1. «Quale
estensione intendono dare gli antiparlamentaristi al principio di legislazione
diretta ed in che modo intendono intrecciarla al funzionamento degli istituti
sociali, posto che l’organizzazione del governo, anche ridotto ad una macchina
che applichi le deliberazioni del popolo, non possa abbandonarsi al criterio
personale di alcuni uomini, sottratti ad ogni contatto popolare, per non far
essi parte di un’assemblea deliberante?». A porsi la domanda è Arturo Labriola
nel primo di tre articoli che uscirono su Critica Sociale nel 1897, in polemica
con «quanti propongono una organizzazione tale della legislazione diretta, per
mezzo della quale ogni traccia di governo parlamentare sia completamente tolta
via», al fine di eliminarne i guasti, «i quali, in verità, se si ammettono
tanto gravi e così rivoltanti, non possono eliminarsi se non con la più
radicale distruzione del sistema che vi dà organicamente origine». Polemica che
in generale era rivolta ai fautori della democrazia diretta, ma che nello specifico
aveva per oggetto uno dei suoi strumenti, quello della pratica referendaria:
Arturo Labriola vede nel referendum, laddove esso diventi uno strumento di
legislazione corrente, gli stessi pericoli che nella democrazia diretta sono
stati segnalati fin da Tucidide, e che in buona sostanza sono relativi al
rischio di imboccare quella che per Kant è «la via che porta al dispotismo». Dopo aver brevemente descritto il modello di democrazia diretta proposto da uno
dei suoi più convinti sostenitori, il quale teorizza un sistema legislativo
basato su un assemblearismo permanente che proprio nella pratica referendaria
trova il suo motore deliberativo, Labriola chiede: «Tralasciando obbiezioni che
faremo in seguito ed ammesso ciò che non sarà mai [...], sarebbe questo un modo
serio di far funzionare la macchina politica di un grande Stato? [...] Qui
occorrerebbe pensare ad una nazione la quale, anziché preoccuparsi della sua
vita materiale, stesse tutto il santo giorno nel foro ad ascoltare i
novellissimi Ciceroni pronti ad imbrogliarla non diversamente dagli antichi.
Ora, se tutto ciò era possibile nelle vecchie democrazie, che erano
organizzazioni di liberi divisi in classi fra loro egualmente sfruttanti il
lavoro degli schiavi [...], non lo è punto nelle democrazie moderne, fra le
quali si suppone che ciascuno abbia da procurarsi da sé stesso il proprio
sostentamento».
2. Volessimo portare i motivi della polemica di Labriola ai nostri
giorni, segnati da una rimontante infatuazione per la chimera della democrazia
diretta, potremmo chiederci: ma uno può stare tutto il santo giorno a studiare
ogni più minuto aspetto riguardante ogni più minuta questione relativa ai
problemi che esigono in fase deliberativa un parere adeguatamente informato?
Conosciamo la risposta di Gianroberto Casaleggio: la Rete darà vita ad una «realtà aumentata» nella quale il «cittadino» sarà trasformato in «istituzione»
acquisendo una «conoscenza superiore su qualunque aspetto». Risposta che non
convince: anche digitalizzato, il foro pullulerà sempre di Ciceroni. Volessimo,
poi, portare la polemica di Labriola ai nostri giorni per ciò che attiene alla
pratica referendaria, potremmo servirci di un esempio. Tra i dodici quesiti
referendari sui quali i radicali vanno raccogliendo le firme da qualche
settimana vi è quello che propone l’abolizione del finanziamento pubblico ai
partiti politici. Il testo del quesito (qui) è lungo 15.922 battute spazi inclusi. Ho
provato a dare una rappresentazione grafica alla scheda referendaria relativa a
questo quesito e la riproduco qui sotto.
Data
l’esperienza dei radicali in ordine alla presentazione di referendum alla
Corte Costituzionale, non vi è alcun dubbio che il quesito sia formulato in modo ineccepibile. Di più: tenuto conto di tutti i referendum proposti dai radicali e rigettati dalla Corte Costituzionale, direi che il quesito non potesse essere formulato diversamente. Ma la questione che esso pone mi pare sia evidente: quanti elettori lo leggeranno prima di sbarrare la casella di preferenza? Meglio ancora: pur leggendolo integralmente, quanti riuscirebbero a comprenderne «qualunque aspetto»? E tuttavia sulla lenzuolata si legge il titolo che riassume il senso del quesito: Abolizione del finanziamento pubblico ai
partiti politici, sì o no? Non vi è alcun dubbio che lo riassuma fedelmente, ma perché il dubbio sia fugato senza alcuna possibilità di riproporsi è indispensabile un minimo - anche solo un minimo - di fiducia in chi ha steso il quesito. Fiducia, si badi bene, che non è solo relativa alla sostanziale aderenza del testo al suo titolo, ma anche alla ineccepibilità formale indispensabile a rendere efficace la volontà espressa dal risultato della consultazione referendaria. Fiducia che fu riposta, in situazione del tutto analoga, col referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai
partiti politici
che si tenne nel 1993, dove il sì ottenne il 90,1%. Sappiamo che della volontà popolare non si tenne alcun conto e possiamo imputare questo vero e proprio crimine alla capacità della casta partitocratica di aggirare
l’ostacolo posto dall’esito di quel referendum. Ma il punto è questo: il modo in cui era posto quel quesito non fu in grado di impedirlo.
E Labriola ci spiega come e perché: «In qualunque forma di società [...] la legislazione diretta è incapace, per sé sola, di corrispondere ai bisogni dell’amministrazione pubblica. Essa può immaginarsi come un correttivo del sistema parlamentare, non come un eliminatore. Ma qual correttivo è realmente efficace? Pur troppo, no; la legislazione diretta non esclude né la corruzione, né l’imbroglio, né il tradimento, e forse, sotto un certo aspetto, come mostrano le vecchie democrazie classiche, li fomenta. È almeno un mezzo rivoluzionario? Recisamente, no. La legislazione diretta o seconda la politica dominante, ed allora è inutile; o
l’avversa, ed allora è impotente. Nei sistemi in cui accanto alla legislazione diretta sta il parlamento, la forza militare dello Stato, il potere esecutivo e la burocrazia dipendono soltanto dalle Camere dei rappresentanti. Senza dubbio queste, se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi». Come dargli torto?
3. Con una delle sue felicissime uscite, qualche giorno fa, Massimo Bordin ha detto: «La
democrazia diretta si chiama così perché c’è sempre qualcuno che
la dirige» (Radio Radicale, 27.6.2013). Ben detto, così riassumendo due o tre scaffali di letteratura scettica, se non avversa, alla democrazia diretta. E tuttavia sarà il caso di rammentare che il referendum altro non è che «strumento di democrazia diretta»: correttivo inutile o impotente, se vogliamo riconoscere come fondate le riflessioni di Labriola. Prevengo la più scontata delle obiezioni, riprendendo la vulgata più comunemente evocata a fronte di questa critica sollevata al più decantato tra gli strumenti di democrazia diretta: ma il divorzio, l’aborto, non li dobbiamo ai referendum? Errore: li dobbiamo alle rispettive leggi licenziate dal parlamento, i referendum si limitarono a confermarle rigettando la proposta di abrogarle.