mercoledì 21 novembre 2012

In difesa di don Alberto Barin


Il cappellano del carcere di San Vittore è accusato di violenza sessuale e concussione. Pare che le prove raccolte dagli inquirenti siano schiaccianti, ma è meglio aspettare il processo e la sentenza. Fosse assolto, d’altronde, non ci stupiremmo. È arcinoto, infatti, che il clero cattolico è sempre più frequentemente fatto oggetto di aggressione da potenti lobby anticristiane, abilissime nel confezionare calunnie per screditare nel singolo sacerdote l’intera istituzione ecclesiastica, infiltrando negli oratori bambine ninfomani o ragazzini estremamente provocanti che lo farebbero venir duro pure a un santo. Non ci stupiremmo neppure se don Alberto Barin fosse condannato, però. La convinzione di stare un palmo sopra al laico, da pastore cui è affidato un gregge, è instillata nel chierico fin dal seminario. Si tratta di un retaggio che un tempo valeva per tutti i chierici su tutti i laici, ma che oggi il prete può sfogare solo sui i minori, i minorati e i deboli in generale, non esclusi i carcerati. Che facciamo, vogliamo chiudere i seminari?
La questione, a ben vedere, è di contesto e potrebbe essere posta in questi termini: che cazzo ci stanno a fare i preti in carcere? Assistono spiritualmente il detenuto, si dice. Anche quando il detenuto è musulmano o ateo, pare. Sul piano logico la cosa è un poco traballante, ma va avanti così da un pezzo, perché cambiare? Lasciamo perdere. Non è tutto, però, perché forniscono anche assistenza materiale, pare. Vestiti, saponette, carta igienica, dentifricio, cose così. D’altra parte, è su questo genere di carità a basso costo ed alto ricavato che il cattolicesimo ha costruito la sua fortuna. Ma forse qui sono ingeneroso. Diciamo che l’ha costruita sul dentifricio ai carcerati e la minestra ai barboni, ma anche sulla bellezza della Cappella Sistina.
Mica è tutto, però. Il cappellano carcerario fa parte della commissione che redige il regolamento interno dell’istituto di pena e concorre alla formazione del giudizio che il magistrato di sorveglianza dà del detenuto al fine di decidere dei benefici, dei permessi, ecc. D’altronde, l’art. 15 del regolamento penitenziario nazionale recita che «il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive…». Visto? C’è pure la religione. Lo Stato è laico, ma la contempla tra i trattamenti. E allora – dite – perché non chiudere un occhio su don Alberto Barin? Può darsi – dico: può darsi – abbia abusato un pochino, ma è l’occasione che fa l’uomo ladro, e poi la carne è debole… Insomma, considerate le attenuanti.
Prima di tutto, però, garantismo. In mano agli inquirenti ci sono i video in cui il cappellano di San Vittore riscuote favori sessuali in cambio di un rotolo di carta igienica, di un tubetto di dentifricio, della promessa di mettere una parola buona con il direttore del carcere o con il magistrato di sorveglianza, ma fino a quando non ci sarà il processo, ed eventualmente la condanna, gli sia dovuto il massimo rispetto, si eviti la gogna mediatica, qualcuno ne prenda le difese.
I radicali, per esempio, non foss’altro perché don Alberto Barin si è sempre espresso in favore di un’amnistia. Ecco, questo getta un dubbio sulle accuse, l’intellettuale collettivo di Via di Torre Argentina non dovrebbe faticare a trovarvi il punto debole: con l’amnistia non ci sarebbe andato a perdere? Sentitelo nell’intervista che diede l’anno scorso a Radio Radicale: «La settimana scorsa un ragazzo è venuto a messa non solo per pregare, ma per chiedere un rotolo di carta igienica» (*). Uno che probabilmente con l’amnistia sarebbe fuori e potrebbe fare a meno della messa, cioè della carta igienica, insomma, una scopata persa, e tuttavia... Vuoi vedere che si tratta di un altro caso Tortora?  

martedì 20 novembre 2012

Sei sfessati


Immaginate di essere in possesso della prova che dietro la sentenza costata 560 milioni a Mediaset ci sia stato un imbroglio: volete venderla a Berlusconi, come vi muovete? Fate una telefonata a Ghedini per aprire la trattativa o accroccate una banda di sfessati, tutti schedati, per sequestrare Spinelli e usarlo come intermediario? Se davvero avete in mano quella prova, che bisogno avete di complicare le cose, col rischio che qualcosa giri storto, e tutto vada a rotoli? No, non regge.
Proviamo, allora, a fare un’altra ipotesi. In mano non avete niente, ma sapete che, se esistesse, quella prova sarebbe assai appetibile a Berlusconi. Allora decidete di tentare il colpo gobbo con un bluff. Cominciate col rendere ancora più appetibile il paccotto. Dite che l’imbroglio dietro la sentenza è stato orchestrato da uno che, potendo, Berlusconi strozzerebbe con le sue mani. Di più, se esistesse, la prova dell’imbroglio comprometterebbe il giudice che lo ha salassato, sarebbe una mazzata terribile per tutta la magistratura e smerderebbe il rivale in affari col quale è in guerra da decenni. Con un piccione piglierebbe tre fave: potete sparare una cifra grossa. Però avete bisogno di rendere incalzante la richiesta per evitare che la controparte sospetti la truffa e prenda tempo: con la vita di un ostaggio in gioco la chiusura delle trattative si renderebbe urgente.
Regge? Non regge. Avete deciso di truffare Berlusconi, mica un fesso. Potrà essere preoccupato per Spinelli, forse, ma sa che a farlo fuori non ci guadagnereste niente. D’altronde non lo state ricattando con una seria minaccia di inguiarlo, gli state solo proponendo un affare, ed è un affare che puzza di bluff. No, non regge proprio.

E allora come vanno sistemati i pezzi perché tutto torni? Solo in un modo, vediamo quale. Siete sei sfessati. Avete saputo dai giornali che ogni lunedì Spinelli è imbottito di contanti e avete deciso di alleggerirlo. Non gli trovate addosso quanto speravate. Decidete di cambiare il piano in corso d’opera e la rapina diventa un rapimento. Vi mettete in contatto con Ghedini e chiedete un riscatto. E qui vi viene fatta la controproposta.
Pigliatevi 8 milioni, liberate Spinelli e impegnatevi a non smentire la versione che gli faremo dare di tutta la vicenda. Diremo che eravate in possesso della prova che dietro la sentenza costata 560 milioni a Mediaset c’è stato un imbroglio o che almeno questo è quanto sostenevate di poter provare: certe cose non importa se sono vere o meno, basta siano possibili per poter essere presentate come verosimili, ci penseranno Sallusti e Ferrara.
Diremo che non vi abbiamo creduto e non vi abbiamo dato un euro, sicché avete liberato Spinelli e siete scappati via. Per voi l’importante sarà averci guadagnato, per noi dare da scrivere a Sallusti e Ferrara in attesa della sentenza in Cassazione. Vi verseremo il denaro su un conto sicuro, così se vi beccheranno lo preleverete a fine pena, con gli interessi. La pena, in ogni caso, non sarà troppo pesante. In fondo a Spinelli non avete torto un pelo. E lo avete liberato senza prendere un euro: non era una rapina, non era un rapimento, era un tentativo di truffa. 


Buio fondo

La statua di Giovanni Paolo II faceva così schifo che era inimmaginabile potesse fare ancor più schifo dopo le correzioni che si erano rese necessarie a fronte dell’unanime raccapriccio che aveva provocato la sua vista quando le fu tolto il velo alla Stazione Termini di Roma, nel settembre dello scorso anno. Bene, Oliviero Rainaldi ha impiegato un anno, ma è riuscito nell’inimmaginabile: se prima la sua statua sembrava un vespasiano con la porta socchiusa, adesso sembra un vespasiano con la porta lasciata spalancata. Ciò che lascia sgomenti, tuttavia, è il risultato del rifacimento della testa. Per vederci una somiglianza a Karol Wojtyla, prima, c’era da sforzarsi, e non di poco. Ora ci si può sforzare pure fino a cagare sangue, ma riesce più somigliante a un Pio XI senza occhiali o a un Paolo VI gonfio di cortisone che a un Giovanni Paolo II pur se tenuto per sette anni in formalina. Viviamo tempi bui, è vero, nessuno si aspettava un Michelangelo per la prima versione, né un Bodini per la seconda, ma qui il buio è buio fondo: tengono banco temi futili come le primarie del Pd, il solito masochismo dei palestinesi,  l’ennesimo burlesque di Berlusconi, ma sul peggiore insulto a Roma da quanto fu spianato Borgo Pio per farci Via della Conciliazione, niente, neanche un sampietrino, neanche un lacrimogeno.      

domenica 18 novembre 2012

[...]

Giusto un mese fa, su Twitter, Gaia Carretta confessava la fatica: «In questi giorni vorrei essere la portavoce del presidente della provincia cinese di Shanghai» (*). Immagino la scena. Han Zheng la guarda e dice: «我看了你的简历...» («Ho letto il suo curriculum vitae...»). Antonio Di Pietro, Claudio Velardi, Roberto Formigoni... «对不起,我是一个好人...» («Spiacente, io sono una persona perbene...»).

venerdì 16 novembre 2012

Eliminated


Nell’auto c’era Ahmed Jaabari, leader dell’ala militare di Hamas, un eroe per la sua gente, un gran pezzo di merda per i civili israeliani sui quali lanciava i suoi qassam da qualche tempo in qua. Del filmato colpisce la sensibilità di chi aspetta che il bersaglio sia a debita distanza da altre autovetture prima di premere il grilletto, probabilmente per evitare di far vittime innocenti, poi nient’altro, il video è in tutto simile alla schermata di un wargame. Ci si metta per un istante nei panni dei palestinesi, che ora hanno un altro martire da piangere e da indicare come fulgido esempio ai loro ragazzini. Poi ci si metta nei panni degli israeliani, per i quali adesso al mondo c’è uno stronzo in meno. Fatta questa rapida operazione, si troverà del tutto naturale che a Gaza si strepiti di rabbia e si mediti vendetta, e che a Tel Aviv si tiri un mezzo sospiro di sollievo, preparandosi a parare un’eventuale azione ritorsiva: nulla di strano che a Gaza qualcuno stia ritoccando il ritratto di Ahmed Jaabari ovattandolo della luce che si respira in paradiso e vergandogli alle spalle un bel versetto del Corano, ma che c’è di strano che a Tel Aviv qualcuno abbia ritoccato una sua foto in questo modo?


A Massimo Mantellini non piace, dice che gli «sembra la brutta copia della pubblicità di uno sparatutto». E grazie al cazzo, si tratta dell’annuncio che un nemico del popolo israeliano è stato fatto fuori, voleva i puttini alati come nei santini? «Da solo racconta qualcosa degli israeliani che in fondo sapevamo già», aggiunge, raffrenandosi in una reticenza, tanto più fastidiosa quanto più gratuitamente allusiva. Cosa sapevamo già degli israeliani che renda questa foto un oltraggio al buongusto? Si può solo andare per ipotesi: gli israeliani trattano il pericolo da pericolo, e quando lo hanno eliminato dicono che lo hanno eliminato. E questo dovrebbe sembrarci orribile?     

giovedì 15 novembre 2012

Säkularisation

Carl Schmitt vede «il passaggio decisivo dal diritto internazionale medioevale a quello moderno, da un sistema di pensiero ecclesiastico-teologico a uno giuridico-statale» (Il nomos della terra, Adelphi 1991 - pag. 134) nell’ingiunzione che Alberico Gentili (1552-1608) rivolge ai chierici nelle sue Commentationes de jure belli (1588): «Silete, theologi, in munere alieno!» (I, XII), che con un po’ di libertà nel tradurre sarebbe: «Chiudi il becco su ciò che non ti compete, prete!».
È qui, secondo molti (Lübbe, Rèmond, Borghesi, ecc.), che si rompe l’egemonia culturale che il clero ha detenuto per quasi un millennio e prende avvio quel processo che è detto «secolarizzazione». E tuttavia il termine compare per la prima volta solo due secoli più tardi, col Reichsdeputationshauptschluss del 1803, nel quale Säkularisation sta a significare confisca dei beni ecclesiastici. Il processo di emancipazione dall’egemonia culturale del clero, insomma, riesce a trovare un nome solo quando al prete vengono strappati i privilegi che gli hanno consentito di esercitarla.
Ormai di ciò rimane traccia solo nei dizionari, dove la «secolarizzazione» è innanzitutto «il passaggio di beni, oggetti, cose, istituzioni, valori dalla dipendenza del potere ecclesiastico a quella del potere civile» (Treccani), mentre il suo significato corrente sta esclusivamente negli effetti di questa spoliazione: il trascendente non è più fonte del diritto, l’uomo ha perso la sua dimensione creaturale, il divino è stato estromesso dal sociale, l’autorità morale della Chiesa collassa.
Si è appena chiuso un Sinodo dei Vescovi nel quale il termine è stato usato di sovente, mai per rammentare che in origine apparteneva esclusivamente al lemmario giuridico: «secolarizzazione»  ha significato esclusivamente «scristianizzazione». Il paradosso sta nel fatto che la Chiesa si dichiara Spirito incarnato, ma sembra aver perso la faccia tosta per pretendere, com’è stato per secoli, che Dio abbia tanto più spazio nel sociale quanto più grassa sia la pancia dei propri ministri. Insomma, pare presa dal pudore di ammettere che il «ritorno del sacro» altro non sia che una richiesta di risarcimento fuori tempo massimo.      

martedì 13 novembre 2012

Verosimilmente, per effetto analogico


Democrazia è termine ambiguo, tutto sta nel significato che si dà a demos, che a volte è plethos, a volte è ochlos, a volte non si sa cosa accidente sia. Quando poi a democrazia si dà un aggettivo, le cose si complicano, e di molto: anche kratos si fa elastico nei suoi sinonimi e tra un sistema democratico ed un altro può arrivare ad esserci più differenza che tra una tigre e un gattino, che pure sono tutte e due felini. Parafrasando quel furbastro di Agostino, potremmo liquidare la questione dicendo che la democrazia è quella cosa che, se non mi chiedi cos’è, so bene cosa sia, ma smetto di saperlo appena me lo chiedi. Di certo, tuttavia, c’è che oggi avremmo seria difficoltà nel definire democratica la democrazia che vide luce nell’antica Grecia, dunque siamo dinanzi a uno di quei tanti termini che non trovano piena ragione nella loro etimologia e che hanno avuto sorte travagliata col dissolversi del contesto nel quale hanno visto la luce.
Qui, per inciso, metto un mea culpa. Un giorno, sul Riformista, Antonio Polito scrisse che la democrazia era nata nell’Inghilterra del diciottesimo secolo. «Come no, basta pensare alla sua etimologia – gli scrissi – Come tutti sanno, “democrazia” viene dall’inglese “team of crazies”». Battuta scema, aveva ragione lui, ma La democrazia di Luciano Canfora (Editori Laterza, 2004) sarebbe uscita solo alcuni mesi dopo.
Chiusa parentesi: la democrazia o è liberale o non è. E questa era la premessa.

Oggi, su Avvenire, a pag. 23, c’era un bel titolone: «La democrazia? È nata nel Medioevo». Sommario: «Chi ha detto che i “secoli bui” non furono democratici? Anzi, proprio grazie ai meccanismi elettivi degli abati benedettini e dei grandi ordini monastici poté svilupparsi “l’arte di governare senza che nessuno possa aggrapparsi al potere”. Parla il medievista francese Dalarun».
Prim’ancora di leggere l’intervista, ho capito che doveva trattarsi del solito bislacco apologizzare di un Antonio Socci o di un Francesco Agnoli che da anni cercano di convincersi che dobbiamo tutto al cristianesimo, anche ciò che il cristianesimo ha strenuamente combattuto. È il tentativo di nuotare nella secolarizzazione come se fosse il brodo del cristianesimo e non il sangue del suo svenamento. Si arriva anche al ridicolo, e c’è riesce a trovare il messaggio cristiano nei Simpson e nei Beatles (memorabili certi contorcimenti de L’Osservatore Romano, che con Gian Maria Vian è diventato una imitazione de Il Foglio, dacché Il Foglio cercava di imitare L’Osservatore Romano di Mario Agnes), chi riesce a trovare il larvato cattolico nell’ateo dichiarato (operazione che riesce meglio con l’ateo famoso e defunto), perfino chi prova a trovare la femminista in Teresa di Lisieux e Gioacchino da Fiore in Occupy Wall Street. Niente di male, ovviamente, se si trattasse di un gioco da salotto, fatto sta che queste operazioncine pretendono l’attenzione dovuta allo scoop culturale. Così il Dalarun, non nuovo al tentativo di illustrarci quelli medievali come Secoli dei Lumi.

L’intervista scorre e, di prove che i benedettini confetturassero democrazia, neanche l’ombra. Sicché il povero intervistatore, che dovrà pur giustificare il titolo che già è stato deciso in redazione, è in affanno: «Ma fu vera democrazia?», chiede. E qui si resta a bocca aperta, perché il «noto medievista» risponde: «Ho avanzato un interrogativo e un’idea che possono sembrare fragili, ma ai quali tengo molto: in tali comunità, non si è forse inventato qualcosa che assomiglia alla democrazia? Certo, il medioevo non è stato affatto il regno della democrazia come sistema di governo, ma ha conosciuto abbozzi ed esperimenti di questo tipo». Roba fragile, ma ci si è affezionato al punto che democrazia, no, ma abbozzi, volendo… E lui vuole.
E quali sarebbero, questi abbozzi? «Certe assemblee locali in Scandinavia», «certe regole di funzionamento dei Comuni italiani». Sì, ma i monaci? In quale Regola monastica ha intravisto i germi della democrazia? Non lo dice. Però, «visto che i francescani furono pure archivisti nei Comuni…». Collegamento esile come il prepuzio di un cherubino, senza uno straccio di argomentazione a supporto, ma tant’è: «L’influenza non fu immediata, certo, ma verosimilmente giocò un effetto analogico…», voilà, la democrazia è nata nel Medioevo: «verosimilmente», per «effetto analogico», il Dalarun vuole vederci l«abbozzo»

lunedì 12 novembre 2012

Rita Bernardini dà della «stronza» a Paola Severino

Urge un rimedio al sovraffollamento nelle carceri italiane, possibilmente strutturale. Basterebbe rivedere l’istituto della detenzione in attesa di giudizio o metter mano alla Bossi-Fini, alla Fini-Giovanardi, ma i tempi sarebbero lunghi, sennò costruire nuove carceri, ma lì sarebbero lunghissimi. Di fatto, intanto, la detenzione nelle carceri italiane rappresenta in molti casi una vera e propria tortura, e questo è intollerabile, sia sul piano umanitario che su quello della legalità, perché è fatto oltraggio alla dignità della persona e allo stato di diritto. Ben venga un’amnistia, allora, che però pare nessuno voglia, ad eccezione dei radicali che la chiedono con forza da quasi due anni, producendosi in uno di quei loro proverbiali saggi di insistenza, che a onor del vero – occorre dire – un tempo risultavano assai più efficaci. Sarà per questo che ultimamente nell’insistere sbarellano, nel merito e nel metodo.
Nel merito, col sostenere che un’amnistia non avrebbe finalità esclusivamente emergenziale, ma anche – ultimamente si è arrivati a dire «soprattutto» – effetto strutturale. La cazzata scappò di bocca a Marco Pannella nel corso di una delle sue conversazioni domenicali con Massimo Bordin, che fece l’errore di contestargliela, senza ottenere però altro risultato che quello s’impuntasse, per costruirci sopra, nei giorni successivi, uno dei più bizzarri arzigogoli della storia radicale.
Nel metodo, invece, col dare della «stronza» a Paola Severino, favorevole all’amnistia «dal punto di vista ideale», ma non «dal punto di vista della strutturalità del rimedio»: «è stronza, intimamente» (Rita Bernardini Satyagraha-2012, 11.11.2012). Sfumature della nonviolenza.

domenica 11 novembre 2012

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Marcia indietro del governo sulle 24 ore settimanali (6 in più, e a gratis) che la legge di stabilità chiedeva agli insegnanti. Come coi tassisti, poco meno di un anno fa, quando il governo fece marcia indietro sulla liberalizzazione delle licenze. Rammento che andai alla ricerca di blogger-tassisti per leggere come si festeggiasse la vittoria della categoria, ma non ne trovai neppure uno. Sono stato assai più fortunato coi blogger-insegnanti, perché ce ne sono tantissimi. E scrivono moltissimo, l’impressione è che stiano on line 20 ore al giorno, tolte le 4 che stanno in classe (tolti i festivi, il giorno di riposo infrasettimanale, le ferie, ecc.). Post lunghissimi, peraltro, e a gratis. Due, quattro, anche sei post al giorno, scritti probabilmente nei tempi morti tra la correzione di un compito e un aggiornamento, tra il preparare la lezione del giorno dopo e lo stendere i giudizi sul rendimento degli alunni, insomma, nei tempi morti in tutto quel daffare che impegna un insegnante oltre le 4 ore in classe. Quanto tempo morto, cazzarola.


P.S. Prego i blogger-tassisti di non accendere polemiche su questo post, era tanto per dire.

giovedì 1 novembre 2012

[...]


«Per combattere l’AIDS ci vogliono testa e cuore. La testa usala sempre, in ogni rapporto sessuale, utilizzando il preservativo…»: testo della pubblicità della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (Lila), a pag. 4 de Il Foglio, mercoledì 31 ottobre.



«Perché bisognerebbe riprendere in mano e studiare il Catechismo promulgato da Pio X cent’anni fa»


A spiegarcelo è Francesco Agnoli (Il Foglio, 1.11.2012), che si accoda nell’errore fatto da quanti hanno festeggiato lo scorso 12 ottobre i cento anni del Catechismo di Pio X, che invece è del 1905.


È che il fior fiore del tradizionalismo cattolico ha fede in Wikipedia e cita la data della ristampa del catechismo, che infatti è del 1912, mentre la promulga è contestuale alla prima edizione del 1905 con la lettera al cardinal vicario Pietro Respighi, datata 14 giugno 1905, nella quale Pio X prescrive che «l’uso di questo testo sarà obbligatorio per l’insegnamento pubblico e privato». Lo stesso Agnoli, daltronde, cita la lettera di Pio X che accompagna ledizione del 1912 e nella quale si legge: «Fin dai primordi del nostro Pontificato rivolgemmo la massima cura all’istruzione religiosa del popolo cristiano e in particolare dei fanciulli, persuasi che gran parte dei mali che affliggono la Chiesa provengono dall’ignoranza della sua dottrina e delle sue leggi». «Fin dai primordi del nostro Pontificato», che inizia nel 1903, e infatti il Catechismo è di due anni dopo.
Ma questo, in fondo, è uninezia. Notevole, invece, è che Agnoli lamenti che il Catechismo di Pio X sia «oggi tanto negletto dai teologi e dai soloni del rinnovamento e dell aggiornamento»: sarebbe attualissimo. Un esempio basterà?




Attualissimo, vero? Se i dipendenti fanno resistenza, il «padrone» potrebbe minacciare il licenziamento. Sennò trattenere una parte dello stipendio al dipendente che non sia adeguatamente preparato in dottrina cristiana.


 

[...]


«Chi non va a votare ha le sue rispettabili ragioni, e il diritto di non farlo. Ma perde il diritto di lamentarsi per quanto accadrà, e acquisisce il dovere di tacere e subire, perché ha taciuto e subito nel giorno delle elezioni» (la Repubblica, 30.10.2012). La pensavo anch’io così, ma ho cambiato idea. Oggi penso che la logica che informa il fervorino di Michele Serra – la logica che per decenni mi ha portato a votare il meno peggio piuttosto che astenermi – non sia affatto ferrea come mi è sembrata fino a ieri. Meglio: può darsi fosse ferrea fino a ieri – «fino a ieri», quando? – senza dubbio ha smesso d’esserlo.
Il suo punto debole sta nell’assunto democratico che col voto, anche se nella infinitesima misura di un voto su milioni di voti, si eserciti un potere. Con la decisione di astenermi alle prossime elezioni non ho alcuna intenzione di metterlo in discussione, non ho smesso di credere nella democrazia, dico solo che in Italia ne è rimasto solo il guscio vuoto – le elezioni, appunto – ma di fatto col voto non si esercita alcun potere, neppure nell’infinitesima misura che un voto dovrebbe avere su milioni di voti. Il sistema dei partiti ha sospeso il principio democratico e si perpetua nella sua sospensione, che il voto rinnova, dandole legittimità. E nessun partito – nessuna coalizione di partiti, nessun fronte transpartitico – può volere sia diverso da com’è, pena il suo dissolversi. Ecco perché l’astensione preoccupa seriamente il sistema partitico: sebbene possa «ugualmente sommare i voti che gli restano dentro il cerchio magico del cento per cento», l’astensione erode la sua sola rendita di legittimità.
Sembrerà un paradosso, ma il voto si è ridotto all’avallo di questa finzione: la democrazia è rappresentata – è data mera rappresentazione della democrazia – da quanti vogliono convincersi e convincere che la democrazia stia nell’andare a votare di tanto in tanto. Tra chi vota e chi si astiene c’è ormai una sola piccola differenza: i primi sono convinti che la finzione mantenga in vita il principio, i secondi si rifiutano di crederlo. Per quanto mi riguarda, mi è diventato intollerabile prestarmi alla finzione. Se le regole del gioco sono queste, preferisco non giocare. Con ciò, come scrive Serra, perdo il diritto di lamentarmi per quanto accadrà? Non credo, né credo che astenersi dal voto sia un tacere e un subire che mi impegni a tacere e subire dopo, tutt’altro: se «si può far politica anche senza essere eletto», si può farla anche senza essere elettore.
Se «sono tutti uguali» è il giudizio che porta all’astensione chi guarda la politica italiana con occhio assai superficiale, anche aguzzando la vista e arrivando alla più interna conoscenza delle parti e del tutto, il giudizio non può essere diverso: al netto di ogni implicazione d’ordine morale, che può dare carattere fuorviante a questa formula liquidatoria – perfino ingiusta nel mettere dei poveracci ubriachi di buone intenzioni d’accanto a veri e propri delinquenti – «sono tutti uguali», tutti hanno gravi deficit di democrazia interna che ha tempo tolto ai partiti, se mai  l’hanno svolta appieno, la funzione assegnata loro dalla Costituzione. Sarà che «le ideologie sono morte» e le maschere sono cadute, sarà che il sistema maggioritario ha accentuato la natura proprietaria dei partiti rendendoli mere proiezioni dei loro proprietari, sarà che l’accelerazione dei processi di acquisizione e perdita del consenso hanno costretto i soggetti politici ad un pleomorfismo che toglie loro identità culturale per omologarli, ma il meno peggio è introvabile. Almeno per quanto mi riguarda.      


mercoledì 31 ottobre 2012

Vendola assolto

Il fatto non fuffifte.

martedì 30 ottobre 2012

Sandy

Il battito d’ali di una farfalla in Cina (1) …………......
L’ira di Dio contro i matrimoni gay (2) ………………  

lunedì 29 ottobre 2012

[...]

L’istrione e il demagogo sanno bene che alla bestia occorre lisciare il pelo per il verso giusto, prima di salirle in groppa. Non stupisce, dunque, che i comizi di Beppe Grillo in Sicilia iniziassero di regola con la lode del meraviglioso carattere dei siciliani, delle stupende bellezze paesaggistiche dell’isola, della favolosa gastronomia locale, come era ad ogni tappa delle sue tournée di comico prima di darsi alla politica: ogni sera il pubblico cambiava ma ogni sera era il migliore di tutt’Italia, che lo spettacolo si tenesse in Toscana, in Puglia o in Campania. Stavolta è toccato alla Sicilia, che «ieri era bella, ma oggi è bellissima, il sole, il mare, i fichidindia, Empedocle, Archimede…». Non sto citando Grillo, ma il luogotenente di Johnny Stecchino, che almeno era disposto ad ammettere «tre piaghe» – l’Etna, la siccità e il traffico – cui Grillo non ha fatto alcun cenno: tutto bello, da oggi ancora più bello, col 52,53% di astensione – con le cosche ferme un giro – bellissimo.

Socrate, Gesù e Berlusconi


domenica 28 ottobre 2012

L’immancabile stronzo


Branko Bokun, Una spia in Vaticano,
Neri Pozza 2003 - pag. 179

«Per motivi suoi»


Un tale – non ne farò il nome – si era rivolto al Tribunale della Sacra  Rota per ottenere l’annullamento del suo matrimonio. Accadeva tanto tempo fa, quando in Italia non era ancora possibile divorziare. A denunciare lo scandalo del «divorzio di classe», che la Sacra Rota concedeva solo a quanti potevano permetterselo, erano davvero in pochi, ma tra quei pochi – alla faccia della coerenza – c’era quel tale. Ottenne quello che voleva.
Non sappiamo dove abbia trovato il denaro che era necessario (insegnava Lettere in un istituto tecnico), tanto meno sappiamo quale motivo avesse addotto all’istanza, sappiamo solo che la Sacra Rota, oggi come allora, annulla un matrimonio solo quando il richiedente sia disposto a dichiararsi impotente o idiota, sennò d’aver detto «sì» al prete che lo sposava, però intendendo dire «no», o perché non aveva capito bene la domanda: o coglione, insomma, o disonesto.
A rileggere le ridondanti prose che il militante divorzista stendeva a quei tempi per denunciare la «simonia vaticana», non parrebbero esserci dubbi: per lo più si trattava di disonestà. Sia chiaro, però: disonestà non già nello sposarsi dichiarando genuino un convincimento che in realtà era simulato, ma nel chiedere l’annullamento del matrimonio dichiarando simulato un convincimento che in realtà era genuino. Con la Sacra Rota disposta ad avallare, in cambio di un bel pacco di soldi.

Siamo costretti a tirar fuori questa misera storiella dalla fogna delle cronache italiane a cavallo tra i Sessanta e i Settanta perché oggi quel tale viene a farci la lezioncina di morale laica pigliando spunto dalla vicenda di un tizio che «si era rivolto al Tribunale Civile di Roma avanzando la richiesta di disconoscimento di paternità rispetto ad una bambina che lui aveva riconosciuto, alla nascita, come figlia propria, per adottarla poi all’atto del matrimonio con la madre. “No, non è mia figlia - ha sostenuto nella richiesta - quando l’ho riconosciuta ho dichiarato il falso”. Contro le sue aspettative, il tribunale ha sentenziato che “l’autore del riconoscimento effettuato in mala fede non è legittimato a impugnarlo successivamente per difetto di veridicità”. Quel riconoscimento, pur così inficiato, non può essere revocato, anche dopo aver acquisito “la piena consapevolezza della sua falsità”» (Il Foglio, 25.10.2012).
Se con la mala fede sei stato capace di ottenere quel che volevi – chiedo – non dovresti esser più mite nel giudicare chi con la stessa mala fede non ha ottenuto ciò che voleva? Macché, «nel caso in questione non si tratta di smascherare la contraffazione di una prova fattuale compiuta al fine di trarre vantaggi da una paternità mai veramente esistita; qui si tratta di una persona che per motivi suoi ha inteso, anche affermando il falso, riconoscere una sua paternità ed oggi, per motivi suoi, vuole invece annullarla».
«Per motivi suoi», cioè non «miei» – tutta qui, la differenza. 

sabato 27 ottobre 2012