Un box
a pag. 33 de la Repubblica di giovedì 27 giugno mi offre l’occasione di intrattenermi
su una questione che avrei voluto affrontare già da tempo. Questione rilevante,
per un blogger, quella della «fine dei blog», ma, ogni volta che mi accingevo a
trattarla, d’un tratto mi
appariva frivola o comunque a rischio di scivolare, da un lato, nell’autoreferenzialità
e, dall’altro, nel tecnicismo. In buona sostanza, il rischio era quello di
affrontare la questione eludendo il suo aspetto più importante, che a mio
parere è centrale e ineludibile: quello relativo alle ragioni che spingono a
mettere in rete (web) un diario (log). Senza far chiarezza su cosa sia un log,
e quale carattere assuma quando dal taccuino privato passa al web, ogni
discussione sulla blogosfera diventa un ginepraio di fraintendimenti. Un diario
è una raccolta di scritti relativi a cose o fatti che sono in stretta relazione
all’autore: non ha importanza quale sia la natura dei temi trattati, quale sia lo
stile scelto per trattarli o quale sia la frequenza delle pubblicazioni, l’aspetto
peculiare è il carattere personale della scrittura, di là dagli elementi che ne
consentono un giudizio di merito. Cerco di
dirlo meglio: ciò che caratterizza un blog rendendolo differente da una
qualsiasi altra pagina pubblicata online è un io narrante che, anche quando è dissimulato
in un tu o in un noi che sono meri espedienti retorici, fa della scrittura un
momento di intermediazione tra pubblico e privato. Ma forse anche così non è
abbastanza chiaro, e sarà meglio che ricorra a qualche esempio.
Prendiamo
la classifica di BlogBabel e cominciamo a scorrerla. Il blog di Beppe Grillo è
un blog? Assolutamente no: è un’agorà telematica. Il Post o Giornalettismo?
Certamente no: sono giornali online. La ventisettesima ora o Tvblog? Manco per
niente: sono dei magazine. Manteblog e Piovono rane? Sono blog: hanno un io
narrante, la periodizzazione della scrittura risponde a un’esigenza personale,
l’intermediazione tra pubblico e privato ricorre a un metatesto che ha
articolazione diaristica. Arrivo a fine a pagina e tra le prime 100 testate in
classifica non conto più di 20 blog. Se gli altri 80 chiudessero le loro
pubblicazioni, potremmo dire che la blogosfera ha subìto un collasso? A mio
modesto avviso, no.
Se ne
parla da almeno due o tre anni, e il giudizio pressoché unanime è che la crisi
della blogosfera sia in larga misura da imputare ai social network, in primo
luogo a Facebook e a Twitter, che offrirebbero il vantaggio di una più
immediata interattività. Ecco, fin da questo primo dato, d’altronde
incontestabile se avulso da ogni considerazione sul tenore di interattività relativa
al mezzo, a me pare che si commetta l’errore di ascrivere al volume della
blogosfera di qualche anno fa molto di quanto non le appartenesse davvero. In altri
termini, io credo che molti di quelli che erano considerati blog, e formalmente
lo erano, in realtà non lo fossero: erano embrioni di homepage di Facebook o di
Twitter, che aspettavano di venire alla luce. Dirò di più: una discreta quota
di «scrittura da social network» era già presente anche nei blog che almeno formalmente
erano tali, e questo, a mio parere, spiega perché anche i blogger
ancora attivi hanno ridotto più o meno drasticamente la loro produzione, trovando
nella parallela attività sui social network il fisiologico drenaggio di quanto
prima postavano sui propri blog. Mi pare che una conferma sia nella contrazione
del numero dei commenti ai post e dei link che rimandano ad altri post: non
sapevo se si trattasse solo di una mia impressione, ma ne ho trovato riscontro
in qualche studio ampiamente documentato. È che il chiacchiericcio che prima
affollava le pagine dei commenti, non di rado assai sterilmente, si è
trasferito nel suo luogo d’elezione, che è la piazza dei social network, mentre
il link si trasformato in like o in retweet.
A
questa «fine dei blog», insomma, io non credo molto: penso piuttosto che la blogosfera
vada scremandosi della superflua schiuma che ne ingrossava il volume da
sovranatante. Poi, sì, ci sarà pure chi non ha più niente da dire dopo aver detto tutto quello che aveva da dire, ci sarà chi avrà pensato al blog come alla vetrina nella quale esporsi per trovare un acquirente e deluso ha chiuso bottega, ci sarà chi si è sposato, ha fatto figli, ha cominciato a lavorare e non ha più trovato tempo. E tuttavia è indubbio che ci sia ricambio. Qui la blogosfera si contrae, lì si espande.
A parte Di Angelo Acquaro so poco, e quel poco è quanto ho origliato dagli aficionados de la Repubblica, che di solito sono assai teneri con tutte le firme del giornale, ma con lui vedo sono assai duri: se devo esprimere un parere personale sulla base di ciò che leggo nel suo box, è durezza meritata. Angelo Acquaro è superficiale, ha scrittura sciatta, rimastica luoghi comuni, partorisce espressioni di incredibile volgarità come «sfogatoi virtuali», che sono anche al di sotto del livello di una Soncini prima della ripulitina.