sua qualità di concetto economico, oggi non lo considera più nessuno, al massimo lo si confonde con il prezzo. Persino gli economisti che i classici un po' li hanno letti ci dicono che si tratta di un concetto inutile, non osservabile, non misurabile: e se il valore non esiste come può esistere il plusvalore? E se non esiste il plusvalore come può stare in piedi tutto l'impianto teorico marxiano? Dalle università escono giovani con questa formazione, giovani che di Marx non hanno letto nulla, giovani che però hanno letto Von Mises, Hayek, Hazlitt, Friedmann e per i quali persino un polemista di modesto valore come Bastiat è diventato un idolo. Di fronte a questa valanga liberista che ha spazzato via persino il santino keynesiano della socialdemocrazia perdente, che fare? Ma sono finito fuori tema e per questo chiedo scusa al padrone di casa. Vado a preparare due broccoletti che è tardi.
RispondiEliminaSaluti e grazie per l'ospitalità.
Bosone Rosso
se il valore non esiste come può esistere il plusvalore?
Eliminainfatti il capitalismo è filantropia e gli azionisti vivono di broccoli
@Olympe
RispondiEliminaTi ringrazio della spiegazione. Spero di non essere molesto se ho delle obiezioni. Prima obiezione: la proposizione “l’unica fonte di valore, e quindi di plusvalore, è la forza-lavoro” è un postulato. Io credo che fosse pratico proporlo nell’Inghilterra della seconda metà dell’ottocento, ossia quando le produzioni di beni materiali erano decisamente labor-intensive. Ma sempre di postulato si tratta. Io faccio fatica a accettarlo dal punto di vista logico, ma se ci troviamo in realtà capital-intensive, faccio fatica a accettarlo anche dal punto di vista pratico.
Seconda obiezione: ogni legge economica vale in un certo range, ossia intervallo di valori. Non ho capito se la formula del saggio di profitto valga per qualunque range di valori. Estremizzo: se il capitalista elimina del tutto il capitale variabile, che succede? Succede che il saggio di profitto (secondo la formula dell’amico di Treviri) è zero. Io credo che ci stiamo avvicinando a situazioni del genere, e non credo, francamente, che i capitalisti ne soffriranno molto. Naturalmente rimane aperta la questione di chi acquisterà le merci (termine che, come vedremo, uso con riserva) se non ci saranno salari. Però è questione diversa, anche se ai miei occhi più importante.
La terza obiezione era già sottesa al commento precedente. Noi vediamo sempre meno unità manifatturiere, e sempre più organizzazioni che producono servizi. Il nostro amico di Treviri forse non contemplava l’ipotesi che potesse essere D-S-D anziché D-M-D. Fra le organizzazioni che forniscono servizi, primeggiano le pubbliche amministrazioni e le aziende pubbliche. Siccome tutti noi abbiamo un parente pubblico dipendente, o lo siamo noi stessi, nella similitudine dell’Empire State ho voluto andarci leggero. Ma mi domando: questa forza lavoro e questo simil-capitalismo che si sono sostituiti a larghe porzioni del capitalismo tradizionale, e per i quali parlare di plusvalore sarebbe ubriachezza, come si inquadrano in un’analisi marxista?
(Ci sarebbe anche da discutere sulla difficile misurazione dei servizi, che spesso non è riducibile a unità prodotte. Ma sarà per un’altra volta).
Le tre obiezioni trovano adeguata risposta nella lettura di Marx, ma anche, almeno in parte, in Ricardo e in Smith, entrambi degli economisti e non dei pugilatori come gli attuali ideologi.
EliminaAd ogni modo, I obiezione: prova a dimostrarmi il contrario, ma prima di mettere nero su bianco ti suggerisco di pensare a lungo. II obiezione: “se il capitalista elimina del tutto il capitale variabile”. Un po’ come se le religioni eliminassero la trascendenza. Prova a produrre una qualsiasi merce senza che vi sia intervento umano. Qui voglio chiarire un aspetto poco noto alla vulgata marxista e no: il lavoratore che progetta una macchina, semplice o complessa non ha importanza, vende la propria capacità lavorativa, la scambia con un salario (non importa se lo chiama stipendio o altro), cioè con capitale variabile. In altri termini, l’operaio non è il solo a produrre plusvalore. Lavoro produttivo, non importa se fisico o intellettuale, è quel lavoro che si scambia con capitale, ossia con salario, non il lavoro che si scambia con un reddito. Un chirurgo può fare un lavoro utilissimo, ma il suo non è un lavoro produttivo. Anzi, è un lavoro che consuma ricchezza. Anche in tal caso è necessario rifarsi a Marx, alle categorie di lavoro produttivo e improduttivo. Ciò vale anche per la III obiezione, cioè per D-S-D.
Per quanto riguarda l’Inghilterra, vedi questo:
https://marcellomusto.org/marie-gouze-review-of-l-ultimo-marx-1881-1883-saggio-di-biografia-intellettuale-diciotto-brumaio-february-13-2017/426
Per rimanere nel tema del post di Malvino, riporto una mia osservazione di qualche anno addietro:
La crisi economica e sociale alimenta i nazionalismi e la xenofobia, tutta robaccia nota. Ma la responsabilità maggiore di questa situazione è dell’establishment europeo intossicato di liberismo. Una tossicità che non ha e non può trovare rimedio senza buttare all’aria il sistema, un establishment che mette in scena il proprio fallimento con il medesimo zelo con il quale per decenni ha sputtanato tutto ciò che non s’accordava con l’indice di borsa.
L’azzardo liberista non tiene conto soprattutto di un fatto assai provato dall’esperienza storica: l’irrazionalità e il disinteresse stravince laddove la vita quotidiana della gente comune è ridotta a una dimensione microscopica che si crede lecito poter schiacciare con disinvoltura e disattenzione. Di là di ogni apparenza mediatica, siamo in mano a degli analfabeti e improvvisatori. Ad ogni livello, ma più si sale di livello e più la faccenda diventa grave e disperata.
@Olympe
EliminaTu mi dici: "prova a dimostrarmi il contrario, ma prima di mettere nero su bianco ti suggerisco di pensare a lungo". Sono intimidito, e quindi mi affido a Bertrand Russell:
“ Se io sostenessi che tra la Terra e Marte c'è una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole su un'orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi, purché mi assicuri di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rivelata, sia pure dal più potente dei nostri telescopi. Ma se io dicessi che - posto che la mia asserzione non può essere confutata - dubitarne sarebbe un'intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe con tutta ragione che sto dicendo fesserie. Se, invece, l'esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità ed instillata nelle menti dei bambini a scuola, l'esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità e porterebbe il dubbioso all'attenzione dello psichiatra in un'età illuminata o dell'Inquisitore in un tempo antecedente. “
Quanto al secondo argomento, "prova a produrre una qualsiasi merce senza che vi sia intervento umano" devo dire che elude insieme sia la questione del range di validità della formula, sia la domanda sui servizi contrapposti alle merci. Faccio presente che l'intelligenza artificiale porta già ora a creare nuovi prodotti (per esempio nuovo software) senza intervento umano. Figuriamoci fra 20 anni. Dobbiamo augurarci che un minimo di supervisione umana sia sempre garantita, ma, a parte che non ne siamo sicuri, affidare la difesa della teoria del plusvalore a uno sparuto presidio di teste pensanti fa veramente impallidire il ricordo dei 300 alle Termopili. Quanto alla domanda sul settore pubblico, questa è totalmente elusa. Forse però non sono stato sufficientemente chiaro, e mi spiegherò con un esempio terra terra. Le buche nelle strade di Roma sono sufficientemente terra terra? io credo di sì. Allora: ci sono i dipendenti del comune di Roma, e ci sono le ditte appaltatrici. Nessuna delle due entità ripara le strade. Per i dipendenti del Comune, che ricevono uno stipendio, parlare di plusvalore è umorismo nero. Vediamo invece il caso delle ditte appaltatrici. Queste non fanno il lavoro, ma pagano gli operai. Quindi prelevano plusvalore? Interessante questione, che ti sottopongo. Sono aperto a ogni soluzione del problema, e non mi permetto di suggerirti di pensare a lungo.
Ohi-ohi-ohi!
EliminaSulla I obiezione, e cioè che il lavoro non sia l’unica fonte di valore, in un primo momento non volevo risponderti, perché a nulla è valso che ti rinviassi non solo a Marx, ma anche a Ricardo e Smith. In tal modo riterresti si tratti di mancanza di argomenti, e dunque verrei a lusingarti troppo. Perciò ti rispondo, anche perché, aspetto assai decisivo, fuori ha ricominciato a piovere e perciò devo obtorto collo restare in casa.
EliminaNeghi sia il lavoro umano a dare valore alle merci, ma non spieghi che cosa in alternativa sia fonte del valore. Citi Russell con un brano che non c’entra nulla, nemmeno di striscio. Perciò o non lo sai oppure hai una gran confusione in testa. Penso entrambe le cose; ma consolati, non sei solo.
Perciò partiamo dalla propedeutica, che nei casi disperati è il metodo più semplice: le merci sono prodotti del lavoro umano, ma ci sono epoche storiche e modi di produzione in cui i prodotti del lavoro umano non sono tutti delle merci. Ad esempio, l’economia dei proprietari terrieri medievali non ha come forma dominante la produzione di merci.
Però non basta dire che le merci, al pari dei prodotti di epoche economiche precedenti a quella capitalistica, sono semplicemente risultati del “lavoro”. Occorre, invece, distinguere il duplice carattere del lavoro rappresentato nelle merci: il carattere di lavoro concreto e di lavoro astratto.
Per forma concreta di lavoro si intende l’insieme delle qualità che gli conferiscono il carattere di utilità. Il lavoro concreto non produce valori di scambio, bensì oggetti destinati all’uso. Il lavoro del falegname, del calzolaio, o del sarto ad esempio, in quanto attività produttiva conforme allo scopo diretta all’appropriazione di ciò che la natura fornisce è una necessità “naturale”, valida per tutte le formazioni economico-sociali e per tutte le epoche storiche.
Per lavoro astratto, universalmente umano, si intende quell’alcunché di comune – il dispendio di forza lavoro umana – contenuto nei differenti lavori che producono le varie merci, che crea valore di scambio ed opera nel processo di valorizzazione. Esso fa la sua comparsa soltanto in una formazione sociale storicamente determinata, quella capitalistica.
È soltanto nella sua forma di valore di scambio che l’oggetto d’uso diventa merce. Scrive Marx: “Dunque, un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, ho materializzato, lavoro astrattamente umano”.
Il lavoro astratto, di conseguenza, prima che una forma del pensiero è una forma della realtà oggettiva, un’astrazione che si compie quotidianamente nella realtà stessa dello scambio. Dunque Russell e la sua teiera non centrano nulla.
Scrive Marx: “Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di fare ciò, ma lo fanno”.
Sul fatto che la tecnologia soppianti in gran parte il lavoro vivo, Marx ebbe a scrivere pagine memorabili (specie nei Grudrisse). Secondo Marx, in seguito allo sviluppo della grande industria e con la sussunzione della scienza nel capitale, la quantità di lavoro erogato nella produzione non è più la fonte principale per la creazione di ricchezza per una società. Marx intende dimostrare non che la legge di valore si estingue già nel modo di produzione capitalistico, bensì che, ad un dato livello dell’accumulazione, la produzione di valori d’uso entra in contraddizione con le esigenze di valorizzazione del capitale.
Lo sviluppo le forze produttive risulta così frenato dai rapporti di produzione capitalistici, vale a dire dei rapporti fondati fu un modo specifico di imporsi della legge del valore. Con tutte le conseguenze del caso.
Quanto agli operai del Comune, che essi coprano buche oppure no, non scambiano il proprio lavoro con capitale, bensì con reddito. Sulla disamina tra lavoro produttivo e improduttivo ho già detto dove puoi trovare riferimenti utili, ma temo non lo reputi necessario.
Poiché temo che non ci saranno molte altre interlocuzioni, rinuncio alle perifrasi. La citazione della teiera era pertinente, e sono sorpreso che tu questo non l’abbia colto. Riguarda l’onere della prova. Io ti avevo detto: “questo è un postulato”. A tale affermazione, tu puoi rispondere in due modi. Prima risposta: “è vero, è un postulato, e perciò è indimostrabile: ma io ci credo”. Seconda risposta: “non è vero che è un postulato, e te lo dimostro”. Invece, chiedere a me di dimostrare che il tuo postulato è falso è come chiedermi di dimostrare che la teiera non c’è: ossia invertire l’onere della prova, e derivarne che io sono un idiota o un eretico (la prima delle due, credo).
RispondiEliminaTi sono comunque grato di avere aggiunto una spiegazione ai tuoi rimandi a Ricardo e A.Smith. Si dà il caso che io abbia letto qualcosa dei due succitati autori, e ricordo abbastanza bene che Ricardo, sviluppando alcuni concetti di Smith, parlava di qualcosa di simile al “lavoro morto”. Solo che tu continui a riferirti a Marx come all’ultimo economista vissuto sulla terra, e non a caso mi fai dei riferimenti all’indietro nel tempo.
Invece, nell’ultimo secolo e mezzo sono cambiate varie cose. Tu mi sembri insofferente ai miei piccoli esempi pratici, ma poi mi citi il falegname, il sarto, il calzolaio, mentre io ti cito Bezos e Zuckerberg. Io lo capisco che nel secolo XIX quello che fanno questi signori sarebbe stato incomprensibile, ma è ora che ce lo diciamo: se fosse stato un nostro contemporaneo, Marx avrebbe scritto qualcosa di diverso. In particolare, avrebbe parlato di servizi oltre che di merci, e, essendo dotato di visione, avrebbe dato una sistemata anche al concetto di valore. Forse non avrebbe rifiutato di includere i ricavi nell’analisi, e invece di parlare di saggi di profitto si sarebbe rassegnato a accettare quella formula elementare: ricavo meno costo uguale utile, che partorisce non solo percentuali, ma quattrini in valore assoluto. Che poi sono quelli che fanno felice il capitalista.
Si sarebbe poi sorpreso di imbattersi nel capitalismo di stato: che un tempo produceva anche merci, ma ora soprattutto servizi. Messo di fronte all’ENEL e all’Alitalia, nonché a un mare di municipalizzate zeppe di raccomandati, il buon uomo di Treviri avrebbe definitivamente rinunciato a parlare di plusvalore.