Ricevo molti inviti a commentare l’ennesimo bubbone pedofilo apertosi sulla già butterata faccia della Chiesa d’Irlanda. E che potrei dire di nuovo? È ormai diventato penoso occuparsi dei problemi che assillano la Santa Baracca da quando è in mano a Benedetto XVI, viene solo da chiedersi con quale faccia tosta Sua Santità riesca ancora ad affacciarsi al suo balcone per dispensare moniti e consigli al mondo, senza temere che da sotto qualcuno gli urli: “Ma pensa alla merda che ti arriva fino al collo!”. Scandali di ogni genere, finanze a cazzo di cane, faide tra le alte gerarchie, curia ingovernabile, vocazioni neanche a parlarne, figuracce un giorno sì e un giorno no, ma Zia Pina imperterrita si ostina a dettar legge all’universo invece che pensare a dare una ripulitina in casa.
martedì 26 luglio 2011
Quel Dario Ferri è proprio un ingenuone
Niente da fare. Ho cercato di risparmiare una figuraccia ai miei amici di Giornalettismo, ma non sono arrivato in tempo: l’articolo era già in pagina. È che quel Dario Ferri è proprio un ingenuone: legge l’elogio che Anders Breivik fa di Vlad l’Impalatore, il principe valacco passato alla leggenda col nome di Dracula, e butta giù le sue candide venti righe di sdegno, senza dubbio con l’intento di solleticare il delicato ventre del lettore. Sciocchino. Valga per tutto ciò che il terrorista norvegese ha scritto in quel librone: in modo meno scandaloso l’ha scritto pure Il Foglio, fatta eccezione per la ricetta dell’esplosivo.
Vlad l’Impalatore? Certo, un mostro, senza dubbio, ma come scrive Breivik – e come ha scritto pure Il Foglio – “un genio”.
Detto da un terrorista, certo, fa impressione, ma non bisogna farsi condizionare dai pregiudizi, caro Dario: detto da Il Foglio è tutta un’altra cosa.
Depistaggi
“Il killer che ha insanguinato la Norvegia è semplicemente un folle”, dice Giulio Meotti. Non mi sembra un depistaggio intelligente, peraltro molte delle pagine scritte da Anders Breivik sembrano copiate da Il Foglio: la crisi demografica che mina l’occidente, l’Europa che diventa sempre più Eurabia, il relativismo etico che ci rende deboli, il multiculturalismo che mortifica le nostre radici giudaico-cristiane, il politicamente corretto e il buonismo che ci rammolliscono, perfino che l’aborto dovrebbe essere vietato, che la pillola e gli altri metodi contraccettivi dovrebbero essere severamente limitati, che l’educazione sessuale nelle scuole dovrebbe essere abolita. Si sfoglia il librone del killer e non stupirebbe il trovarci una letterina di Luigi Amicone o un’analisi di Carlo Panella, ma Meotti pensa di potersela cavare con: “È semplicemente un folle”.
Non solo: “Assegnare all’assassino norvegese patenti intellettuali – dice – è una paranoia giornalistica”. “Paranoia giornalistica”? Se è “paranoia giornalistica” trovare, e dunque segnalare, strabilianti concordanze tra la follia di Breivik e le battaglie culturali di certi intellettualoni del calibro di Roger Scruton e di Oriana Fallaci, peraltro molto cari al killer ma pure a Il Foglio, che definizione vogliamo dare al titolo che sulla prima pagina de Il Foglio di sabato 23 luglio recitava “Oslo sotto attacco ricorda che al Qaida ce l’ha con la Norvegia” (sottotitolo: “La pista nordica e il Mullah”)? Giornalismo d’inchiesta?
No, il depistaggio di Meotti è una fetecchia. Direi che Massimo Introvigne ne abbia confezionato uno assai migliore per mettere in ombra la matrice cristianista di Breivik: dice che è “massone”, e sì, cristiano forse, ma “cristiano culturale”, d’un cristianesimo più “pagano” che protestante o cattolico. Breivik “vaneggia”, certo, ma Introvigne è costretto a concedere che c’è un metodo in quel vaneggiare, perfino un sistema, e con grande abilità mette in risalto tutto ciò che lo fa marginale a un’area culturale della quale è senza dubbio figlio, perché è naturale che oggi imbarazzi la famiglia. “Matrice cristianista”, dicevo, e naturalemente devo spiegare cosa intendo dire col termine cristianista. Ricorrerò alla definizione che ne ha dato chi coniò il termine, il vaticanista Lucio Brunelli, giusto dieci anni fa: “Un nuovo genere di cristiani s’aggira per l’Europa. Sono i cristianisti. Ne circolano varie specie, alcuni indossano la tonaca, altri giacca e cravatta. C’è la versione aristocratica e quella scapigliata. Ma in comune tutti i cristianisti hanno il piglio del cattolico da combattimento. Basta chiacchiere ecumeniche, occorre un’identità forte. Si sentono minoranza. Ma non calano le brache, loro. In politica stanno di preferenza col centrodestra, in economia sono ultraliberisti, a livello internazionale, ferventi americanisti. E fin qui di anticonformismo non sembrerebbe essercene molto. Ma la vera novità dei cristianisti non è la scelta dello schieramento. È il pathos che ci mettono. Lo spirito di militanza. E soprattutto la forte motivazione ideologico-religiosa. Dalla teologia dell’unicità di Cristo Salvatore discende senza dubbi un atteggiamento belligerante verso l’Islam. Dalla critica ortodossa del pelagianesimo viene l’accusa sprezzante a quei cristiani che si dedicano prevalentemente alle iniziative sociali in favore degli ultimi. Dalla denuncia dell’irenismo teologico si arriva all’entusiasmo (non solo approvazione, ma entusiasmo) per le spedizioni militari alleate. Tutte queste caratteristiche sono l’essenza del perfetto cristianista. Fenomeno nuovo, senza dubbio, almeno relativamente agli ultimi anni. Minoritario ma non quanto si crede, perché si innesta (estremizzandole) in tendenze dottrinali e politiche che trovano spazio anche in alcuni settori della gerarchia ecclesiastica” (Vita, 26.10.2001).
E Breivik? Si definisce “cultural conservative, revolutionary conservative, Vienna school of thought, economically liberal, christian, protestant but I support a reformation of protestantism leading to it being absorbed by catholicism”. Così lontano dai teocon de noantri?
“Trovare una spiegazione alla strage di Anders Breivik – dice Meotti – non è semplice. Ma liquidare l’eccidio con l’emergenza legata all’islam in Europa, a letture massonico-templari bellicose, al pericolo della critica multiculturale, dare patenti intellettuali a un claustrofobico sanguinario come Breivik, è solo una forma di paranoia intellettuale”. A me pare che la paranoia intellettuale stia nella negazione e nella proiezione alle quali Meotti è costretto a ricorrere per non guardare nello specchio un fratello appena un po’ più svitato di lui.
“L’assassino norvegese – dice – non ha falciato cento musulmani in una moschea di Oslo. Non voleva scatenare una guerra etnico-religiosa. Era animato dall’odio di sé, voleva deturpare il volto della società in cui ha vissuto e che lo ha partorito”. E Il Foglio, invece, cosa fa? In coerenza con la sua islamofobia va a braccetto con Borghezio a spargere urine di maiale dove dovrebbe sorgere una moschea? No, si limita a sparare sui “nemici interni”: le donne che prendono la pillola e che abortiscono, i gay e le coppie di fatto che vorrebbero indebolire il sacro pilastro del matrimonio tradizionale, i credenti che sono in favore dell’accoglienza degli immigrati, ecc.
“Il dato interessante – dice Meotti – è la Norvegia, che si era illusa, dopo la guerra e in un’epoca di intensi conflitti ideologico-religiosi, di aver debellato per sempre l’intolleranza, la prevaricazione politica, l’odio, il terrore. Un paese che svettava da anni negli indici di felicità mondiali e che aveva costruito un modello ideale di welfare, solidarietà e accoglienza”. E qui bisogna constatare che la scemenza di Magdi Allam è contagiosa: anche per Meotti, Breivik è la prova provata che la tolleranza non funziona con chi è intenzionato a dimostrare che non funziona. È che dalla Norvegia le notizie arrivano sempre con molto ritardo in Lungotevere Raffaello Sanzio: i norvegesi non sembrano intenzionati a farsi condizionare da tipi come Breivik, e da ciò che i loro atti di terrore dovrebbero convincere la Norvegia, il loro modello di società non cederà all’intolleranza.
E dunque, sì, “il killer di Utoya è soltanto un cretino apocalittico”, ma pure Meotti non scherza.
lunedì 25 luglio 2011
Coincidenze
Dal sito di Tempi, la rivista diretta da Luigi Amicone, è scomparso il Manifesto dei Cristianisti del 2001. Un manifesto assai simile (Per l’occidente, forza di civiltà), scritto da Marcello Pera & c. nel 2006, è scomparso dal sito della Fondazione Magna Carta. Coincidenze, senza dubbio.
Ammettiamolo
“Ammettiamolo: in un primo tempo quando la pista islamica sembrava avvalorata, tutti ci sentivamo come rincuorati, probabilmente perché condividiamo la consapevolezza che questo genere di odiosi crimini contro l’umanità appartiene quasi naturalmente a dei fanatici votati a imporre con la forza ovunque nel mondo la sottomissione ad Allah e la devozione a Maometto. Mentre quando è stato arrestato e abbiamo visto il volto di un norvegese che sulla propria pagina di Facebook si presenta come «conservatore, di fede cristiana…», siamo stati come colti dal panico”
Magdi Allam, il Giornale, 24.7.2011
domenica 24 luglio 2011
Più coerente di Marcello Pera
Anni fa, per gioco, spacciai per carte inedite di Karol Wojtyla (Giovanni Paolo II) alcuni brani tratti dal manifesto ideologico di Theodor Kaczinsky (Unabomber). Era un espediente per mettere in risalto molti dei punti in comune tra le opinioni dei due su modernità, progresso scientifico, multiculturalismo, ecc. Oggi, facendo un gioco analogo, potrei proporvi stralci del manifesto ideologico di Anders Behrin Breivik insieme a scritti di Oriana Fallaci, di Carlo Panella o di Magdi Allam, a brani tratti da una lectio di Marcello Pera, da un libro di Massimo Introvigne o da un paginone di Giulio Meotti, a frasi prese da certi blog cristianisti: sono certo che trovereste enorme difficoltà nella corretta attribuzione.
È che in Breivik si trova il distillato di tutta l’isteria di chi sente l’occidente sotto assedio, con l’islam che preme all’esterno e lentamente penetra, e un sacco di nemici interni: il liberalismo, il multiculturalismo, il relativismo etico, il politicamente corretto, l’Onu, Bruxelles, i froci, le femministe, il preservativo e il cardinale Tettamanzi.
Sono solo a pag. 363 delle 1.518 lasciate on line da Breivik un’ora e mezza prima di andare in missione per conto di Dio, in difesa dell’occidente cristiano. So bene che, andando avanti, arriverò al punto in cui, messa da parte la sua analisi, Breivik passerà alle istruzioni su come si confeziona un’autobomba: sarà interessante vedere cosa lo trasforma, da penna degna della Fondazione Magna Carta o del Cesnur o de Il Foglio, in fanatico sanguinario...
Non resisto, mi fermo a pag. 392 di An European Declaration of Independence e vado in fondo, risalendo a ritroso. A pag. 1.324 e segg. (Christian justification of the struggle) trovo tutta la santabarbara del cristianesimo: Antico Testamento, Luca, Matteo, gli Atti degli Apostoli, perfino il Catechismo della Chiesa Cattolica...
Ma “would Pope Benedict XVI take the initiative for launching a new crusade? Not likely. [...] Pope Benedict, as his most recent predecessors, have failed to identify multiculturalism as an anti-European hate ideology championed as an instrument for unilaterally dismantling European Christendom. As of now, no Pope have even attempted to reach out to all European military leaders and demand action against the cultural marxist/multiculturalist élites who have implemented given ideology. Pope Benedict has a responsibility to act against the deliberate and systematical annihilation of European Christendom. Yet he has not even tried to do anything of significance. When we, the cultural conservatives of Europe seize power in approximately 5-7 decades, we will take the necessary steps to eradicate the corruption which is continuing to plague the Church” (pagg. 1.326-1.327). A suo modo, più coerente di Marcello Pera.
*
Copyranter pone a Matt una domanda retorica.
Lei ti ama
Nessuno può importi un trattamento medico indesiderato, anche se questo fosse indispensabile a salvarti la vita, e nessuno può forzarti a mangiare e a bere, se hai deciso di lasciarti morire di fame o di sete. Tuttavia questo diritto ti è concesso solo fino a quando avrai la possibilità di opporre una resistenza attiva all’amore di Assuntina Morresi, la quale non ritiene giusto che tu possa disporre di te stesso in tal senso se cadi in coma vegetativo permanente. Lì perdi ogni libertà di scelta e ogni tua disposizione testamentaria lasciata per tempo dal notaio è carta straccia: lei ti ama, ti ha sempre amato, e lì più nulla le impedisce di dimostrarti quanto.
Può farlo? Non ancora, ma manca poco all’approvazione di una legge che, se avrai la gentilezza di cadere in coma vegetativo permanente, le darà modo di farti capire quanto ti ama. Non puoi immaginare quanto frema nell’attesa, però puoi fartene un’idea leggendo l’editoriale a sua firma che ieri apriva Avvenire: “La legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento deve ancora essere definitivamente approvata al Senato, dopo le modifiche apportate dalla Camera dei deputati, e c’è già chi ha annunciato un referendum per abrogarla. Addirittura, qualcuno fra i più zelanti nemici della legge ha dichiarato la propria mobilitazione preventiva fin da questa settimana per raccogliere le firme, come se le consultazioni popolari si potessero svolgere su norme non ancora in vigore: basterebbe questo per dare l’idea della carica ideologica che c’è dietro certe posizioni sedicenti liberali”.
Lei non vede l’ora di poterti dimostrare quanto ti ama, ma c’è già chi vorrebbe impedirglielo con la scusa che l’81% degli italiani è favorevole a un testamento biologico che consenta il rifiuto dell’alimentazione forzata e addirittura il 64% è favorevole al diritto di eutanasia (Eurispes). Eppure “questa sulle Dat è una delle leggi più condivise della legislatura, approvata, in entrambi i rami del Parlamento, da ampie maggioranze trasversali, quasi sempre con voto segreto, a garanzia della libertà di coscienza dei singoli parlamentari”, e allora com’è possibile? Sarà mica che questo Parlamento è “lontano dal sentire comune della gente”?
Non regge, non per Assuntina Morresi: “In democrazia il Parlamento, di solito, per quanto eletto male, esprime e rispecchia la volontà popolare”. E i referendum sull’aborto, allora, perché fu indetto? Non c’era anche lei tra quanti ritenevano che si dovesse abrogare una legge regolarmente approvata da entrambi i rami del Parlamento? Boh, sarà che col Porcellum il Parlamento riesce meglio che un tempo e che il legiferare ne risente. Lo dimostrerebbe il fatto che la legge che impone l’alimentazione forzata anche a chi non voglia è “un presidio di giustizia e di civiltà, di rispetto e – lo diciamo con pudore – di amore”. Parola di Assuntina Morresi, che – pur timidamente – t’ama. Aspetta che tu stia lì immobile e incosciente per sfrenarsi.
sabato 23 luglio 2011
[...]
Ritengo insussistente la polemica della quale sono stati fatto oggetto i sei deputati radicali in relazione al loro sì all’arresto di Alfonso Papa: non c’è alcuna contraddizione tra l’essere contrari alla carcerazione in attesa di giudizio, considerandola ingiusta, e ritenere che all’ingiustizia non ci si possa sottrarre in forza di un privilegio. Per chi, come i radicali, è convinto che la legge ingiusta debba essere rispettata fino a quando non sia abrogata (sennò violata, quando materialmente possibile, ma autodenunciandosi, per sollecitarne la messa in discussione), non c’è affatto incoerenza tra la lotta per fare uscire dalle carceri italiane 15.000 individui che ancora non hanno subito una condanna e il voto in favore di un eguale trattamento per un deputato, loro pari, che, a parità di condizioni con chi è in carcere in attesa di giudizio, cerca di evitare di subire uguale trattamento. Non è solo in ossequio ad una mera questione di uguaglianza di tutti gli individui davanti alla legge, che pure non è da ritenere irrilevante, ma è soprattutto – almeno per i radicali – nel rispetto della coincidenza di forma e sostanza del diritto. Ogni rilievo critico rivolto in questi giorni ai sei, dunque, muove nella migliore delle ipotesi da un deficit di cultura del diritto.
L’intolleranza è intolleranza, e i morti sono tutti uguali
Pare che quanto è accaduto in Norvegia non sia da attribuire a fondamentalisti islamici. Già pronti, ieri sera, a tirar fuori i soliti arnesi propagandistici, i neocon de noantri sono visibilmente stizziti: con l’islam che ci aggredisce perché abbiamo tradito le nostre radici cristiane, e non facciamo più figli, e siamo tutti froci, e aveva ragione l’Oriana, e Ratzinger l’aveva detto a Ratisbona, potevano sentirsi vivi per almeno tre o quattro settimane. Se poi si tiene conto del fatto che l’autore del massacro di Oslo è fierissimamente occidentale, conservatore e cristiano, e insomma è una specie di neocon de noantri, solo un po’ più esagitato, senza essere capace di fermarsi alle chiacchiere e alle inconcludenti crociate culturali di Pera, Ferrara e affini, si capisce che la stizza sia un po’ scomposta e perfino rabbiosa.
Ne dà prova un post di Christian Rocca: “L’idiozia di chi ora paragona il terrorista «cristiano» a quelli islamici, confondendo per ignoranza o malafede casi rari, isolati e scollegati da dottrine religiose o chiese o scritture con la potenza geometrica di una teologia politica, ideologica e temporale viva, presente nella società, diffusa da governi, scuole, università, televisioni e autorità religiose sulla base di un’interpretazione nemmeno tanto eterodossa di uno dei più potenti testi politici della storia” (Camillo, 23.7.2011).
In via preliminare, c’è da sottolineare che si tratta di un anacoluto: “L’idiozia di chi, eccetera”, cosa? Siamo dinanzi ad una incazzatura che non trova linearità sintattica, che rimane sospesa e si ripiega in un anapodoton, come di chi tenta un insulto in forma di sputo, ma non riesce a sputare più in là della punta dei suoi mocassini. In sostanza, il poveretto tenta di scoraggiare gli sberleffi che, oggi, piovono su chi, ieri, dal fronte permanente della conservazione dell’occidente cristiano, strepitava“mammaliturchi!”, e senza uno straccio di conferma che l’attentato fosse opera di al Qaida (vedi Libero o Il Foglio).
Brucia un po’ il culo anche a Christian Rocca, che diffida chiunque sia tentato dal fare paralleli tra il fanatismo cristiano e quello islamico, e dal rispedire al mittente – da Oslo – la chiamata alle armi sotto i gonfaloni crociati.
Il fanatismo cristiano – dice – si manifesta in “casi rari, isolati e scollegati da dottrine religiose o chiese o scritture”, mentre quello islamico ha “la potenza geometrica di una teologia politica, ideologica e temporale viva, presente nella società, diffusa da governi, scuole, università, televisioni e autorità religiose sulla base di un’interpretazione nemmeno tanto eterodossa di uno dei più potenti testi politici della storia”.
Sì, mantenendoci al presente, può darsi, perché quando il cristianesimo aveva la stessa età dell’islam si macchiò di crimini anche peggiori. Ma, anche oggi, quando agiscono fanno morti entrambi e non c’è molta differenza tra i morti dei quali è responsabile un musulmano che del Corano trascura i passi che invitano alla tolleranza, per preferire quelli che esortano all’jihad, e i morti dei quali è invece responsabile un cristiano che nei Vangeli trova che il versetto più eccitante sia “chi non è con me è contro di me”. Si pensi, per esempio, al Salmo 138, che qui citiamo solo perché è il preferito da Benedetto XVI per quel molto lirico “sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre” (v. 13). Bene, poco più avanti recita: “Ah, se Dio sopprimesse i peccatori! […] Non odio forse, o Signore, quelli che ti odiano e non detesto forse i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei stessi nemici” (vv. 19-22).
L’intolleranza è intolleranza, e i morti sono tutti uguali, e in ogni religione c’è la radice della violenza. Ma se lo fai presente a Christian Rocca, si scompone, s’incazza, insulta, sbava. Troppo tempo alla catena di Ferrara, fa così per riflesso pavloviano.
venerdì 22 luglio 2011
Alle femminucce, invece, tiravo le trecce
“Ho fatto a botte tante volte, ma sono più quelle in cui le ho date che quelle in cui le ho prese”
Massimo D’Alema
(Il Fatto, 22.7.2011)
Sta per scatenarsi ancora la speranza di un paese normale?
Nell’impossibilità di avere una piena comprensione del presente, che è uno dei limiti insuperabili della natura umana, solitamente ci affidiamo a ciò che ci sembra relativamente chiaro del passato prossimo o di quello remoto, lo pigliamo, lo adattiamo per quanto ci è possibile in analogia e traiamo conclusioni, che talvolta ci tentano addirittura ad azzardare previsioni sul futuro, a costruire modelli e sistemi, e a illuderci di avere una chiave buona per ogni porta chiusa. Miserie dello storicismo, ma è che siamo inconsolabili orfani della storia, che peraltro non ci ha lasciato altra eredità che un album di foto e didascalie sbiadite, sulle quali consumiamo nostalgie insensate e rimpianti molto poco motivati.
È che ogni limite insuperabile della natura umana ha in sé l’irresistibile sfida a tentare di superarlo e, quando si comincia, non si finisce più. In questo, acuti o ottusi, colti o incolti, ci somigliamo tutti, e anche nel più stupido e ignorante degli esseri umani c’è un Sisifo che inutilmente suda. D’altro canto, la sfida posta nell’impossibilità di una piena comprensione del presente non può essere affrontata con maggiori garanzie affidandoci all’azzardo di chi pure abbia solida reputazione di persona estremamente acuta e straordinariamente colta, perché nell’uso dell’analogia non c’è intelligenza o esperienza che possano assicurarci un risultato efficace, e qui è superfluo portare esempi dei tragicomici infortuni capitati lungo il corso della storia a veri giganti del pensiero. E tuttavia ci consola sbagliare in buona compagnia piuttosto che da soli, sicché ogni epoca produce azzardi di gran pregio, proponendoci un uso dell’analogia che risponde ai gusti e alle più intime aspettative del momento.
Oggi, per esempio, l’azzardo che pare dare garanzia di una più piena comprensione del presente e di una più probabile previsione del futuro è quello di ritenere che siamo alla vigilia, anzi all’esordio, di una riedizione di Mani Pulite. Certo, nessuno spinge l’azzardo fino all’uso dell’analogia come ricalco. C’è chi sembra farlo, certo, ma è evidente che si tratta di una neanche tanto sottile forma di scaramanzia: più o meno consapevolmente, c’è chi cerca di scongiurare che la riedizione di Mani Pulite faccia gli stessi danni e chi spera che non tradisca le stesse speranze.
Oggi, per esempio, l’azzardo che pare dare garanzia di una più piena comprensione del presente e di una più probabile previsione del futuro è quello di ritenere che siamo alla vigilia, anzi all’esordio, di una riedizione di Mani Pulite. Certo, nessuno spinge l’azzardo fino all’uso dell’analogia come ricalco. C’è chi sembra farlo, certo, ma è evidente che si tratta di una neanche tanto sottile forma di scaramanzia: più o meno consapevolmente, c’è chi cerca di scongiurare che la riedizione di Mani Pulite faccia gli stessi danni e chi spera che non tradisca le stesse speranze.
In questo senso, la bipolarizzazione del sistema politico produce un significativo uso strumentale dell’analogia come ricalco, dagli opposti fini secondo chi vi faccia ricorso, ma dallo stesso risultato, che è insieme danno e voglia di vederlo stavolta evitarlo, speranza e voglia di non vederla stavolta delusa. Mi pare, tuttavia, che non sia molto chiaro – neanche ai grandi del pensiero del nostro presente – che è proprio il bipolarismo (ancorché imperfetto) a rendere improponibile l’analogia, sovrastimato il calcolo dei possibili danni, esagerata ogni possibile speranza. Non c’è molto spazio, in mezzo, per una diversa rilettura di Mani Pulite e, così adattata al presente, l’analogia ritorna indietro deformata, come scritta da Travaglio o da Ferrara.
Davvero non è possibile rinunciare all’uso dell’analogia? E quale analogia fu usata nel tentativo di comprendere cosa fosse Mani Pulite nel mentre era in corso? Servì a molto sentirla come Liberazione? E servì a molto sentire la Liberazione come un nuovo Risorgimento? Anche il fascismo ci provò e non gli servì a molto. E quale analogia fu calcata sul Risorgimento? Quale dannazione ci condanna a fare sempre peggio, e sempre nella convinzione che, se non la sprechiamo, stiamo riavendo l’occasione per rivivere un passato migliore, che invece è a malapena una bugia consolatoria? Domande retoriche, naturalmente, e che perciò hanno in sé già una risposta.
Davvero non è possibile rinunciare all’uso dell’analogia? E quale analogia fu usata nel tentativo di comprendere cosa fosse Mani Pulite nel mentre era in corso? Servì a molto sentirla come Liberazione? E servì a molto sentire la Liberazione come un nuovo Risorgimento? Anche il fascismo ci provò e non gli servì a molto. E quale analogia fu calcata sul Risorgimento? Quale dannazione ci condanna a fare sempre peggio, e sempre nella convinzione che, se non la sprechiamo, stiamo riavendo l’occasione per rivivere un passato migliore, che invece è a malapena una bugia consolatoria? Domande retoriche, naturalmente, e che perciò hanno in sé già una risposta.
Dunque, sta per scatenarsi ancora la speranza di un paese normale? Ma i paesi normali fanno un uso diverso del passato prossimo e remoto, e quindi questa speranza può scatenarsi come e quanto vorrà, ma sarà sempre delusa. Oppure: dobbiamo temere che stia per scatenarsi un’altra guerra civile, un altro inconcludente saldo fratricida? Ma le guerre civili finiscono, prima o poi, e qui, invece, dopo che il sangue è scorso, i nemici li vedi sempre a cena insieme, e la mattina dopo pronti a recitare ancora la loro parte, ritagliata sull’analogia preferita dagli uni o su quella preferita dagli altri. E con frequenti cambi di parte, giusto per illudersi che qualcosa, nonostante tutto, si muove, si è mosso.
giovedì 21 luglio 2011
A prescindere
Può darsi che non sia stato giusto concedere l’autorizzazione all’arresto di Papa e negare quella all’arresto di Tedesco, ma mi basta che il primo abbia chiesto venisse negata e che il secondo abbia invitato a concederla: se c’è stata ingiustizia, ai miei occhi scompare. Non m’importa molto che la richiesta di Papa fosse umanamente comprensibile e che quella di Tedesco fosse eventualmente tattica, ma penso il primo abbia compiuto un gesto disonorevole, anche se fosse innocente, e che il secondo si sia comportato da persona degna, anche se fosse colpevole.
Il buon Dio
Alcune settimane fa, all’Ospedale «Sant’Orsola» di Bologna, sono nate due gemelline affette da toracopagia. Si tratta di una di quelle malformazioni fetali che in passato erano definite “mostruosità doppie simmetriche” e alle quali oggi si dà il nome di diplopagie (craniopagia, ischiopagia, pigopagia, ecc.), patologie esclusive della gravidanza bigemellare monoamniotica monocoriale (1:65-70.000), con la fusione simmetrica di due feti omozigoti lungo tratti anatomici variabili per sede e ampiezza, con la pressoché costante fusione di uno o più organi interni, il che rende spesso assai problematica, talvolta materialmente impossibile, la separazione chirurgica con esito felice per entrambi i neonati. Nel linguaggio corrente si parla di “gemelli siamesi” e nel caso del «Sant’Orsola» si tratta di due bambine nate premature, simmetricamente fuse sulla faccia ventrale per gran parte del tratto toracico e parte dell’addome, con la fusione dei due fegati e un solo cuore in comune, peraltro severamente malformato. Sono ancora oggetto di studio, che in questi casi mette spesso a dura prova la diagnostica , ma da quasi subito, in questo caso, è apparso chiaro che le due sorelline hanno scarse possibilità di sopravvivenza se lasciate nella condizione che il buon Dio ha deciso per loro. D’altra parte, per quell’unico cuore che ora hanno in comune, separarle significherebbe sacrificarne una, ma solo con un 20% di possibilità che l’altra sopravviva.
È evidente che all’enormità dei problemi che si pongono sul piano tecnico si sovrapponga un problema d’ordine morale che almeno in apparenza è di una complessità addirittura maggiore di quella che il caso offre allo staff chirurgico. Se infatti, per ipotesi, le possibilità di salvare una delle due sorelline fosse del 100%, il problema bioetico sarebbe già grosso: per salvare una vita si dovrebbe sacrificarne un’altra e la scelta sarebbe ovviamente in favore del soggetto più forte a scapito di quello più debole. Questo sarebbe moralmente accettabile? Secondo alcuni, sì. Per altri, invece, nessuna scelta moralmente illecita è giustificata da un buon fine, quand’anche questo sia sicuramente raggiungibile scegliendo il male minore (uccidere un neonato) a fronte di un male maggiore (lasciare che ne muoiano due). Altrettanto grosso sarebbe il problema – e siamo ancora nel campo delle ipotesi – se ci trovassimo di fronte a due “gemelli siamesi” che avessero possibilità di sopravvivere per lungo tempo, se lasciati fusi, ma uno o entrambi corressero il serio rischio di morire affrontando un intervento di separazione, laddove questo fosse tecnicamente possibile. Qui la questione si porrebbe in questi termini: una previsione circa la qualità della loro vita, se lasciati uniti, ci autorizzerebbe sul piano morale, quand’anche fossimo i loro genitori, a decidere di sacrificarne uno (o eventualmente entrambi) sulla base di un giudizio di valore della vita umana tutto calibrato sulla sua qualità? Secondo alcuni, sì. Per altri, invece, la vita è sacra sempre e in questo caso imporrebbe di lasciare uniti i “siamesi”.
Nel caso del «Sant’Orsola», la questione è in apparenza più semplice ma anche, e insieme, maledettamente più difficile. Siamo di fronte a due sorelline che, lasciate unite, hanno poca possibilità di sopravvivere. Poca, sì, ma chi può escludere un miracolo dello stesso buon Dio che le ha volute unite? Contro ogni previsione, se lasciate nelle condizioni in cui sono venute alla luce, potrebbero sopravvivere: separarle, peraltro seguendo il principio del male minore, si rivelerebbe doppiamente immorale (a priori ed eventualmente a posteriori). Decidendo di separarle, al contrario, una sicuramente morirebbe e anzi potrebbero morire entrambe. I medici sostengono che comunque morirebbero entrambe, se lasciate unite, ma con una percentuale così bassa di salvarne solo una e una percentuale così alta di ammazzarle entrambe, è lecito decidere di separarle, ammesso sia possibile, preferendo così escludere un miracoloso intervento del buon Dio? Ecco, dunque, che un caso in apparenza semplificato dalla drammatica cogenza dell’agire sul non agire, se operando in virtù del principio del male minore e della speranza negli strumenti della scienza, diventa mostruosamente complicato volendo rigettare la logica utilitaristica del male minore e la fede nel superiore disegno del buon Dio, ancorché oscuro alla ragione umana.
“Giordano Bruno Guerri, nel suo articolo sul doloroso caso delle sorelline siamesi (il Giornale, 20.7.2011), si augura che a scegliere siano i genitori. Ma i genitori delle gemelle nate con un cuore in comune hanno già scelto: lo hanno fatto quando hanno saputo della loro drammatica condizione, ed hanno deciso continuare la gravidanza e farle venire al mondo così come erano, pur nell’angoscia e nella sofferenza che accompagna sempre la nascita di bambini gravemente disabili”. Così scrive Eugenia Roccella (il Giornale, 21.7.2011), la quale però non può avere piena chiarezza sulle ragioni che hanno spinto i genitori a scegliere di portare avanti la gravidanza: può darsi, per esempio, che sperassero di poter salvare una delle due bambine sacrificando l’altra. In tal caso, almeno in parte, potrebbero essere stati guidati da una logica utilitaristica. È dunque scorretto affermare che “questa libera decisione dei genitori [sia univocamente valida] ad indicare ai medici la via da seguire: la vita per le loro figlie, il meglio per le loro figlie”. La logica che li ha guidati a tale scelta potrebbe essere comunque eugenetica: salvare la figlia più forte, rinunciando a quella più debole. Le conclusioni di Eugenia Roccella appaiono dunque infondate: “Sarebbe ingiusto nei confronti di quei genitori coraggiosi, e di quei medici che li stanno aiutando, affrontare questa storia come una decisione sulla vita e la morte, una decisione di cui ci si deve assumere la responsabilità, decretando: «tu sì, tu no»”. Al contrario, la questione potrebbe dover essere posta proprio in questi termini, e per precisa volontà dei genitori, addirittura antecedente alla nascita delle gemelline, addirittura contestuale alla decisione di farle nascere. Giordano Bruno Guerri avrebbe, dunque, espresso un parere assai più ragionevole, proprio perché più rispettoso della libertà d’opzione dei genitori.
Ma la posizione di Eugenia Roccella è zoppa anche sul piano della morale cattolica. Infatti scrive: “Se, come sembra di capire, le due bambine insieme non riuscirebbero a sopravvivere, allora l’eventuale intervento di separazione servirà ad aiutare almeno una a vivere, nel tentativo di evitare una doppia morte. Non sarà, quindi, la scelta di far morire una e di far vivere l’altra, ma il tentativo di salvare almeno una persona da morte certa”. Siamo comunque dinanzi alla scelta del male minore, moralmente inaccettabile per la dottrina cattolica. Si prenda, per esempio, il caso di una gravidanza decagemellare: è pressoché sicuro che tutti e dieci i feti non arrivino a raggiungere maturità alla vita fuori dall’utero, ma questo non giustifica l’aborto selettivo di 6 feti per accrescere le possibilità di sopravvivenza per gli altri 4. Mutatis mutandis, il caso delle gemelline siamesi del «Sant’Orsola» è analogo, perché nessuno può con certezza escludere che il buon Dio voglia che esse sopravvivano, insieme a tutti e 10 i feti della gravidanza deca gemellare, o che muoiano tutti e 12, ma di morte naturale, per la imperscrutabile volontà dello stesso buon Dio.
Altrettanto errata, a mio modesto avviso, è la posizione di Ignazio Marino (“Personalmente credo che non me la sentirei ad intervenire chirurgicamente, già sapendo che una bambina sarebbe sacrificata”), come è bene argomentato da Chiara Lalli: “È molto diffusa l’idea che non agire sia moralmente privo di conseguenze o comunque moralmente meno coinvolgente dell’agire. Ma è una idea ingenua e sbagliata. La differenza è essenzialmente emotiva e psicologica: se non agisco, se non mi sporco le mani, mi sentirò meno responsabile. Ma se il mio non agire implica delle conseguenze peggiori del mio agire?”. C’è però da rammentare che Ignazio Marino si dichiara cattolico e qui si dimostra più cattolico di Eugenia Roccella.
Pathos
Immaginate che vi ficchino un “tubo nel gozzo”. Brutto, eh? Ecco, dunque, il lodevole paginone de il Giornale contro la barbarie della “nutrizione forzata”. Cambio di linea dopo l’appoggio al ddl Calabrò? Macché, mica si tratta della violenza fatta agli italiani, ai quali una legge di schietto stampo clericofascista scippa la libertà di scegliere se essere tenuti artificialmente vegetanti o essere lasciati naturalmente morire. No, si tratta dello sdegno per la “nutrizione forzata” che si impone alle oche, in Francia, in Spagna e in Ungheria, per gonfiarne il fegato e incrementare la produzione di paté. Il “tubo nel gozzo” che muove allo sdegno il Giornale è quello che sono costrette a subire le povere pennute. Tutto pathos da paté.
Lo sfregio
“Il rischio – per Roberto Pertici – è che l’ammirazione per la sua ultima battaglia oscuri la precedente azione politica contrassegnata invece da limiti ed errori”. Ben venga, dunque, questa biografia di Giacomo Matteotti scritta da Gianpaolo Romanati (Un italiano diverso. Giacomo Matteotti – Longanesi, 2011), che però “suggerisce piuttosto che tirare conclusioni esplicite”. Poco male, per quelle ci pensa il Pertici (L’Osservatore Romano, 18-19.7.2011). E comincia col sottolineare che “Giacomo Matteotti non fu il primo morto ammazzato della sua famiglia. Anche il nonno Matteo era stato ucciso: davanti al suo negozio, durante una rissa”. Evidentemente l’avevano scritto nel sangue, e chissà che quelli della banda Dumini non siano stati solo uno strumento del destino. D’altronde i Matteotti, oltre ad essere socialisti, dunque laicisti, avevano un peccato originale gravissimo: erano ricchi, avevano fatto fortuna “mettendo le mani su vaste proprietà ecclesiastiche espropriate con le leggi del 1866 e del 1867”. Son cose che si pagano, ed ecco il Pertici, mandato dagli espropriati a far pipì sulla tomba di Matteotti: pisello piccolino, getto storto, ma per lo sfregio è il pensiero che conta.
mercoledì 20 luglio 2011
martedì 19 luglio 2011
La storia, questa stupidina
Per chi di Papa Giovanni XII (955-964) sapeva solo ciò che aveva letto in Storia criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner (tomo V, cap. X), dove non è dipinto come un santo, era un dovere spendere quell’euro e mezzo al quale era posto in vendita su una bancarella il Giovanni XII di Achille e Pietro Teofilatto della Domus Theophylacti Opus (Palombi Editori, 2001), che la quarta di copertina dipingeva come un santo. È solo a pag. 314 (cap. XV) che poteva trovarsi ragione di due dipinti così diversi, ma col sorgere di un sospetto, che subito era sciolto nell’apprendere che la Domus Theophilacti Opus ha sede nel Castello Teofilatto, che “tra il 900 ed il 1100 appartenne alla potente famiglia romana del Senatore Teofilatto, che, con il Papa Giovanni XII e con i Conti di Tuscolo, aveva larghi interessi in tutto il territorio”. Superfluo rilevare che il Castello Teofilatto è di proprietà della famiglia Teofilatto, e qui sarà il caso di sospendere il giudizio sul rigore della ricerca storica che porta a dipingerci Giovanni XII come un santo. Sì, si dice che abbia fatto cardinale un bambino di 10 anni per ripagarlo di certi indicibili favori, ma si tratterà di una calunnia di quel porco di Liutprando, al quale il Deschner ha dato ingenuamente credito. Per quanto mi riguarda, propendo per la tesi dei Teofilatto e per la santità dei loro antichi e larghi interessi. Anzi, visto che il Castello è dato come “ideale per qualsiasi tipo di ricevimento, pranzi o cene riservate, buffet, cocktail e rinfreschi”, prenoterei. Ma pretendo lo sconto.
lunedì 18 luglio 2011
Raffaele Costa rimase inascoltato
Quando in libreria arrivò La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 2007), fu subito best seller. Non riuscivo a capacitarmene e scrivevo:
“Nelle 442 pagine de L’Italia dei privilegi – l’autore è Raffaele Costa, l’editore è Mondadori, l’anno di pubblicazione è il 2002 – ho trovato tutto quello che c’è nelle 284 pagine de La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 2007), e molto – ma davvero molto – di più. Oltre al merito di essere scritto assai meglio de La Casta, L’Italia dei privilegi ha il pregio di essere molto più documentato, quello di non concedere nulla alla retorica, e insieme a L’Italia degli sprechi di 4 anni prima (stesso autore, stesso editore) costituisce un’istruttoria assai più lucida e spietata sul «sistema Italia». Sicché non so farmi una ragione del perché 5 anni fa il libro di Costa non abbia avuto il successo di vendite avuto quest’anno da quello di Stella e Rizzo. E non riesco a immaginare altro che questo: non erano ancora pronti i tempi perché bastasse un libro a fare da detonatore, ecco perché nulla era concesso alla retorica”.
Sbagliavo: non era una questione di tempi, era proprio la retorica l’ingrediente che mancava a quello che ancora oggi è l’insuperabile lavoro di Costa. Era la retorica dello sdegno che aveva dato il successo al volume di Stella e Rizzo, ma mancava ancora qualcosa al successo che in queste ore sta raccogliendo Spider Truman: il tono delatorio del fuoriuscito dal Palazzo. Non che il libro di Costa ne fosse privo (il sottotitolo de L’Italia dei privilegi era A cura di un privilegiato), ma lo sdegno era tutto a cura del lettore, perché l’autore si limitava ad elencare i privilegi goduti dai suoi pari. Alla denuncia di Costa mancava il detonatore: era una delazione, ben più dettagliata e documentata delle quattro rimasticature di Spider Truman, ma a farla non era un licenziato, un trombato, un estromesso. La delazione mancava di un elemento psicologico essenziale: l’intento vendicativo.
Così Spider Truman è credibile, almeno per gli allocchi che corrono a dirgli mi piace su Facebook, mentre Raffaele Costa rimase inascoltato. Questo è il paese dove pure un moto nobile come l’indignazione ha bisogno di una spinta ignobile come il livore di un precario che ha taciuto fino a quando la Casta gli dava le briciole e ora spiffera tutto il risaputo perché non gliele dà più. Troppo poco per dedurne che in ogni Spider Truman c’è un italiano medio?
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