giovedì 29 aprile 2021

«Per così dire»

 

Un anno fa, su queste pagine, segnalavo i mezzucci retorici di cui una «pattuglia di gente tecnicamente squinternata» (definizione data da Edmondo Berselli ai redattori e ai collaboratori de Il Foglio) si era servita per mistificare quanto Giorgio Agamben aveva scritto riguardo a Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata (il manifesto, 26.2.2020), ma, a scanso di equivoci, tenevo a precisare: «Non vorrei che il mio lettore pensasse che aver preso le difese di Agamben voglia dire ch’io ne condivida il pensiero [perché] molto nella sua riflessione filosofica mi pare discutibile». Oggi vorrei appunto intrattenermi su uno degli aspetti che mi paiono più discutibili, e che allo stesso tempo è centrale nella sua riflessione filosofica, quello relativo al concetto di «nuda vita». Mi dà spunto a parlarne un post col quale diciottobrumaio la definisce «unastrazione», come se, per ciò stesso, possa essere liquidata come un niente, alla stregua di un significante privo di un significato. Di fatto, invece, lastrazione non è altro che la procedura logica cui si fa comunemente ricorso quando da elementi sensibili del reale si estrae un concetto che li accomuna e li qualifica: «tesi», «antitesi» e «sintesi», ad esempio, sono astrazioni, ma diciottobrumaio si azzarderebbe mai a considerarle parole vuote? Non credo: cosa rimarrebbe del suo materialismo dialettico? Se si vuole, dunque, contestare a Giorgio Agamben lo strumento concettuale di «nuda vita» – e io ritengo che questo sia possibile – occorre dimostrare che è strumento improprio.

Non si può fare a meno, in tal caso, di considerare, in primo luogo, che non è stato Agamben a usare per la prima volta questa locuzione: in Zur Kritik der Gewalt (1921), uno degli scritti più densi e più complessi di Walter Benjamin, compare dove si legge che «con la nuda vita [«bloße Leben»] cessa il dominio del diritto sul vivente». Con ciò comincia a delinearsi cosa intenda definire il concetto di «nuda vita», soprattutto se si vuol far propria, comè nel programma che Agamben espone a premessa della sua ricerca, la tesi di Michel Foucault riguardo alla trasformazione della politica in biopolitica: «Per millenni, luomo è rimasto quello che era per Aristotele: un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica; luomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente» (La volontà di sapere, 1976). «Se qualcosa caratterizza, dunque, la democrazia moderna rispetto a quella classica – chiosa Agamben – è che essa si presenta fin dallinizio come una rivendicazione e una liberazione della ζωή, che cerca costantemente di trasformare la stessa nuda vita in forma di vita e di trovare, per così dire, il βίος della ζωή» (Homo sacer I, pag. 23). È necessario fare attenzione a questo «per così dire» che cerca di dar ragione di quello che in tutta evidenza è un paradosso, perché, se, come vedremo, una «του βίου ζωή» può avere un senso, sebbene solo figurato, si fa fatica a capire dove un «βίος della ζωή» possa trovarne uno qualsiasi. Ma qui diventa necessaria una digressione.

Nel Timeo di Platone cè un inciso («χωλήν του βίου διαπορευθείς ζωήν», 44C) che incrina la lapidaria distinzione che a ζωή dà il significato di vita come essenza comune a tutti gli esseri viventi, e per la quale essi vivono (qua illi vivunt), e a βίος quello del genere di vita che essi vivono (quam illi vivunt), anche assai variamente peculiare da specie a specie e, nel caso della specie umana, pure da individuo a individuo. In questo inciso, infatti, troviamo una «του βίου ζωή», che letteralmente sarebbe una «vita della vita», e che, in virtù del fatto che qui la «ζωή» è «χωλή», e cioè «storpia», «zoppa», non ha mai dato troppi problemi ai traduttori, che le hanno conferito il senso figurato di «percorso», «strada», «itinerario»: Francesco Acri rende linciso con un «menata vita sciancata» (Naucksche Buchdruckerei, 1865); Giuseppe Fraccaroli con un «percorrendo a pie zoppo il cammino della vita» (Fratelli Bocca Editori, 1906); Giovanni Reale con un «dopo aver percorso un tragitto di vita dissennato» (Bompiani, 2000). En passant, occorre rilevare che, fin dalla prima edizione del suo celeberrimo Vocabolario greco-latino, Lorenzo Rocci suggerisce di leggere il «του βίου ζωή» del Timeo come «lo spazio della vita» (Società Editrice Dante Alighieri, 1939). Né troppo diversa è stata la scelta nel tradurre il testo originale in inglese, visto che tutte le versioni del Timeo fin qui date alle stampe fanno propria la soluzione di Richard D. Archer-Hind col suo «[if] he passes the days of his life halt and maimed» (Mac Millan and Co., 1888), dove una nota a pie di pagina avverte che con «βίου ζωή» deve intendersi «the conscious existence of his life-time»: la sola differenza, qui, sta nel fatto che, invece dello spazio («percorso», «strada», «itinerario»), troviamo il tempo («life-time»), e tuttavia anche qui ζωή continua ad avere senso figurato.

Ma accade qualcosa del genere con βίος? Abbiamo, cioè, da qualche parte un «τής ζωής βίος», una «vita della vita», in cui sia il βίος a esprimere l’estensione spaziale o temporale della ζωή? No. Per meglio dire: non fino a Giorgio Agamben, e al suo «per così dire», che, se sta per «in un certo qual modo», non ci chiarisce il «modo». Come può, infatti, la peculiarità del βίος, darsi a misura spaziale o temporale del generale che è della ζωή? È chiaro che il «modo» non può essere quello figurato. Ma, se escludiamo che un «τής ζωής βίος» possa avere un senso figurato, quale altro senso può avere? La risposta sta nellÜberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (1932) di Rudolf Carnap, dove si parla di quella metafisica che regge su «pseudoproposizioni», le quali «consistono di parole che hanno un significato, ma sono composte da queste parole in un modo tale che non ne risulta alcun senso»: «il βίος della ζωή» di Agamben è giustappunto un concetto metafisico: Agamben ridà alla storia quanto di metafisico Foucault le ha tolto: Agamben sottrae a Foucault la sua dirompente carica eversiva, lo normalizza reinscrivendolo nella linea di pensiero della tradizione di cui Foucault ha dimostrato i limiti. Che è un po come se Feuerbach venisse dopo Marx.   

6 commenti:

  1. Beh quando parla di fisica, diciottobrumaio fa anche peggio. È che il materialismo dialettico è la loro Teoria del Tutto e quanto se ne discosta è solo d'intralcio al cammino lungo la via del progresso. Mi ricordano quel tale che condannava al rogo tanto i libri contrari al Corano come perniciosi, quanto quelli conformi perché superflui.
    Federico

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    1. Se l'argomentazione poggia sulla presunta sentenza di un califfo riguardo alla biblioteca di Alessandria, tocca informare il sig.Federico che si tratta di falso storico fra i più sbugiardati.

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    2. Se le pare che abbia usato la storiella a mo' di argomentazione dubito che si possa informarla di alcunché
      Federico

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  2. È sui dettagli che si giudica l'insieme.

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  3. Io non so il tedesco ma c'era qualcuno che si chiedeva perché Solmi avesse tradotto "bloße" con "nuda", contestando la correttezza della traduzione. Ed in generale il tema della traduzione delle opere di Benjamin è molto spinoso, in radio Michele Ranchetti liquidò l'opera omnia Einaudi come (a memoria) "utilissima per riempire gli scaffali di uno studio dentistico".

    E comunque: «Dalla freddezza metallica, appena sogghignante, con cui certi professori di filosofia pronunciano davanti a te l’espressione “nuda vita”, capisci inequivocabilmente che è della tua che stanno parlando; e che mentre ne parlano immaginano con voluttà cosa potrebbero farne. Se l’appartenenza al destino dell’Essere sublimava le folle riprese dalla Riefenstahl, la loro biometafisica sublima sogni di snuff movie» (Matteo Marchesini - Casa di Carte, cap. I)

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