Avrò
avuto 15 o 16 anni, proiettarono Woodstock
a una Festa de l’Unità, ero in prima fila, abbracciato ad una ragazzina brufolosa
di cui ero innamorato perso, del film me ne importava poco o niente. Poi, d’un
tratto, la sua voce. Non sapevo chi fosse. Anche dopo averlo saputo, non è che
mi abbia fatto differenza. Per dire, mai comprato un suo disco. Quella canzone,
interpretata in quel modo, con quella faccia – quella scena, insomma, con tutto
quello che di fastidioso pure mi procurava, quelle basette, quella maglietta – solo
quello era il mio Joe Cocker, la topica del blues bianco. Non avrei molto da
commemorare, in fondo era un artista che riducevo a quegli otto minuti del
film. La ragazzina disse: «Cazzo!». «Cazzo!», risposi io. E per otto minuti
rimanemmo inchiodati con gli occhi sullo schermo. Una delle cose che non
dimenticherò mai.
lunedì 22 dicembre 2014
[...]
Ormai
sono passati più di venti mesi da quando Bergoglio è stato fatto papa e qualche
resoconto, anche solo alla buona, penso sia lecito farlo. Non già sul suo
pontificato, però, perché è presto ancora, ma sulle reazioni che ha prodotto
nel popolo dei tiepidi o degli indifferenti o addirittura dei sedicenti
anticlericali, sì, ci è lecito. E allora occorre segnalare che, a fronte delle tante autorevoli teste di cazzo che al povero Ratzinger rinfacciavano un giorno
sì e l’altro pure di grattarci quattro miliardi all’anno tra ottopermille,
finanziamenti alle scuole gestite dai preti, riparazioni al campanile, sconti
fiscali, eccetera, non c’è neppure una vocina, fioca quanto si voglia, che a
Bergoglio chieda conto di come si concili tutta la sua retorica da poverello
che si batte a mani nude contro Mammona e il continuare a intascare la
sfaccimma della sfaccimma della sfaccimma di milioni e milioni di euro attraverso
i canali di sempre. Vanno a intervistarlo, gli chiedono di tutto, ma a nessuno
salta l’uzzolo di dirgli: «Santità, che fa, molla la presa sul pacco di soldi che
continua a scorrere dalle tasche degli italiani verso la Cei e il Vaticano? E
quando?». Né glielo chiede uno dei tanti che chiama al telefono, sarà che sono
troppo coglioni per affrontare una questione tanto sgradevole o forse già sanno
che di botto mancherebbe campo e la linea cadrebbe, e poi di che cazzo
potrebbero vantarsi il giorno dopo? Ve lo immaginate Benigni? «Oh, Santità, la
ringrazio, quanto onore ricevere i suoi complimenti per la mia catechesi laica.
Già che ci troviamo, però, mi toglie una curiosità? Cosa le costa un motu
proprio di due righe nel quale si legga: “dal giorno tot accettiamo soldi solo dal
singolo fedele”?». Macché.
sabato 20 dicembre 2014
[...]
«Considero grave e
allarmante l’impoverimento culturale che la politica ha subìto; e non mi
riconosco negli atteggiamenti oggi prevalenti. Stiamo vivendo un’epoca di
sfrenata personalizzazione della politica, di smania di protagonismo, di
ossessiva ricerca dell’effetto mediatico. E al fenomeno dei “partiti personali”,
cresciuto in Italia più che in qualsiasi altro grande paese europeo, al declino
dei metodi di direzione politica collegiale, alla perdita da parte dei partiti
di radicamento e di vita democratica nelle istanze di base si accompagna una
diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere». Chi può aver scritto
parole tanto sagge? Non ci arrivate? Ok, non voglio tenervi troppo sulla corda:
si tratta di Giorgio Napolitano, è un brano tratto dalla sua «autobiografia politica» (Dal Pci al socialismo europeo – Editori
Laterza, 2005). Da non crederci, vero? Si tratta dello stesso Giorgio Napolitano
che qualche giorno fa ci ha esortato all’adorazione del vitello d’oro, il
Matteo Renzi che, in quanto a spregiudicatezza, a sfrenata personalizzazione
della politica, a smania di protagonismo, ad ossessiva ricerca dell’effetto
mediatico e allo sbattersene dei metodi di direzione politica collegiale, non è
secondo a nessuno. Si tratta dello stesso Giorgio Napolitano che ha fatto un solenne
cazziatone a quanti nel Pd storcono il muso per come il Fenomeno se ne fotta
altissimamente delle istanze di base e del radicamento del partito, che ha
trasformato in una macchina propagandistica da campagna elettorale permanente.
Obietterete che non si crocifigge un caro vecchietto a quel che ha detto dieci
anni fa, quando l’impoverimento culturale subìto dalla politica era evidente
quasi solo nel centrodestra e “partito personale” era sinonimo di Forza Italia.
Convengo, figurarsi. Era solo per avvertire la casa editrice: in caso di
ristampa, si provveda al taglio del succitato passaggio.
venerdì 19 dicembre 2014
giovedì 18 dicembre 2014
Il peggio che poteva fare, l’ha fatto,
C’è
chi sostiene che il prossimo Presidente della Repubblica conterà infinitamente meno
di quanto ha contato quello attuale, perché riforma del Senato e nuova legge
elettorale rafforzeranno di fatto a tal modo i poteri dell’esecutivo da far venir
meno ogni ragione che ha costretto Giorgio Napolitano ad assumere un ruolo che
a molti è parso esorbitare dalle prerogative che la Costituzione assegna al
Capo dello Stato. Volendo, si può dire pure in altro modo: l’instabilità
politica ha offerto a Giorgio Napolitano il pretesto di esorbitare tanto spesso
dalle prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato al punto da poter
dettare una sua agenda, e che questa ha portato ad un riassetto istituzionale
che si traduce in un presidenzialismo di fatto, con un Presidente del Consiglio
che potrà contare su un enorme premio di maggioranza e un Parlamento ad una
sola Camera in cui siederà una maggioranza di nominati, e nominati da lui. Volesse
o non volesse questo, Giorgio Napolitano l’ha reso possibile, perciò suonano
francamente scandalose le affermazioni che ha fatto nel suo discorso alla cerimonia
per lo scambio degli auguri di fine anno con i rappresentanti delle
istituzioni, delle forze politiche e della società civile, l’altrieri.
«Gli
auguri che quest’anno ci scambiamo s’intrecciano strettamente con gli impegni
che tutti condividiamo per il superamento degli aspetti più critici della
situazione economica e sociale del Paese. E qui si collocano le difficoltà che
ancora si oppongono alla realizzazione dei cambiamenti di indirizzo e
strutturali programmati dal governo e sottoposti al vaglio delle Camere». Chi
ha deciso questi cambiamenti, e in virtù di quale investitura del voto
popolare? Dov’è la maggioranza del Paese che si è mai espressa in favore del
presidenzialismo e del bipartitismo come soluzioni degli aspetti più critici
della situazione economica e sociale dell’Italia? Ed è corretto definire
difficoltà le resistenze che in Parlamento si oppongono a questo disegno?
«Non
credo sia stata arbitraria la percezione, certo non solo da parte mia, che in
quest’anno abbiamo ragionato, discusso e operato in una dimensione unica, italiana
ed europea. I problemi dell’Italia, e le responsabilità del soggetto politico e
istituzionale Italia, hanno fatto oggetto di serrata attenzione in sede
europea, e discutendo tra noi dei nostri problemi non abbiamo potuto separarli
dal contesto europeo di cui pure ci sentiamo protagonisti». Sì, ma chi ha
deciso quale fosse il ruolo che l’Italia dovesse giocare in Europa? Che fine ha
fatto la tanto sbandierata intenzione di ridefinire i nostri impegni in sede
europea che è servita a Renzi per fronteggiare in termini concorrenziali le
spinte euroscettiche di Lega e M5S? Ci sentiamo protagonisti del contesto
europeo, ma non lo siamo. Se non abbiamo potuto separare i nostri problemi da
quel contesto, è perché in esso prendevano forma e dimensione in relazione a un
ruolo che non era affatto da protagonista.
«Il
forte consenso espressosi nelle elezioni del 25 maggio per il partito che guida
il governo italiano ha oggettivamente garantito accresciuto ascolto e autorità
all'Italia nel concerto europeo, come si è visto nel peso esercitato dal
Presidente del Consiglio Matteo Renzi nel concorrere a soluzioni unitarie e
significative nella definizione dei nuovi vertici dell’Unione, e innanzitutto
nella composizione e nella guida della nuova Commissione. E lì si è anche
espresso un rilevante riconoscimento per il ruolo del nostro Paese nella
persona del ministro degli esteri Federica Mogherini chiamata a rappresentare,
a far crescere e a dirigere la politica estera e di sicurezza comune europea».
Cazzate, medaglie di latta: contiamo pochissimo in Europa, e non meritiamo di
contare di più, perché, di là dai maquillages, debito, fisco e spesa pubblica
sono piaghe, e il pil ristagna, e la crescita è sotto zero, e siamo fermi da
più di vent’anni, e la colpa è di una classe politica che Giorgio Napolitano
trova ancora il coraggio di difendere.
«Il
tema delle riforme necessarie per determinare condizioni idonee allo sviluppo
degli investimenti, alla creazione di nuovo lavoro, alla maggior produttività e
competitività delle nostre economie, è stato, in un passato anche recente,
prospettato con qualche nebulosità in ripetute discussioni nelle istituzioni
europee, ma ha oramai assunto dei contorni precisi, un’ampia articolazione
concreta. E in questo senso bisogna considerare il programma di riforme messo a
fuoco dal Presidente Renzi e dal suo governo. Riforme su cui ogni forza
politica potesse misurarsi, senza pregiudiziali e in termini di confronto tra
visioni e approcci seriamente sostenibili. Si tratta di un programma vasto, da
scaglionare nel tempo complessivo che lo stesso governo ha voluto assegnarsi:
ma che ha dato il senso di quale cambiamento fosse divenuto indispensabile, e
non più eludibile o rinviabile». In quale punto della Costituzione sta scritto
che il Presidente della Repubblica, da rappresentante dell’unità nazionale, può
farsi garante presso la Nazione di un esecutivo guidato da un tizio che non ha
mai avuto un solo voto in un’elezione politica e ha raccolto solo il 23,3% dei
consensi tra gli aventi diritto al voto per delle consultazioni europee? Non è
un avallo costituzionalmente nullo e politicamente illegittimo?
Sul
resto non vale neanche la pena di spendere un commento: lessico da attore
politico della Prima Repubblica speso in favore di una Terza Repubblica da
incubo, nella quale Palazzo Chigi governa a colpi di decreti in bianco. Prima
Giorgio Napolitano si dimetterà e meglio sarà: il peggio che poteva fare, l’ha
fatto, e con questo discorso l’ha vidimato. Se poi il suo successore conterà
assai meno, sarà un bene, come minimo ci risparmieremo di vedere ancora il
Quirinale come regia politica. Ma sarà un bene che avremo pagato carissimo.
martedì 16 dicembre 2014
Il bastone
Fuori
dalla cerchia dei cattolici fedelissimi alla dottrina, che saranno lo 0,2% dei
cattolici per modo di dire, il professor De Marco è pressoché un Signor
Nessuno, e questo è un vero peccato, perché non è un fesso, meriterebbe la
notorietà che ingiustamente va a certi sagrestani che della Chiesa sanno appena
dov’è la corda della campana. È colto, il professore, e io lo leggo sempre con
gran diletto, perché del cattolicesimo è una spremuta senza aggiunta di
additivi o conservanti, acida come si deve. Bene, non è difficile arguire che
anche al professore stia sul cazzo quella fetecchia di Bergoglio, e il fatto che
dopo Ratzinger era necessaria proprio una simpatica macchietta come lui sennò
il barcone andava a sbattere – niente da fare – non gli scende, ma non gli
scende proprio. Il fatto è che lui è personcina a modo, mica come quel pazzo
scatenato di Socci che a Bergoglio è arrivato a dare dell’usurpatore, e soffre
uguale, ma non schizza bile, la gonfia in bellissime bolle verdoline che
Magister cattura in instagram postandole su Settimo Cielo, ormai sito ufficiale
degli orfani dell’Emerito. Ed è su Settimo Cielo che qualche giorno fa è stato
pubblicato un altro articolo di De Marco, Il
clima del pontificato e una nuova voglia di bastone, che fin dal titolo
rivela il suo caratterere polemico, e infatti, contrariamente al solito, è teso, quasi
contratto, livido qua e là, del tutto privo di quel pescare dai più polverosi
scaffali, che abitualmente rendono sfiziosissime le performance del professore.
E qui, dolenti, siamo costretti ad un’amara riflessione: ai cattolici come si
deve, quelli che il Denzinger ce l’hanno sempre sulla punta della lingua, questa
chiavica di papa leva il gusto dell’ornato e del fiorito, li intristisce e li
mortifica, lasciandoli senza parole per le bestialità che infila senza soste,
sicché fanno fatica a stargli dietro, senza riuscire neanche a trovare il tempo
di rammendarsi le vesti prima di potersele stracciare ancora. Poveri
tradizionalisti, c’è da comprenderli: con Bergoglio accade loro ciò che a noi
accade con Renzi, una tal bestia che non sai da dove cominciare. E povero De
Marco, sia detto senza un velo di ironia, che in questa occasione lamenta la
brutta aria che tira per chi non ha intenzione di adeguarsi al clima di questo
pontificato.
Dice che chi non segue l’andazzo è preso a randellate, robe
brutali, mai viste ai tempi di Wojtyla e Ratzinger, dove pure non mancava quel
fenomeno di allineamento che porta chierici e laici a compiacere il papa. «Singolare
– scrive De Marco – che tale allineamento, allora inerme, si eserciti ora in
una pugnace difesa del papa regnante solo per colpire ambienti e individualità
ortodosse», in favore di quella «paccottiglia cristiana postmoderna che
consiste in resipiscenze e contrizioni, in autocritica del passato cattolico
“alla luce del Vangelo”, in abbracci di ogni genere purché nell’agenda dei
media», che Bergoglio insuffla col suo fare «qualunquistico», che «esonera dall’impegno
di valutare, discernere, opporsi al “mondo”». «Così – scrive De Marco – dimenticando
che è solo il nichilismo ad avere sempre un “volto umano” benevolente, che non
giudica, sollecito della pubblica felicità, tanti cattolici qualificati, clero
e laici, mancano al loro compito essenziale: ricordare all’Occidente, e al
mondo, l’antropologia cristiana che è a suo fondamento, si tratti di anima e di
corpo, di vita o di morte, di generazione o di identità di genere. Quasi
nessuna voce cattolica dotata di autorità d’ufficio si alza ancora contro la
infondata (filosoficamente e scientificamente) e nevrotica manipolazione
livellatrice del maschile e del femminile cui si cerca di piegare la cultura
diffusa, agendo sul parlamento e a scuola. Assieme alla mistura di paura e
attrazione verso il papa, a frastornare laicato e clero vi sono, dunque, il
sonno della ragione cattolica, una coscienza di sé ai minimi termini, una
sudditanza all’etica pubblica altrui che – si pensa – sotto papa Bergoglio non
hanno più bisogno di essere dissimulate. In più, mimeticamente dipendenti da
un’opinione pubblica che simula di operare per valori, e pensandosi legittimati
da un papa mediato da quei medesimi “opinion maker”, alcuni laici ed
ecclesiastici con responsabilità su uomini e organizzazioni si trasformano
(secondo una costante della sociologia politica) in “tiranni democratici” verso
i dissenzienti». Una vergogna, via.
«Niente di nuovo, si dirà. Ma nel passato
le sanzioni erano motivate dalla protezione dell’integrità della fede e
dell’istituzione ad essa necessaria. Oggi invece si agita il bastone sotto
l’effetto di formule imposte da una falsificazione secolare del cristianesimo,
come “amore” e “misericordia” contro responsabilità e retto giudizio, come
“vita” contro ragione, come “natura” e “felicità” contro peccato e salvezza,
come “Concilio” contro tradizione cristiana». Insomma, non è il bastone in sé
ad essere il problema: ben venga se si tratta di raddrizzare i gropponi che hanno la
scoliosi, la cifosi o la lordosi eretica, ma randellare chi ha schiena drittissima – eccheccazzo!
lunedì 15 dicembre 2014
Qualità suprema
Occorre
essere giusti con Giuliano Ferrara, riconoscere che ciò che scrive sarà sgradevole,
maleodorante e sudicio quanto si voglia, ma che nell’economia della retorica,
seppur dovendo sottoporre i suoi pezzi a svariati stadi di lavorazione, non se
ne può buttar via niente, e tutto torna utile, fresco o stagionato. Insegnassi
logica formale all’università, userei i suoi editoriali del lunedì, che sono macinato
di prima scelta, per tagliarne fettine sottili da offrire ai miei studenti, per
poi chiedere: «Chi sa dirmi qual è il tipo di porcata che avete testé
assaggiato?», e al primo a dirmi quale, distinguendo tra fallacia e fallacia: «Bravo,
lo terrò presente al momento dell’esame». Sì, riconosco, sarei un docente di quelli d’altri tempi...
Il
pezzo di questo lunedì (C’è un nemico
insidioso della libertà: la suggestione – Il Foglio, 15.12.2014) è il tipico insaccato in legatura a spago,
sgrassato e disossato, compattato da una sfoglia di cotenna. Porcata di pregio,
perché «la suggestione è regina
dell’informazione» e «un certo grado
di manipolazione della notizia, a partire dalla scelta delle cose da raccontare
e analizzare e dall’importanza che si conferisce loro, è inevitabile», e
Giuliano Ferrara non fa alcuna fatica ad ammettere che manipoli, si serva della
suggestione, ma – questo è ciò che rende sopraffino il volgare suino – «faccio un’operazione intellettuale non dico
virtuosa e non dico onesta, ma comprensibile e falsificabile, ragiono come parte,
come soggetto, non pretendo universalità di premesse e conclusioni».
Gli
altri, invece? Chi non la pensa come lui? La risposta è già nel titolo: sono
nemici della libertà, e per giunta lo sono in modo insidioso, salumi adulterati
con sostanze dannose alla salute. Si tratta di quelli che la pensano diversamente
da lui su «femminicidio, guerra, mafia
romana, torture della Cia, pubblica moralità, casta, matrimonio omosessuale,
aborto come diritto, povertà e capitalismo, lavoro e sviluppo economico, e tante
altre cose importanti»: su questi temi lui ricorre ad una «manipolazione razionale», gli altri
alla «suggestione irrazionale». Per
esempio? «Tutti piangono per i bambini uccisi
ma non per quelli abortiti in nome di un diritto. E tutti, salvo eccezioni e
campagne di verità che di tanto in tanto bucano lo schermo suggestivo
universale, si acconciano alle premesse e alle conclusioni di un ceto il cui
unico riferimento è l’inganno irrazionale del pubblico realizzato attraverso l’identificazione
con il pubblico». Equiparare bambini e embrioni sarà «manipolazione razionale», e il diritto di decidere del proprio
corpo e della propria capacità riproduttiva sarà «suggestione irrazionale», come aver dubbi? Porco di qualità
suprema.
Caricaturizzare il giustizialista è un gioco da ragazzi
Caricaturizzare
il giustizialista è un gioco da ragazzi, perché ci sono molti canovacci, e alcuni
hanno la potenza dei classici, tragicamente ridicoli, ridicolmente tragici,
archetipi che sono fatti apposta per vestire i panni del forcaiolo di giornata.
Col garantista è assai più difficile e la questione si pone già sul piano
semantico, perché giustizialismo,
nell’accezione della pretesa a che venga fatta «giustizia rapida, severa, e talvolta sommaria, nei confronti di chi si
è reso colpevole di determinati reati» (Devoto-Oli), rivela nel suo -ismo la stortura di una giustizia
piegata da un cieco impeto in un tremendo vizio, mentre così non è col garantismo, cui l’-ismo dà il carattere di un’oltranza che è in difesa di un
principio sacrosanto, mal distinguibile dall’inclinazione ad essere, sempre e comunque,
«favorevoli a sanatorie e colpi di spugna
generalizzati» (Treccani). Così il giustizialista è maschera che fa la sua
porca figura, a teatro: è ciliosa, biliosa, ha labbra strette, reca lo stampo
di un cruccio perenne che si stempera in un malvagio sorriso di soddisfazione,
sempre spietata, solo quando vede il cappio stringersi al collo del colpevole, anche
quando è solo presunto tale. Il garantista, invece? Qual è la maschera del
tizio che pretende sempre tre gradi di giudizio per dire colpevole chi è colto
in flagrante, e che dinanzi all’intercettazione telefonica nella quale un criminale
si autoaccusa di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice sia
stato lecito, e che riesce sempre a trovare un diritto negato a ogni fetente
della peggior risma, e più fetente è, più sembra andare in brodo di giuggiole a
trovargliene uno da spendersi per garantirglielo? Il giustizialista, si sa, ha un
ghigno obliquo, e un feroce prognatismo, e due solchi scuri che dalla fronte
scendono, divaricandosi lungo le pinne nasali, per stringersi solo un attimo e
aprirsi subito alle commessure labiali e chiudersi, come in un pugno, in un
mento che sembra sempre pronto a contundere. E il garantista – quello che in
ogni giudice vede un boia e in ogni ladro, ogni assassino, ogni stupratore vede
sempre il poveretto massacrato di botte lungo la strada che da Gerusalemme
scende a Gerico, e accorre subito con olio, vino e bende – che faccia ha? Senza dubbio merita anche lui una caricatura, ma quali sono i tratti che la caratterizzano?
domenica 14 dicembre 2014
[...]
Bertinotti
toglie la fiducia a Prodi per tener fede all’etica dei principî contro l’etica
della responsabilità, e Prodi cade, e questo consegna l’Italia a Berlusconi,
previa la parentesi del governo D’Alema, che agli italiani dà l’impressione che
il centrosinistra sia disposto a tutto pur di restare al potere. Ora, lui ha
votato proprio Bertinotti, e l’ha votato perché significava spingere il
centrosinistra verso sinistra. Quando Bertinotti vota per la sfiducia al
governo Prodi, lui ha una folgorazione: ecco la rovina cui conduce la purezza,
e decide che da quel momento in poi guarderà l’impurità con altri occhi, e capisce
che piegarsi è infinitamente più virtuoso e utile che non piegarsi, e sente un
gran senso di sollievo, e sposa l’etica del «che sarà mai?», che è la domanda
che una ragazza solleva tra quanti restano impietriti alla vittoria di
Berlusconi nel ’94, e sposa pure quella ragazza, e adotta la superficialità
come compagna di vita. È il nucleo de Il
desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013), e lui è Francesco Piccolo,
uno che mi è sempre stato sul cazzo, a pelle, perché non sono mai riuscito ad
arrivare in fondo ad uno dei suoi articoli, per la scrittura sciatta, irritante.
Il libro mi è stato regalato, sennò non l’avrei mai letto, e sarebbe stato un
male, perché a leggerlo ho capito cos’è che mi rendeva insopportabile un tizio
della cui scrittura potevo tranquillamente fare a meno. Mi verrebbe voglia di
recuperare quei suoi articoli lasciati a metà, adesso saprei leggerli col
disprezzo necessario per arrivare fino alla fine: Francesco Piccolo è la «pecora tosata» di cui Curzio Malaparte
parla in Maledetti toscani, è l’italiano
che non riesce a pigliarsi cura della propria anima, che rinuncia a «sapersela tenere pulita, all’asciutto, che
non pigli polvere né umido, come sanno [fare quelli] che dell’anima propria son gelosissimi, e guai a chi gliela volesse
sporcare, o umiliare, o ungere, o benedire, o impegnare, affittare, comprare», non
già per la follia di tener fedele all’etica dei principî contro l’etica della
responsabilità, figurarsi, ma per liberarsi dei principî e della
responsabilità col sollievo di quando si ammolla una scoreggia. Uomo dei nostri tempi, senza dubbio.
giovedì 11 dicembre 2014
Non si capisce
All’opinione
largamente prevalente che siano i cosiddetti valori a dare fondamento ad una società
si oppone quella di chi ritiene che essi ne siano solo il prodotto, peraltro
assai tardivo rispetto alla sua fondazione, che dunque deve attribuirsi ad
altro, in primo luogo ai cosiddetti bisogni. Nel primo caso, non è mai
abbastanza chiaro donde vengano, questi valori, né cosa riesca a renderli
fondativi in certi casi e in altri no, cioè cosa sia in grado di renderli
ampiamente condivisi o no, perché almeno una cosa è chiara: alcuni valori assumono
forza nella misura in cui sono assunti come tali a discapito di altri, e non c’è
accordo unanime su quali sarebbero fondativi e quali no, tutto dipende dal tipo
di società che esalta questi e degrada quelli. Tutto è più chiaro col ritenere
che una società li assuma in funzione dell’opinione che ha di se stessa, in
pratica che li produca – se mi è consentito esprimermi con un ossimoro – come moventi a posteriori, rappresentazioni
(non di rado sublimate) di ciò che l’ha resa tale. In quest’ottica i valori
stanno alla società come lo stemma sta a una nobile casata, rivestendo di
simboli la sua origine e i suoi caratteri, ma in fieri.
È chiaro che Giorgio Napolitano propenda per la prima
ipotesi, e questo un po’ stupisce, perché la sua formazione culturale dovrebbe
portarlo a propendere per la seconda. Però stupisce solo un po’, perché la
tradizione di scuola marxista incorre spesso in contraddizione quando distingue
tra struttura e sovrastruttura. Così riusciamo a chiudere un occhio quando
afferma: «Nella prima metà del secolo
scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei
valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce
dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi è, sia
pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del
comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del
rispetto: rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo,
nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di
riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del
Novecento».
È un’analisi che ci attenderemo da un crociano: la storia come
manifestazione di uno spirito immanentizzato, il progresso come sua intrinseca
natura, l’«oscuramento» come
parentesi, come incidente, come transitorio smarrimento di valori che sono
assoluti e non il risultato di ciò che una società elabora in forma di consapevolezza.
Una relazione tra società e valori come quella che sembra suggerirci Giorgio
Napolitano porta inevitabilmente a fraintendere la portata degli eventi che
sono in gioco in una crisi (dando al
termine il significato che assume in ambito scientifico): si fa una madornale
confusione tra cause ed effetti, come appare evidente dalla necessità di dover
ricorrere ad una peraltro non meglio definita «patologia dell’anti-politica» per spiegare – arrivando fin quasi a
giustificare – le colpe della politica.
È di tutta evidenza che un sintomo
venga considerato agente patogeno, ma quello che maggiormente sconcerta,
tuttavia, è il ricorso ad una categoria come quella dell’«anti-politica», che appartiene alla più becera pubblicistica.
Volendo riprendere l’allegoria che qui ci viene proposta, sembra che Giorgio
Napolitano pensi che l’organismo soffra a causa della febbre, senza porsi il
problema di quale microrganismo l’abbia causata, tantomeno afferrando la funzione
che la febbre ha in un organismo affetto da un processo infettivo. Giacché
sarebbe vilipendio del Capo dello Stato anche il semplice sospetto che si sia
bevuto il cervello, si è costretti a pensare che Giorgio Napolitano voglia
continuare a esorbitare dai poteri che contempla la Costituzione, anche agli
sgoccioli del suo mandato, come a lasciare un protocollo d’intesa alle forze
politiche che fanno sistema: liquidare come «patologia
eversiva» ogni momento di critica allo status quo.
Di fatto, dalla crisi sarebbe possibile uscire solo col
recupero di quei valori che sarebbero stati smarriti proprio dai partiti che
fanno sistema. Perché li avrebbero smarriti? Non si sa, a stento ci viene
suggerito il come. Ci sarebbe stato «uno
spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel
passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici
e qualificati. È stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento
morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda,
non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero
e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella
routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni
spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole
compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido
affarismo e sistematica corruzione».
Con tutto quello che ha firmato in
questi ultimi otto anni, Giorgio Napolitano si sente innocente? Ma come si
possono recuperare questi valori? Non si sa, a stento ci viene suggerito che si
dovrebbe «dare nuova vita e capacità
diffusiva a quei valori [con] una
larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le
posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a
sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole
che definiscono il ruolo e il profilo della politica». Come nella premessa
posta all’inizio: donde verrebbero ripresi questi valori? E come potrebbero
essere rivivificati con una riforma delle istituzioni e delle regole che porta quanto
mai lontano dal modello di società che li produsse? Non si capisce.
mercoledì 10 dicembre 2014
[...]
La
scorsa settimana ho commentato un articolo col quale Luigi Manconi perorava la
causa di Bernardo Provenzano, che a quanto pare è in condizioni psicofisiche da
far schifo, e insomma sarebbe incompatibile
col regime carcerario. Bene, pare che Totò Riina non stia meglio: due infarti, Parkinson,
problemi al fegato. Possibile che solo quel fesso di Leoluca Bagarella sia sano
come un pesce?
La simpatia
È
davvero un peccato che Tocqueville decida di rivelarci l’intimità del suo animo
solo in finale di carriera, dopo averci rifilato centinaia e centinaia di
pagine. Lo leggevamo, non è che ci piacesse da morire ma ci sembrava un tipino
sennato, forse un pochino frou-frou, ma insomma sempre meglio di un
Chateaubriand. Ci metteva in guardia dalle derive violente della democrazia, e
chi ama la violenza? Solo i bruti, via. Certo, ci stupiva che non riuscisse a
trovare neanche una attenuante agli effetti collaterali della Rivoluzione – non
è che l’aristocrazia puoi abolirla con un frego di penna, no? – ma ricacciavamo
lo stupore nella simpatia, doveva essersi sporcato la redingote di sangue, poverino.
Poi abbiamo letto quell’appunto e un dubbio ci ha trafitto: ma vuoi vedere che
si trattava solo di uno furbo? Più elegante di un Talleyrand, senza dubbio, e
soprattutto con un visino così pulito, un così bel periodare… No, via, furbo
no. Diciamo che aveva un gran bel garbo.
Com’è
che mi tornava in mente ’sta cosa di Tocqueville? Ah, ecco, mi tornava in mente
leggendo Massimo Adinolfi su Il Mattino:
«C’è qualcuno che vuole provare a
difendere la politica romana, dopo l’inchiesta Mondo di mezzo? Nessuno. Dunque
proviamoci. […] Si tratta di questo: l’inchiesta condotta dai pm romani ha
portato alla luce una fitta trama di illegalità in alcuni settori dell’economia
della capitale, che prospera grazie alla corrotta complicità delle burocrazie
locali, e investe anche esponenti politici di rilievo, secondo responsabilità
che devono essere accertate. È evidente che, posta in termini così asciutti,
non vi sarebbe sufficiente materia per una settimana di titoli da prima pagina,
o per parlare di mafia capitolina, o per evocare il clima di Mani pulite,
secondo l’allarmata testimonianza di Raffaele Cantone, che al Corriere racconta
come gli capiti sempre più spesso che la gente lo fermi per strada e gli chieda
(o forse gli urli): arrestateli tutti. Ma si possono arrestare tutti? O anche: siamo
sicuri che si devono arrestare tutti? Tutti chi, poi? Tutti i politici in
quanto politici? Se parliamo di clima, non v’è dubbio che il clima sia quello,
che il solo fatto di appartenere alla classe politica attira oggi sospetti e
dicerie. […] Ma chi o cosa alimenta questo clima? La corruzione, certo. Il
malaffare: è indubbio. Ma al momento il clima
lo fanno le intercettazioni che finiscono sui giornali. Per carità: decida il
Ministro, decida il Parlamento come e quando intervenire sulla materia, nel
rispetto di tutti gli interessi coinvolti. Ma intanto non è forse un fatto che,
ancora una volta, sulla base di intercettazioni che finiscono nei verbali di
polizia indipendentemente dal loro rilievo investigativo e che vengono sparate
come notizie prima e indipendentemente da qualunque accertamento, si travolge
un’intera classe politica […]? […] Ma non è solo una questione di civiltà o di
garanzie giuridiche […] No: la domanda più spregiudicata, ma necessaria, è la
seguente: conviene? O forse, più precisamente: a chi conviene? A chi conviene
questo bagno di sangue, questo lavacro purificatore, questa continua
drammatizzazione mediatica e, suo tramite, la messa in stato d’accusa di
un’intera classe politica? Al Paese non conviene».
Un
gran bel garbo, no? E poi che c’è di più raccapricciante del Terrore? Leggevo e
mi dicevo: «Bravo, Adinolfi!». Poi m’è tornato in mente l’appunto di
Tocqueville. E allora mi son detto: «Bravo, ma pure furbo?». No, via, impossibile. Niente da fare, è la simpatia che mi fotte.
lunedì 8 dicembre 2014
Mondo di mezzo
Lo stampo è un arnese che serve a imprimere una
data forma a un materiale e perché ciò si realizzi occorre che il materiale
abbia natura congrua a prendere e a conservare la forma che lo stampo gli
imprime. A me pare che un’associazione per delinquere sia materiale di per se
stesso congruo a poter prendere e conservare la forma che può darle lo stampo
dell’organizzazione mafiosa, basta aderisca in modo stabile ai tratti
distintivi che caratterizzano lo stampo. Penso pure che l’art. 416 bis del
Codice Penale dia una esauriente descrizione della forma che dobbiamo
attenderci da una congrua azione dello stampo sul materiale: «L’associazione è di tipo mafioso quando
coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo
associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o
comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero
esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di
consultazioni elettorali».
Bene, dopo aver letto le 1.228 pagine dell’Ordinanza di applicazione delle misure
cautelari emessa dal gip a carico degli indagati nell’ambito dell’operazione
che i media hanno battezzato Mafia Capitale, a me pare di poter concludere che l’associazione,
di cui Massimo Carminati era senza alcun dubbio il capo, fosse senza dubbio
associazione per delinquere, e altrettanto senza dubbio rispondesse ai tratti
della forma che è descritta dall’art. 416 bis: lo stampo mafioso è
riconoscibile senza possibilità di errore dalle conversazioni tra i componenti
dell’organizzazione, che in pratica con esse si autoaccusano di quel reato.
Al mio lettore non sarà sfuggita l’insistita
ricorrenza del termine congruo nel
primo capoverso di questo post. Non è casuale, perché congruo significa proporzionato,
ma soprattutto corrispondente: ho
scelto questo termine perché mi pare che a stroncare i poverissimi argomenti di
chi anche in questo caso mette in discussione l’ipotesi d’accusa – dalle
indagini non emergerebbe alcuna traccia di coppole o di lupare, né alcuno degli
indagati si esprimerebbe in dialetto siciliano – sia la semplice considerazione
che a rendere efficace uno stampo basti la riproduzione di una forma nei suoi
tratti salienti, che sono tali se immediatamente corrispondenti a quella forma che lo stampo imprime conservandone
le proporzioni. Se «le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso», non c’è bisogno d’altro perché il capo d’accusa trovi fattispecie nell’art. 416 bis. Tutt’al più sarà necessario trovare un nome alla forma che lo stampo ha riprodotto a Roma e a me pare che il più adatto sia quello di Mondo di mezzo.
Si tratta dell’espressione con la quale Massimo Carminati descrive struttura, modalità e funzione dell’organizzazione di cui è a capo nella conversazione che l’11 gennaio 2013 ha con Riccardo Brugia e Cristiano Guarnera (n° 1.710) e che, contrariamente a quanto qualcuno ha scritto nel tentativo di dare una intrigante caratura culturale al clan, non ha alcuna attinenza alla Midgard di Tolkien. Che alcuni membri dell’organizzazione criminale abbiano avuto un passato di militanza nella destra eversiva è fuor di dubbio, ma credere che il nucleo fondativo della banda possa aver avuto un pur aleatorio profilo ideologico, e che a ispirare la teoria del Mondo di mezzo esposta da Massimo Carminati a Riccardo Brugia possano essere siano le suggestioni ricavate da un autore di culto della destra, è da idiota, e pensare di poterlo far credere è da pataccaro.
domenica 7 dicembre 2014
venerdì 5 dicembre 2014
D’un bel 625 KB cadauna
Non
metto il link per risparmiarvi la pubblicità di un preservativo che si piglia
un terzo della pagina, il banner sotto la testata sul quale scorrono i prezzi
di caffè, prosecco e detersivo distribuiti da un ipermercato e il pop-up che
reclamizza una società di spedizioni, che è quello che dà il maggior fastidio
perché bisogna chiuderlo due volte ogni dieci secondi, però volevo segnalarvi
lo stesso Le foto di Ignazio Marino e Salvatore Buzzi, un articolo col quale Il
Post di Luca Sofri conferma il suo apparentamento ai rotocalchi che ci
informano di che colore siano i calzini dei magistrati che rovinano l’appetito
all’editore. Fedele alla bottega di Giuliano Ferrara, presso cui il babbo lo
sistemò perché apprendesse i rudimenti del mestiere, Sofri il Giovane corre in
soccorso di un uomo del «capo», l’iperrenziano Giuliano Poletti, che una foto
ci ha mostrato attovagliato con un bel crocchio di indagati di Mafia Capitale,
pubblicando alcune foto che mostrano Marino in compagnia di Buzzi.
Si
sa che Giotto superò Cimabue, dunque non c’è da stupirsi che Ferrara si sarebbe
limitato a scrivere: «Vedete? Essere fotografati assieme a un brutto ceffo non
vuol dire sapere dei suoi affari o esserne socio», sennò, giusto per farci
trasalire, il che lo eccita tanto: «L’arte del buongoverno è sempre un poco
zozza, c’è da rivalutare Marino», mentre l’allievo va ben oltre, si vede che ha imparato il tratto ma lo
risolve in nuance, e con riferimento a quanto Marino ha detto giovedì sera a
Ottoemezzo: «O il sindaco di Roma ha mentito, come dicono oggi i
quotidiani, o ha fatto un’esposizione un po’ confusa».
Ma
che ha detto, Marino? Alla domanda se avesse mai avuto sospetti su ciò
che andava combinando Buzzi, ha risposto: «Non ho neanche avuto mai
conversazioni…». Eppure le foto rivelano che gli ha parlato, quindi mente,
oppure voleva dire che dal poco che aveva potuto capire, per quel poco che gli aveva
parlato, mai avrebbe pensato… D’altronde, ha ammesso di essere «stato anche
molto tempo a visitare la cooperativa»: non è scontato che ad accoglierlo vi
fosse chi ne era responsabile? Di fatto, Marino non ha detto di non aver mai
incontrato Buzzi. E tuttavia, delle due, una: o mente o ha problemi con la
lingua italiana, e tra le due, bontà sua, Sofri è disposto a concedere sia la
seconda.
Articolo in apparenza inutile, dunque, se non in difesa del lessico, di cui solitamente Il Post fa scempio, ma in realtà bon pendant di quello che riporta l’autodifesa di Poletti (la sua lettera a la Repubblica in risposta alla questione sollevata da Roberto Saviano). In quanto alla foto della cena cui partecipò il signor ministro, inutile cercare, Il Post non la riporta. Né riporta quelle che almeno in altre due occasioni ritraggono Buzzi e Poletti insieme. Solo le foto in cui con Buzzi c’è Marino, e in una pagina senza pop-up, d’un bel 625 KB cadauna.
Articolo in apparenza inutile, dunque, se non in difesa del lessico, di cui solitamente Il Post fa scempio, ma in realtà bon pendant di quello che riporta l’autodifesa di Poletti (la sua lettera a la Repubblica in risposta alla questione sollevata da Roberto Saviano). In quanto alla foto della cena cui partecipò il signor ministro, inutile cercare, Il Post non la riporta. Né riporta quelle che almeno in altre due occasioni ritraggono Buzzi e Poletti insieme. Solo le foto in cui con Buzzi c’è Marino, e in una pagina senza pop-up, d’un bel 625 KB cadauna.
Er Cecato e la cecataggine
Lirio
Abbate ci rammenta che un tempo, in Sicilia, politici, procure, preti e
popolino negavano l’esistenza della mafia (Anno
Uno – La7, 4.12.2014). Negarne l’esistenza
sarà stato senza dubbio farle un favore, ma questo accadeva intenzionalmente? In
qualche caso, sì, d’altronde a negarne l’esistenza erano innanzitutto padrini e
picciotti, tuttavia non è difficile immaginare cosa spingesse tanti a definirla
un’invenzione letteraria: la mafia in Sicilia era un sistema che in parte si
sovrapponeva allo stato e in parte lo vicariava, sicché riconoscerla come
entità criminale avrebbe assunto di fatto una valenza eversiva. Accadeva, così,
che chiunque cadesse vittima della mafia, quando non potesse esser dato morto
ammazzato per questioni di corna, fosse considerato, ancorché tacitamente, uno
che non sapesse stare al mondo: era morto per questioni esistenziali, per non
aver voluto accettare la realtà per quello che non c’era altro modo di
immaginare potesse essere. Rigettare le regole di una società che la mafia
aveva costruito per secoli a sua misura era un torto imperdonabile, ben oltre l’essere
d’intralcio agli affari di Cosa Nostra: era un mettere in discussione la stessa
idea di potere, così come venutasi a costruire nell’intreccio tra stato e
mafia. Si negava l’esistenza della mafia per negare quell’intreccio, e a
negarlo erano sia quelli che consentivano vi fosse, sia quelli che non lo
vedevano perché del potere avevano un’idea sostanzialmente analoga a quella
mafiosa, quella della violenza istituzionalizzata, del diritto degradato a
favore, del privilegio esaltato a diritto, del cittadino corrotto a cliente o a
famiglio, dell’amministratore come feudatario.
Ci
sono voluti decenni, e molti morti per disagio esistenziale, ma che la mafia
sia esistita e ancora esista lo sappiamo, e sappiamo come vive, come pensa,
come agisce. Dopo aver sventato la tentazione di concepirla come entità
metafisica, sappiamo come nasce, come cresce e come si riproduce. Dopo averla
vista all’opera, e dopo alcuni tragici travisamenti della sua più intima natura,
sappiamo cosa le dia forza e cosa gliela tolga. Con ciò è venuta a costruirsi,
indagine dopo indagine, processo dopo processo, una vera e propria scienza
delle cose mafiose. Fallibile come ogni scienza, ovviamente, e come ogni
scienza in grado di correggere i propri errori.
Non più connaturata alla sicilianità, come si voleva col confondere storia e destino. Né più questione di teodicea, come si voleva col ritenerla trascendente nel vederne gli stampi fuori dalla Sicilia. Patologia sociale, con tanto di etiogenesi e patogenesi, con terapie assai valide, se correttamente applicate, e a partire da una diagnosi accurata, possibilmente precoce, senza dimenticare l’indispensabile ruolo della prevenzione e della profilassi. Lavoro duro, ma almeno sembrano finiti i tempi in cui la peste sembrava dovuta alla congiunzione di Giove con Saturno. Abbiamo perfino qualche vaccino. Superfluo dire che la lotta durerà ancora a lungo, ma a farcela perdere può essere solo il non vedere la mafia dov’è, sottovalutarne il pericolo, lasciare che la papula diventi bubbone.
Non più connaturata alla sicilianità, come si voleva col confondere storia e destino. Né più questione di teodicea, come si voleva col ritenerla trascendente nel vederne gli stampi fuori dalla Sicilia. Patologia sociale, con tanto di etiogenesi e patogenesi, con terapie assai valide, se correttamente applicate, e a partire da una diagnosi accurata, possibilmente precoce, senza dimenticare l’indispensabile ruolo della prevenzione e della profilassi. Lavoro duro, ma almeno sembrano finiti i tempi in cui la peste sembrava dovuta alla congiunzione di Giove con Saturno. Abbiamo perfino qualche vaccino. Superfluo dire che la lotta durerà ancora a lungo, ma a farcela perdere può essere solo il non vedere la mafia dov’è, sottovalutarne il pericolo, lasciare che la papula diventi bubbone.
In tal senso occorre denunciare come pericolo pubblico
chi si spende nel liquidare come inutile allarmismo il solerte intervento su un
focolaio. Non sarà untore, ma al pari dei politici, delle procure, dei preti e del
popolino che decenni fa in Sicilia negavano l’esistenza della mafia – de facto –
lavora perché la peste diventi endemica. «Secondo
me – dice – questa storia della
cupola mafiosa a Roma è una bufala… Forse tutto questo è abbastanza per una delle
solite retate nel mondo del delitto, ma non è un po’ poco per definire il
contenuto di un patto mafioso corruttivo nella capitale del paese?... Niente è
più credibile a Roma, città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora
indagano su di essa, di una rete di piccola e media criminalità che si avvale
di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano.
Ma è allo stato delle cose totalmente incredibile la surrealtà di una cupola mafiosa,
sia pure in forma originale, che si sia impossessata della città per realizzare
fini di guida e orientamento politico della sua vita amministrativa nei modi e
nelle forme che sono suggeriti dal linguaggio delle intercettazioni e dalla sua
elaborazione nelle notizie relative all’inchiesta... Quella che vi stanno dando
non è informazione su un’associazione delinquenziale ma una coglionatura
ideologica per creduloni. » (Il Foglio,
4.12.1204).
È il fisiologico rosicchiar di topi dove c’è formaggio, insomma, e
si tratta di topi che ruggiscono come leoni, ma topi restano, e chi gli corre
appresso è un esaltato con la fissa dei safari. Er Cecato avrà un avvocato, ma
pure la cecataggine ne ha uno. Sì, il morto ha un sasso in bocca, ma era un fimminaro e l’avrà fatto fuori un marito
cornuto.
martedì 2 dicembre 2014
Savastano
Nella
penultima puntata di Gomorra, la
serie televisiva andata in onda tra maggio e giugno su Sky Atlantic, don Pietro Savastano, al 41 bis da anni, è ridotto ad
una larva umana: un volto totalmente inespressivo, un grave stato di
decadimento psicofisico, un severo deficit cognitivo con patente azzeramento
delle facoltà emotive, non riconosce i familiari, non parla, cammina solo se
sostenuto dalle guardie carcerarie, insomma, è solo l’ombra esangue dello
spietato boss che ha costruito un immenso impero economico grazie ad ogni
genere di attività criminale.
Cosa sopravvive della bestia sanguinaria in quell’omone
catatonico? Nulla, si direbbe, e dunque, quando arriva la revoca del 41 bis,
nell’ultima puntata, il telespettatore può ritenere ingiusto il provvedimento? Solo
se gli manca la cultura dello stato di diritto, che tutti sanno cosa sia, ma non
sarà superflua una ripassatina: «La superiorità
giuridica dello stato di diritto consiste in questo: nel fatto di essere
indipendente da chi lo combatte così nella elaborazione delle leggi come
nell’esecuzione delle pene. Di conseguenza l’amministrazione della giustizia
non si fa influenzare da chi rappresenta la negazione assoluta dei principi che
ispirano il sistema democratico, non ne adotta i metodi e non ne assume – mai –
la ferocia. Se Provenzano venisse sottratto a una carcerazione incompatibile
con il suo stato di salute, ciò costituirebbe una vittoria dello stato di diritto
e il vecchio boss sarebbe restituito alla sua attuale e più autentica dimensione:
quella di un “simbolo del male” ormai completamente vuoto e ridotto a un consunto
simulacro del passato». Così
Luigi Manconi (Il Foglio, 2.12.2014),
e basta mettere Savastano al posto di
Provenzano per ritornare alla trama
della serie televisiva: arriva la revoca del 41 bis e questo consente al clan
di far evadere il boss, che in un battibaleno ripiglia il colorito dei bei
tempi andati, promessa di una seconda serie, la prossima stagione.
Meno male
che solo nelle fiction le perizie mediche possono essere fatte a cazzo di cane
e che in Gomorra non c’è un Luigi
Manconi al quale rinfacciare i morti delle prossime dodici puntate, fra i quali non è escluso possa esservi lo stesso Savastano.
lunedì 1 dicembre 2014
[...]
Nella
lettera dedicatoria «al molto illustre e
valoroso signore il signor Giovanni de’ Medici» (meglio noto come Giovanni
delle Bande Nere) che Matteo Bandello fa precedere alla novella Messer Cocco e Domicilla si sfotte, e di brutto, «il nostro ingegnoso messer Niccolò
Macchiavelli» per aver dato prova, a sue spese, di «quanta differenza sia da chi sa, e non ha messo in opera ciò che sa, da
quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani in pasta e dedutto il
pensiero e concetto de l’animo suo in opera esteriore», a illustrare che «sempre il pratico et essercitato con minor
fatica opererà che non farà l’inesperto, essendo l’esperienza maestra de le
cose, di modo che anco s’è veduto alcuna volta una persona senza scienza, ma
lungamente essercitata in qualche mestieri, saperlo molto meglio fare che non
saperà uno in quell’arte dotto ma non esperimentato»: era l’estate del 1526
e nei pressi di Milano «messer Niccolò
quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti
secondo quell’ordine che aveva scritto [nel suo Libro de la arte della guerra],
e mai non gli venne fatto di potergli ordinare», e «tuttavia egli ne parlava sì bene e sì chiaramente, e con le parole sue
mostrava la cosa esser fuor di modo sì facile, che io che nulla ne so mi
credeva di leggero, le sue ragioni e discorsi udendo, aver potuto quella
fanteria ordinare», fino a quando, «veggendo
che messer Niccolò non era per fornirla così tosto», «detto[gli] […] che si
ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini
ordinaste a quella gente in varii modi e forme, con ammirazione grandissima di
chi vi si ritrovò». Ennesima avvilente conferma – vi accennavo qualche
settimana fa – della «distanza che c’è
tra studio e mestiere [sicché] si
vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto
vero, anzi, […] sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana
evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche
profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza» (Malvino, 16.11.2014). Di questo mio
sconforto relativo al fatto che «è nella
più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni
di ciò che è da evitare», piuttosto che da seguire, si stupiva un lettore
(Romeo Sciommeri), il quale mi faceva presente che «di solito si scommette sulla grossolanità della scienza sociale
rispetto alla complessità del suo oggetto di studio»: in pratica, dovremmo
concludere che sia impossibile una qualsivoglia scienza sociale, con ciò dando
per scontato che le scienze sociali siano inassimilabili alle scienze naturali.
Per sostanziale differenza dell’oggetto o per inapplicabilità dello stesso
metodo? Torno un attimo al post cui ho fatto cenno prima, al punto in cui
liquido la questione – in verità, con una soluzione di comodo – scrivendo che «è nella più perfetta scienza politica che
la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché
il miglior daffare raramente è un ottimo affare». Possiamo farcelo bastare
per concludere che quanto la scienza dà come ottimo non è mai tale rispetto a
ciò che l’arte giudica migliore? E in cosa, allora, l’arte del governare
risulta sempre vittoriosa sulla scienza politica? In altri termini – per riprendere
quelli che usavo qualche settimana fa – se «non
si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua
scienza», bisogna dedurre che non c’è alcuna relazione tra l’arte di far
soldi e le teorie economiche? Ancora: com’è possibile che il consenso si
guadagni così spesso contro ogni ragione?
Lo scienziato della politica risponde che il rapporto tra teoria e fatti
diventa tanto più labile quanto più i fatti si carichino di intenzionalità, per
l’essere azioni di cui sono titolari individui o gruppi, e che è proprio questo
fattore a determinare quel contesto policondizionale in cui viene a perdersi la
prevedibilità che è propria del sistema entro il quale i fatti provano la
correttezza di una teoria; in più, ci dice che, per la loro natura, essi sono
ambigui, dunque difficilmente comprensibili, sia quando siano causa di ciò che
si è chiamati a prevedere, sia quando siano effetto che sembra smentire la previsione.
Resta la questione che avevamo lasciato aperta nei pressi di Milano nell’estate
del 1526: Giovanni delle Bande Nere la chiude sistemando le truppe dove Dio comanda e
invitando Machiavelli a pranzo, dove lo prega «che con una de le sue piacevoli novelle ci volesse ricreare».
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