Alle
Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza
alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd
raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla
Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel
2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più
di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo
sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente
inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date
dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la
quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in
cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni,
qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di
sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in
termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se
questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi
risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di
distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso
del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per
oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti
persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che
diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio
miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi,
per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo
duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi
affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino
della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a
vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei
bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando
i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno
un riassetto.
lunedì 26 maggio 2014
domenica 25 maggio 2014
«Giudaica perfidia»
Non
ho ancora letto «Giudaica perfidia»
di Daniele Menozzi (Il Mulino 2014), provvederò al più presto, e tuttavia,
dando per certo che la recensione di Sergio Luzzatto (La radice dell’antisemitismo – Domenica
de Il Sole-24 Ore, 25.5.2014) dia
fedele esposizione di quanto vi è contenuto, non riesco a trattenermi dal
sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta
di accreditare.
Prima di passare a esporla, però, vorrei aprire un inciso sull’espressione
che ho usato poc’anzi – «fedele esposizione» – e chiedere al mio lettore di
cercare ogni possibile locuzione alternativa ad essa. Fatto? Bene, per «fedele»
avete trovato altro che «onesto», «leale», «sincero», ecc.? Sono certo che non
siete riusciti ad andare oltre tali sinonimi, e che comunque tutti avete
cercato tra quelli relativi a «fedeltà», intesa come «correttezza», «attendibilità», «esattezza», ecc., piuttosto che tra quelli relativi a «fede»,
nelle accezioni che la connotano come virtù teologale del cristiano. È questo,
infatti, uno di quei casi in cui si rende manifesta l’erosione di senso che fin
dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo ha prodotto a danno di quei termini,
per lo più greci o latini, che gli è tornato utile parassitare: con «fedele» il
parassitamento non è riuscito a impossessarsi interamente del termine, ed ecco,
allora, che l’aggettivo non smette del tutto di rievocare la dea Fides, che
fece la sua comparsa nel Pantheon romano più di trecento anni prima che
nascesse Cristo, per andare a personificare la sacralità della parola data come
fondamento dell’ordine sociale (cfr. Mario Pani e Elisabetta Todisco, Società e
istituzioni di Roma antica, Carocci 2005). Bisogna aspettare il IV secolo dell’era
volgare perché «fides» cominci a significare «credo» e perché per «fidelis» si cominci a intendere «credente»,
ma anche allora «fidus» non smetterà di significare «onesto», «leale»,
«sincero», ecc., come fin lì d’altronde era sempre stato.
Il perché di questo
inciso è presto spiegato: Daniele Minozzi sembra far sue le conclusioni degli
studi condotti intorno alla metà degli anni Trenta dello scorso secolo da Erik
Peterson, «un oscuro professore di teologia» che «muovendo da un’ampia raccolta
di testi antichi e medievali» arrivò a sostenere che «l’aggettivo latino
perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione
di perfido, mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di infedele».
Tesi che senza dubbio fu fatta propria da Jacques Maritain, il quale senza
dubbio riuscì a convincere Pio XII, prima, e Paolo VI, poi, lungo il faticoso
itinere che portò a una traduzione del Messale del Venerdì Santo di Pio V nella
quale gli ebrei non fossero più dichiarati «perfidi», ma «increduli» (cfr.
Andrea Nicolotti, Erik Peterson, Libreria Editrice Vaticana 2012), e che
tuttavia è tesi palesemente infondata, come fu ampiamente argomentato da chi
scrisse che di «lodevole» in essa vi fosse «solo la buona intenzione» (cfr.
Bernhard Blumenkranz, Perfidia, Archivium Latinitatis Medii Aevi 22/2-1952):
com’era possibile dare a «perfidi» un significato diverso da quello che papa
Gelasio
(cfr. Gelasio, Deprecatio,
10), di poco posteriore alla primigenia tradizione scritta dell’«oremus et pro
perfidis judaeis», allegava alla «judaica falsitas» nel solco di una tradizione che risaliva alle Omelie contro i giudei di San Giovanni Crisostomo? La perfidia judaeorum è da subito, e sarà sempre, per oltre quindici secoli, non già
l’incredulità riguardo al fatto che Cristo sia il figlio di Dio e il Messia, ma il vizio morale che li condanna ad essere inaffidabili e sleali, dunque socialmente pericolosi.
Ciò detto, dunque, il libro di
Daniele Menozzi trova incidente fin dal sottotitolo, che è Uno stereotipo
antisemita tra liturgia e storia, e prim’ancora di leggerlo mi costringe a storcere il
muso: non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia
cristiana e, se l’intenzione di Erik Peterson può benevolmente essere considerata
benevola, resta di fatto che il suo lavoro sia un falso storiografico. Accreditarlo
come attendibile è un ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede»
che piega l’evidenza a un interesse di parte.
Quella volta che la Magnani posò per il Merisi
Le relazioni tra cinema e pittura sono state oggetto di innumerevoli studi e penso non ci sia troppo da aggiungere. Non a torto, al riguardo, si è scritto che in ogni film di
qualità, e non solo, sono immancabili, più o meno riconoscibili, più o meno deliberate,
afferenze da capolavori d’arte antica o moderna, talvolta in forma di veri e propri
tributi, vere e proprie citazioni, com’è nel caso in cui un dipinto arrivi a
trovare nel fotogramma la trasposizione dei suoi peculiari elementi formali, talaltra
in forma di mera ricreazione di atmosfera, com’è nel caso in cui le soluzioni
dell’uso di luce e colore trovino più o meno riuscita coincidenza con l’aria in
cui è sospesa la scena rappresentata sulla tela (cfr.
Pascal
Bonitzer, Décadrages. Cinéma et peinture, Editions de l’Etoile 1985; Jacques
Aumont, L’œil interminable. Cinéma et peinture, Librairie Séguier 1989; Antonio
Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi 2002).
Come stato rilevato da numerosi autori, il cinema di Pier Paolo Pasolini non fa eccezione coi frequenti ed espliciti rimandi
a Giotto, a Piero della Francesca, a Masaccio, a Bonnard e a Pontormo (cfr. Pietro Montani, in: AA.VV., Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, a cura di Leonardo
De Franceschi, Lindau 2003). Lascia interdetti, invece, l’articolo a firma di
Marco Bona Castellotti apparso su Il Foglio di venerdì 23 maggio (Quanto si è
nutrito di realismo caravaggesco il cinema di Pasolini), nel quale si avanza
una tesi balzana: in Mamma Roma (1962) vi sarebbero richiami alla Morte della
Vergine (1605).
In realtà, in quel film vi è una citazione del Cristo morto (1485) di Andrea Mantegna,
In realtà, in quel film vi è una citazione del Cristo morto (1485) di Andrea Mantegna,
ma Marco Bona Castellotti non la coglie, per
trovare assai caravaggesche «le sbarre del carcere dove Ettore, il figlio
dell’umanissima puttana, giace morto». Ignorato un Mantegna che più Mantegna non si può, va a trovare un Caravaggio, pochi fotogrammi più in là, in un dettaglio che dovrebbe aver trovato ispirazione in un analogo caravaggesco, probabilmente in quello che si osserva nella Decollazione di San Giovanni Battista (1608), comunque non citato nell’articolo.
Ora, se la logica non ci vien meno, un morto steso su un tavolo si può ritrarre in cento modi diversi, ma almeno uno potrà evocare il Cristo morto del Mantegna, e quello scelto da Pasolini indubbiamente lo evoca. Ma in quanti modi si può rappresentare una finestra munita di sbarre? E in cosa è caravaggesca quella che Pasolini mette in Mamma Roma?
Basterebbe a farci abbandonare la lettura dell’articolo, se non fosse che Marco Bona Castellotti aggiunge subito, prima che si abbia il tempo di appallottolare il giornale per gettarlo con gesto plastico nel cestino, che trova somiglianza tra la Madonna ne La morte della Vergine e «lo stupefacente primo piano di Mamma Roma e delle donne che accorrono dopo la notizia della morte del ragazzo».
Davvero arduo capire in cosa sia possibile trovare una similitudine di posa o di espressione, ma è che deve farci difetto l’immaginifica sensibilità di Marco Bona Castellotti, virtù che forse non torna utile a scrivere un articolo serio, ma a deliziare i gonzi senza dubbio.
Basterebbe a farci abbandonare la lettura dell’articolo, se non fosse che Marco Bona Castellotti aggiunge subito, prima che si abbia il tempo di appallottolare il giornale per gettarlo con gesto plastico nel cestino, che trova somiglianza tra la Madonna ne La morte della Vergine e «lo stupefacente primo piano di Mamma Roma e delle donne che accorrono dopo la notizia della morte del ragazzo».
Davvero arduo capire in cosa sia possibile trovare una similitudine di posa o di espressione, ma è che deve farci difetto l’immaginifica sensibilità di Marco Bona Castellotti, virtù che forse non torna utile a scrivere un articolo serio, ma a deliziare i gonzi senza dubbio.
martedì 20 maggio 2014
Selfie
Non
andrò votare, ma da stasera cercherò di tenermi lontano il più possibile da tv
e giornali per resistere alla tentazione di votare Grillo che mi prende ogni
volta che Renzi e Berlusconi aprono bocca, tanto più prepotente quando ad aprirla
sono i cazzabubboli e le sciacquette che reggono loro la coda. Di Grillo sapete
cosa penso, ne ho scritto in più occasioni, e senza risparmiarmi toni duri, e
non ho cambiato idea, ma per quanto continui a ritenerlo un pericolo, e non da
poco, dargli modo di spazzare via quelle due merde è un pensieraccio che mi ha
titillato e mi titilla. Tipo grattarsi a sangue quando
nessun antistaminico riesce a vincere il prurito: non si fa, ma resistere è difficile.
Fermo
lì, lettore. Prima di lasciare un commento stronzo, rileggi: ho detto che non
andrò a votare. Non c’è bisogno tu mi dica che a votare Grillo mi pentirei un
istante dopo, lo so di mio. Sarebbe lo stesso errore che fece quella gran testa
di cazzo di Benedetto Croce, quando scrisse che il fascismo era una sgradevole
seccatura, ma costituiva un passaggio necessario per la restaurazione dello
Stato liberale, ti va bene il paragone? Non andrò a votare: ti ringrazio per l’apprensione,
lettore, la prendo come segno d’affetto, ma non è necessaria.
Anzi,
visto che a Ottoemezzo c’è la Serracchiani, dammi un istante per recuperare il
telecomando e cambiare canale, sennò
’sto selfie viene mosso.
#vinconoloro
Solo
negli ultimi minuti s’è incartato un poco, per il resto l’incursione di Grillo
a Porta a porta è stata estremamente positiva, raggiungendo il fine che si era
posto. Ovviamente il tutto va giudicato considerando i parametri del pubblico
che Grillo intendeva raggiungere, perché, se valutiamo un rap pensato per la
suburra con l’orecchio di un dirigente della Decca, ci sembra orribile. Credo che
la performance di ieri sera sia analoga a quella che Berlusconi tenne ad
Annozero, che non smosse un solo voto tra chi già era orientato a votarlo
comunque o a non votarlo neanche morto, ma gliene procurò parecchi tra quanti
fin lì avevano deciso per l’astensione. Grillo è stato capace di raggiungere e
convincere un buon uno o due per cento di quei qualunquisti scoglionati che
ritengono – neanche a torto, in fondo – che votare conti poco o nulla. Fosse
possibile sapere qualcosa dai sondaggi, ora che non possono essere resi
pubblici, correrei a leggere se e di quanto, dopo ieri sera, è calata la
percentuale degli astenuti e degli indecisi. Avete voglia a dire che è una
bestia, la bestia sa il fatto suo.
lunedì 19 maggio 2014
Un frego
In
attesa che venisse divulgato il testo integrale della prolusione tenuta da
Bergoglio all’assemblea della Cei e che andasse in onda la puntata di Porta a
porta che ospita Grillo, mi lasciavo andare a riflessioni tutto sommato oziose,
sulle quali è opportuno un frego. Per avermi dato modo di risparmiarmi altre inutili ciance, in cuor mio ringrazio Sandro Magister (Settimo sigillo) e Bianca Berlinguer (Piazza pulita), che del rispettivo dilatarsi e contrarsi del loro rispettivo sistemino mi hanno mostrato il lato buffo, che paralizza ogni tentativo di analisi per un irresistibile conato di rispetto. Il fumo di Satana in Vaticano? Vapore di sauna per alti prelati. Il M5S oltre il 30%? Impossibile.
Il Pasquino di Caravaggio
Sul
farsi prendere la mano dinanzi a un’opera d’arte mi sono già intrattenuto in
cinque o sei occasioni su queste pagine, oggi vi ritorno sollecitato da un
articolo a firma di Maddalena Spagnolo apparso ieri su Domenica de Il Sole-24 Ore,
che fin dal titolo (Il Pasquino di
Caravaggio) offre un altro esempio di quel piegare le evidenze a un’interpretazione
che poi ci viene offerta come folgorante scoop. Peccato, perché l’articolo, che
una nota in coda al testo ci informa essere il sunto di una relazione che l’autrice
ha tenuto ad un convegno su Society and
Culture in the Baroque Period (Roma, 17-19 marzo 2014), sembrava accogliere
sennatamente il «limite» oltre il
quale l’analisi si fa «sfida» così
spesso destinata a un esito tragicomico. Ma veniamo al dettaglio.
Dopo aver accuratamente
ripercorso le vicende relative al frammento scultoreo «dissotterrato a Roma nel tardo Quattrocento e presto denominato
Pasquino», per secoli ritenuto «opera
d’arte antica di eccelso valore» in virtù della «resa accurata della muscolatura delle due figure», Maddalena
Spagnolo ci dice che l’esserci giunto mutilo ha «stuzzicato» intere generazioni di artisti e di critici alle più
bislacche ipotesi riguardo a cosa raffigurasse originariamente: sulla base di
solidi argomenti oggi
è concordemente riconosciuto come ciò che resta di «una scena di pietas militare» (quasi certamente un Menelao che
sorregge un Patroclo morente), ma in passato si offrì alle più fantasiose
interpretazioni, di quelle affini al «guardare
le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini
nascoste», con ciò segnando la superiorità del «nostro approccio» alle opere d’arte del passato per «il pregio di essere filologicamente più
corretto rispetto a quello degli artisti di un tempo…»; e qui scapperebbe
un «brava», ma non si fa in tempo, perché
la frase chiude a questo modo: «… ma ha
il limite di allontanarci dal loro modo fantasioso di guardare alla statua».
E che, sarebbe un «limite», questo?
Per Maddalena Spagnolo, in buona evidenza, sì, e non indugia a darcene conferma
con la fantasiosa ipotesi che il Caravaggio si sarebbe ispirato al Pasquino per
la sua seconda versione del San Matteo e
l’angelo che oggi si ammira nella Cappella Contarelli in San Luigi dei
Francesi, «qui presentata in versione speculare», ribaltata sull’asse verticale, per meglio venire incontro alla tesi.
«La
postura del santo, con il ginocchio poggiato sullo sgabello, ricorda da vicino
quella di Pasquino la cui gamba spezzata all’altezza del ginocchio tocca il
piedistallo», e «il capo dell’apostolo che si volge di scatto e si inarca
leggermente per dialogare con l’angelo crea un analogo contrapposto con l’arco
disegnato dal braccio» dando all’insieme un «analogo tipo di torsione
serpentinata», mentre di poi «perfino la mano sul libro […] rievoca la mano che
sorregge il corpo di Patroclo nel gruppo scultoreo» e «le scanalature delle
costole del petto che emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo si
apprezzavano un tempo anche dal chitone di Pasquino, come si vede in un disegno
di Francisco de Hollanda», prima che fossero cancellate;
d’altronde,
«Pasquino troneggiava all’angolo di Palazzo Orsini, a poche centinaia di metri
dalla chiesa di San Luigi dei Francesi» ed «è possibile che anche Caravaggio,
nel momento in cui si trovò a ideare una pala d’altare destinata a rimpiazzare
il lavoro di uno scultore, Jacon Cobaert, si sia soffermato a guardare quel “nobilissimo”
gruppo», per ispirarvisi: senza riuscire a fare lo stesso scoop di Maddalena Spagnolo, non era lo stesso Roberto Longhi a
ravvisare in quel San Matteo «una
rinnovata “maniera grande” [e] l’adozione di un “costume aulico” e “quasi una
classicità”»?
Siamo
dinanzi a molte sconvenienti forzature. Il fatto che un autorevole studioso del
Caravaggio abbia intravvisto stilemi classicheggianti in quel San Matteo porta
di fatto prove certe alla fantasticheria? E se l’autorevolezza di Roberto Longhi è
surrettiziamente richiamata per dare solidità alla tesi esposta, si può poi sminuirla con l’implicito rilievo che non fu in grado di cogliere così evidenti
analogie con Pasquino?
Certo, è possibilissimo che Caravaggio abbia avuto modo
di soffermarsi a studiare Pasquino e a trovarvi più o meno conscia ispirazione
per il suo San Matteo, ma gli elementi formali che lo caratterizzano sono così
intelligibilmente riferibili al residuo gruppo scultoreo? Dov’è l’analogia tra
la mano del santo poggiata sul libro e quella di Menelao che sorregge il torso
di Patroclo? Dov’è l’analogia tra «le scanalature delle costole del petto che
emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo» e quelle che nessuna
incisione raffigurante Pasquino, nemmeno quella di Francisco de Hollanda, può riportare, e
per la semplice ragione che Menelao ha un vigoroso pettorale destro e quello sinistro è coperto da un pannato? E quanti dipinti della stessa epoca, caravaggeschi e no, ritraggono figure con
«analogo tipo di torsione
serpentinata»? Tutte ispirate a Pasquino?
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.
«Votate chi vi pare, ma non i buffoni»
«Votate
chi vi pare – ci ha esortato Matteo Renzi – ma non i buffoni». Poteva fare nomi
e cognomi, risparmiandoci così la seccatura di dover tirar giù dagli scaffali i
dizionari per cercare di capire a chi possa attagliarsi meglio il termine. Pazienza,
procediamo.
Direi debba escludersi l’accezione letterale, quella che indica il «buffone»
nell’«uomo, per lo più fisicamente deforme, che nell’antichità, ma specialmente
nel Medioevo e nel Rinascimento, aveva il compito di rallegrare coi suoi lazzi il
principe, di cui era spesso anche il consigliere» (Treccani), definizione che
mi richiama alla mente solo Giuliano Ferrara, che però stavolta non si candida.
È evidente che il termine debba intendersi nelle sue accezioni estensive e
allora sarà il caso di affidarci al Casalegno-Goffi (Utet, 2005), che è il più
vasto lemmario di epiteti ingiuriosi, nomignoli offensivi, insulti, parolacce,
ecc. Anche stavolta non ci delude: «buffone» sta per «persona che manca alla
parola data». In verità, sta pure per «persona poco seria», «individuo
inaffidabile», ecc., ma in fondo la serietà e l’affidabilità non sono qualità
che si saggiano sulla capacità di rispettare un impegno preso?
E allora già è
più chiara l’esortazione di Matteo Renzi: «Votate chi vi pare, ma non chi manca
alla parola data», che però così diventa una micidiale zappata sui piedi: fin
qui che cosa ha mantenuto di tutto ciò che ha promesso? Piuttosto che infilare
nell’urna una scheda che gli dia fiducia, verrebbe voglia di ficcargli tutte
quelle sue slide in culo.
domenica 18 maggio 2014
Tragico epilogo di una fede ottusa
Quando
Gianfranco Ravasi apre a coda di pavone il ventaglio di citazioni dotte che
solitamente infarciscono i suoi articoli, viene il sospetto che sia mosso esclusivamente
dalla premura di dimostrarci che non tutti i preti sono zotici, il che ci
intenerisce pure, ma spesso non basta a farci giungere in fondo al pezzo. Così la
scorsa settimana, su Domenica de Il Sole-24 Ore, dove, per recensire
una tragedia in
tre atti di Ermanno Bencivenga (Abramo
– Aragno, 2014) liberamente ispirata all’episodio biblico del sacrificio di
Isacco (Gen 22, 1-19), Sua Eminenza
ha trovato modo di infilarci Davide Maria Turoldo, Rembrandt van Rijn, Marcel Proust, Benozzo Gozzoli, Linard de Guertechin,
Leszek Kolakoski, René Girard, Immanuel Kant, Soren Kierkegaard… Non fosse stato per quel titolo così
intrigante (Tragico epilogo di una fede
ottusa), giunti a metà del pezzo, avremmo girato pagina. Grazie a quel
titolo, invece, siamo andati avanti nella lettura e facendoci largo tra le
citazioni, che probabilmente volevano dare autorevole argomentazione all’assunto
che «ottuso è bello», abbiamo potuto farci una mezza idea del libro recensito.
Ermanno
Bencivenga immagina che le cose vadano diversamente da come ce le racconta la
Bibbia, che Abramo esegua l’ordine divino e sgozzi Isacco, per poi avere l’agghiacciante
rivelazione, e proprio da chi gli ha comunicato quell’ordine, che non fosse da prendere
alla lettera: «La prova era avere abbastanza fede in Dio da saper rifiutare
quelle parole perché la tua fede ti insegnava che non potevano venire da Lui,
non potevano essere quel che Lui voleva da te».
Costruzione letteraria
affascinante, ma che non regge sul piano dell’antropologia veterotestamentaria:
Jahvè ha la rozza logica del pastore che dispone a piacimento delle sue pecore,
non lascia loro margine a interpretare le proprie volontà diversamente da come
sono espresse letteralmente, tanto meno a interpretarle in modo opposto. Jahvè
manda un angelo in extremis a fermare la mano di Abramo, ma prima vuole avere
la prova che i suoi ordini siano stati recepiti come categorici, per quanto insensati o atroci possa essere apparsi a chi li ha ricevuti: trae forza esclusivamente dalla paura e dalla soggezione, e forse è proprio in ciò che si rivela come più fedele proiezione del portato psicotico che lo ha prodotto.
Per dirla come la dice Paolo nella Lettera ai
Romani, Jahvè pretende che in Lui si abbia fede «sperando contro ogni speranza»
(Rm 4, 18), annullando nella fede ogni ragione, annullando nell’amore per Lui
ogni altro sentimento: Jahvè pretende tutto e, quando chiede «spes contra spem»,
esige
l’estremo sacrificio,
l’unica cosa a potergli dar modo di esistere.
venerdì 16 maggio 2014
La metterei così
La
metterei così. Direi che quanto la Procura di Messina sembra aver raccolto per
contestare a Francantonio Genovese i gravissimi reati che muovono alla
richiesta del suo arresto m’infiacchisce un pochino il principio garantista, che
s’infiacchisce ancor di più nel leggere la sua biografia politica, ma ritrova subito vigore nel constatare che l’imputato non ha più modo di
inquinare le prove, non è più in grado di reiterare quei reati e, se avesse
voluto scappare, fin qui avrebbe avuto modo di farlo, e non l’ha fatto. Poi c’è
la dura presa d’atto di una realtà che dei principi non sa cosa farsene: ardono
i torbidi sociali e c’è bisogno di mettere qualche fetente nel tritacarne, il primo
che capiti a tiro, meglio se sa di viscido. E dunque prevarrebbe l’istinto
bestiale, ancora più bestiale di quello che pretende il capro espiatorio, che è
quello di lasciare che la plebe l’abbia, così si calma, e lasciare passi il
tempo, così che alla carne tritata sia concessa la pietà dovuta con l’ammettere
che qualcosa, alla fin fine, al paese l’ha pur dato. Poi basta un Manlio Di
Stefano e si ritorna in se stessi, ci si pente di così brutti pensieri, e dando
una sistematina al nodo della cravatta si va al lavoro indignati di come cazzo
tentano di farti diventare, ’sti
italiani di merda, a te che dentro sei tutto anglosassone.
giovedì 15 maggio 2014
L’analfabetismo religioso in Italia
Sembrerebbe
che L’analfabetismo religioso in Italia (Il Mulino, 2014) non dica nulla più di quanto già sapessimo: statisticamente
rilevanti, qui da noi, «l’ignoranza totale della Bibbia» e «la produzione di idee fantasiose sulla struttura dottrinale o
culturale della fede», e pare vada sempre peggio. A naso direi si tratti di un lavoro appena un po’ serio
– e certamente molto più serioso, visto che è a cura di Alberto Melloni – del Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi
crede? (Bompiani, 2006) di Maurizio Ferraris, e dico a naso perché ne ho
letto solo il brano che Il Sole-24 Ore
ci ha offerto sull’ultimo numero di Domenica. Anche qui, tuttavia, parrebbe che gli effetti non trovino le cause: se infatti a
Ferraris sembrava quasi non interessassero, perché nel suo lavoro era evidente il
fine di offrirci i più mostruosi esempi di tanta somaraggine, per metterli alla berlina, Melloni (almeno
nello stralcio offertoci da Il Sole-24Ore,
dove comunque sulle cause si intrattiene), a mio modesto avviso, le elude. L’ignoranza
relativa ai testi sacri, ai più semplici rudimenti teologici, ai pilastri della
dottrina e, non ultima, alla storia della Chiesa – scrive – sarebbe dovuta a un
più generale analfabetismo: vero, ma sembra trascurare il fatto che l’analfabetismo
religioso è trasversale a tutti i settori sociali, anche a quelli di cultura
media, e perfino a quelli di cultura medio-alta. Le altre ipotesi che avanza
sono altrettanto deboli: il progressivo esaurirsi della formazione religiosa in
ambito scolastico e una più generale «perdita
di strumenti che risale nella sua stratificazione all’epoca post-tridentina e [che] più plasticamente è rappresentata dalla
soppressione dei primi decenni dello Stato unitario». Tutte cause esogene,
come se le difficoltà incontrate dal cattolicesimo nel mantenere un grado di
penetrazione, che si vuol dare per scontato in passato fosse ampio e profondo, debbano
essere cercate nei fattori che l’hanno sradicato dal vissuto degli italiani.
Questo può esser vero, e in buona misura lo è, per quanto attiene alla professione
di fede, alla pratica di devozione, all’obbedienza al magistero e alle più
esteriori manifestazioni di appartenenza alla comunità ecclesiale: ma Melloni
vuol farci credere che ci fu un tempo in cui essere cattolici significava,
in termini statisticamente rilevanti, avere un’adeguata confidenza con il
Vecchio e il Nuovo Testamento, la storia della Chiesa, la teologia, la dottrina,
ecc.? E quando? Neppure nel XIII secolo, via, anzi. Quel poco in più che era nel bagaglio dei fedeli dei secoli passati rispetto a quelli d’oggi vi arrivava per l’esclusiva
mediazione del clero, e in modo tutt’altro che organico. Certo, c’era qualcuno
in più a saper dire quante e quali fossero le virtù teologali, le opere di misericordia
spirituale e materiale, e senza dubbio c’era qualcuno in più ad aprire di tanto
in tanto una Bibbia, ma quanti avrebbero saputo dare una decente definizione
del concetto di transustanziazione, dire in che secolo si tenne il Concilio di
Nicea, e quanti furono quelli di Costantinopoli, spiegare il significato di
termini come concistoro, riassumere quanto sta scritto nel primo e nel secondo
Libro dei Maccabei, dire se venne prima Pio III o Sisto V? Via, è tutta roba
che non è mai entrata nel patrimonio di conoscenze di oltre l’1% dei fedeli,
mentre oggi lo è in quello dello 0,3-0,5%: una «perdita» c’è stata, senza dubbio, ma
è percepita come enorme solo perché nessuno più la vive come carenza, neppure
chi si dice cattolico.
D’altronde, il cattolicesimo non ha mai guardato troppo al pelo nell’uovo.
«Dove andremo a parare»
«Se
non cacciamo di sella gl’inetti e gl’intriganti,
non so dove andremo a parare»
Francesco De Sanctis, Lettera a Carlo Lozzi, 13 agosto 1866
Dei ventuno tomi dell’opera
omnia di Francesco De Sanctis che la benemerita Einaudi sfornò alla fine degli
anni ’60, e che qualche tempo fa ebbi la fortuna di trovare in un negozietto di
libri vecchi a un prezzo irrisorio, confesso con orgoglio di non aver neanche
sfogliato i primi quattordici, quelli che raccolgono i suoi scritti di critica
letteraria. Non mi azzardo a sottovalutarne i meriti in quel campo, sennò mi
becco la rampogna di qualche suo pronipote, dico solo che al ginnasio ho avuto
la sventura di incocciare in una professoressa di italiano che me lo fece venire
a nausea, sicché mi è salutare, oggi, trascurarlo come uomo di lettere,
limitandomi a considerarne l’impegno civile e politico. Ed è riguardo a questo
aspetto che i rimanenti tomi (scritti e discorsi da parlamentare e da ministro,
pagine autobiografiche, epistolario) mi tornano di sovente tra le mani,
procurandomi diletto.
Brav’uomo, il De Sanctis, dunque del tutto inidoneo alla
politica come mestiere, e tuttavia capace di automedicare le disillusioni e le ferite che avrebbe dovuto riportare dagli anni in cui le si offrì, come dimostra una pagina di Un viaggio elettorale, nella quale al patente fallimento della prima legislatura postunitaria oppone una formidabile speranzuola: i posteri trascureranno i
«particolari» e saranno meno severi di quanto i contemporanei non possono e non devono fare a meno di essere.
Splendida pagina, che fatalmente torna buona per l’odierno marasma. E dunque, grandeggiando d’animo, saggiamoci nella parafrasi: siamo nella merda, ed è giusto esser severi nel giudizio, ma consoliamoci pensando che i nostri nipoti diranno...
No, non funziona. Nonostante masticasse merda anche il De Sanctis, ai suoi tempi c’era ancora margine per chiedersi «dove andremo a parare». Oggi è domanda retorica.
mercoledì 14 maggio 2014
martedì 13 maggio 2014
«boko haram»
«…
la presente per pregarla a fare tutto quello che può
affine di allontanare un
altro flagello, e cioè una legge progettata,
per quanto si dice relativa alla
istruzione obbligatoria…»
Pio
IX, Lettera a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870
«…
la libertà di insegnamento è la cosa più empia del mondo…»
Leone
XIII, Libertas, 20 giugno 1870
«…
quella scuola che si chiama per somma ingiuria neutra o laica,
ma che non è altro
che tirannide prepotente di una setta tenebrosa…»
Pio
X, Editae saepe, 26 maggio 1910
Pare
che «boko haram» significhi «no all’educazione occidentale». Se con «educazione
occidentale» s’intende scuola dell’obbligo, istruzione laica e libertà d’insegnamento,
probabilmente «boko haram» è la versione un tantinello esagerata di roba già
vista.
Tutto sommato, un soffio
L’editoriale
che apre l’ultimo numero de Le Scienze (n. 549, maggio 2014 – pag. 7) non
riesce a dissimulare un più che comprensibile entusiasmo dietro un severo richiamo
alla prudenza: quasi contemporaneamente – scrive Marco Cattaneo – in Europa e
negli Stati Uniti prendono avvio due poderosi programmi di ricerca che, pur con
approcci diversi, sono complementari e promettono, anche se non in tempi brevi,
di offrirci la piena conoscenza dei meccanismi cerebrali che generano il
pensiero e la coscienza; potrebbero volerci venti, trenta, cinquant’anni, e l’esito
è tutt’altro che scontato, ma «in realtà – e qui il fervore prende il
sopravvento – è solo questione di tempo».
Qualche
mese fa, su queste pagine, esprimevo analogo concetto, ma senza troppe carinerie: «Verrà
giorno – scrivevo – che la neurologia prenderà a calci in culo la metafisica»,
ma, nell’aggiungere che «fino ad allora dovremo pazientare come l’uomo
pazientava nella scimmia», usavo un «noi» diacronico e diatopico che, anche senza troppa applicazione, è riconoscibilmente un maledetto vizio
d’astrazione. Marco Cattaneo evita un tal genere di infortunio e risolve la
questione facendo cenno a quel «patto tra generazioni che, in fondo, è una
delle peculiarità che ci rende umani». Molto bello, devo dire. Per di più, è
soluzione lessicale che dà al «pazientare» una dimensione lirica, perfino epica.
Le
generazioni – dovremmo usarle come unità di misura per esser fieri del cammino fatto,
dovremmo usarle al posto dei decenni, per riuscire a pazientare meglio, senza lasciarci andare così spesso a tanto scoramento. La specie umana ha
un’età che approssimativamente è di mezzo milione d’anni: calcolando che fino a
poco tempo fa ci si riproduceva intorno ai vent’anni, non siamo vecchi più di
venticinquemila generazioni o giù di lì. Appena cinque o sei generazioni ci separano
da Porta Pia, non più di una trentina dalla scoperta dell’America, poco più di cento
dall’eruzione che seppellì Pompei, e poco più di duecentocinquanta dalla prima
forma di scrittura, in attesa della quale hanno pazientato
ventiquattromilasettecentoedispari generazioni, e senza mugugnare.
Una
o due generazioni, dunque, ci separano dal poter prendere a calci in culo la
metafisica: pazientare
– tutto sommato, un soffio.
Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo / 2
Dopo
aver chiarito la natura dell’ineluttabile che destinava l’Italia a darsi una
legge sul divorzio, sarebbe necessario un secondo paragrafo sui fattori che lo ritardarono.
Essi, tuttavia, sono già tutti noti in sede di analisi storiografica e
sociologica, quasi interamente riconducibili alla peculiarità italiana di avere
in Roma una doppia capitale, sicché possiamo risparmiarci di ripetere quello
che è già stato abbondantemente detto.
Riguardo a questo aspetto occorre rilevare
solo un dato che può tornarci utile a spiegare cosa aprì la via all’ineluttabile,
e qui torna utile quanto abbiamo detto nel primo paragrafo sulle più comuni
reazioni a ciò che si sente ineluttabile e in sintesi descrivere la posizione
delle forze in campo come diversamente convergenti al calcolo che dava per
improcrastinabile una legge sul divorzio anche in Italia: chi vi si opponeva
sapendo che sarebbe stato vano (1) o meno (3) neutralizzava le forze di chi era
disposto a lasciar che accadesse cercando di farsene una ragione (2) o di dare
al testo di legge un tratto mite (4), dacché si realizzava sul piano tattico
una spaccatura all’interno della Dc che consentiva ai partitini laici e al Pci
di convergere sulle proposte avanzate dai socialisti in Commissione
parlamentare, per portare all’esame delle Camere un testo sul quale la Dc fu
costretta a piegarsi per evitare che su quella legge si consumasse una esiziale
crisi di governo. Se è vero, dunque, come ricordava Giuliano Ferrara nel suo
editoriale di lunedì 12 maggio, che sul referendum che vi sarebbe stato di lì a
quattro anni il Pci recalcitrò e fece di tutto, fino a quando fu possibile, per
evitarlo, battendosi poi a malavoglia per il no all’abrogazione della legge, è
altrettanto vero che il suo impegno in Commissione e in Parlamento fu decisivo.
Anche da ciò il titolo di questo post: l’ineluttabile prese corpo il 1°
dicembre 1970, mentre il risultato che uscì dalle urne il 14 maggio non fece
che renderlo visibile. Tanto più visibile in quanto trasversalmente accettato, e
più come presa d’atto dei mutamenti avvenuti nella società italiana che come
ulteriore spinta ad essi.
Erasmo ha postato in questi giorni l’editoriale che
uscì sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974 a firma di Pier Paolo Pasolini e
in quella pagina questi elementi di analisi erano già tutti presenti: l’esito
del referendum poteva aver avuto l’effetto di uno shock solo per chi non aveva
capito che già quattro anni prima, col varo della legge, era stato il Parlamento
a dar voce all’ineluttabile, facendosi specchio del paese, forse proprio perciò
incapace di leggerne la faccia. Basta rileggere gli atti della discussione
parlamentare che portò all’approvazione della legge per cogliervi il segno del
fatale: le argomentazioni a favore non facevano che fotografare la realtà,
quelle contrarie si limitavano al richiamo di una tradizione che già da tempo
era smarrita. Perciò, nel quarantennale del referendum che confermò la legge
sul divorzio, sarebbe necessaria una adeguata revisione storica, che proprio nella
celebrazione dell’evento trova il maggiore impedimento.
Basti pensare al peso
spropositato che si è soliti dare ai radicali, che in realtà si limitarono a
strepitare sull’onda sulla quale erano montati: la Lid (Lega italiana per il
divorzio) aveva nella sua presidenza un solo radicale (Mauro Mellini), il testo
della legge portava i nomi di un socialista e di un liberale, nel comitato
referendario per il no all’abrogazione i radicali erano una sparuta minoranza.
Ma di questo, nel dettaglio, al prossimo paragrafo.
[segue]
lunedì 12 maggio 2014
Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo
Quando
in Italia non era ancora possibile divorziare, si poteva già farlo in
Inghilterra, dal 1871, in Svizzera, dal 1874, in Germania, dal 1875, in
Francia, dal 1884, in Portogallo, dal 1910, in Norvegia e Unione Sovietica, dal
1918, in Svezia e in Grecia, dal 1920, in Islanda, dal 1921, in Danimarca, dal
1922, in Turchia, dal 1926, in Finlandia, dal 1929, in Austria, dal 1938, almeno
da vent’anni anche in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, negli Stati Uniti e in
Messico, almeno da dieci anche in Giappone, in Australia, nella quasi totalità
dei paesi del Sudamerica e dell’Est europeo. Quanto era ineluttabile che prima
o poi anche in Italia dovesse diventare possibile?
Superfluo rilevare che l’ineluttabile
sia tale solo a posteriori, mentre a priori è solo una previsione fatta in base
a un certo calcolo. Possiamo, allora, riformulare la domanda in altri termini:
quanto era azzeccato il calcolo di chi pensava fosse ineluttabile che prima o
poi anche in Italia sarebbe stato possibile divorziare? Favorevole o contrario
che fosse, diremmo avesse visto giusto, e tuttavia la sua non era che una
previsione.
Nel caso non si abbiano obiezioni a quanto fin qui detto, ci è
lecito porre un’altra domanda: quali elementi concorrevano alla base di quel
calcolo? Senza dubbio, e in primo luogo, direi vi fosse il constatare che in
gran parte del mondo qualcosa avesse irrevocabilmente messo in discussione il
principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. In secondo luogo, che
quel qualcosa avesse forza destinata, prima o poi, a rimuovere quel principio anche
dalle legislazioni che ancora lo facevano proprio, tra le quali quella italiana.
Ciò che il calcolo dava come ineluttabile, dunque, era la presa d’atto della
raggiunta insostenibilità di un principio fin lì ritenuto sostenibile: calcolo
che dava ineluttabile l’introduzione del divorzio anche in Italia nella presa d’atto
che, anche se in ritardo rispetto a tanti altri paesi, anche qui era entrato in
crisi quel sistema di valori in cui l’indissolubilità del matrimonio era un
pilastro.
Un ulteriore passo nel tentativo di comprendere quanto potesse
essere evidente questa crisi, almeno a chi, favorevole o contrario all’introduzione del
divorzio anche in Italia, azzeccava il calcolo che sarebbe stato ineluttabile, può essere fatto col constatare che al fondo delle opposte argomentazioni tra i favorevoli e i
contrari v’era una questione già risolta a vantaggio dei primi: con l’introduzione
del matrimonio civile il vincolo tra i coniugi era destinato a perdere il
carattere sacramentale per assumere quello contrattuale, con tutto ciò che era
implicito per le immancabili clausole di scioglimento.
In pratica, si
verificava quel che per altri versi sarebbe accaduto, prima, con l’abrogazione
della norma che dichiarava il cattolicesimo «Religione di Stato» e poi, con la
revisione del Concordato del 1984, con l’assunzione del principio, in molto ancora
inapplicato, che tutte le confessioni religiose godono di eguale considerazione
dallo Stato laico. In ciò diremmo che il calcolo che dava come ineluttabile l’introduzione
del divorzio nell’ordinamento legislativo italiano era basato sull’assunto di
un inevitabile processo di secolarizzazione della società.
Ciò detto, occorre
aver presente che l’umano ha a disposizione una ridotta gamma di reazioni a ciò
che sente ineluttabile ma indesiderato, le più comuni delle quali sono (1) l’opporvisi,
anche se sa che è vano, o (2) il lasciar che accada, cercando di farsene una
ragione: reazioni opposte, ma che prendono le mosse da un eguale risultato del
calcolo d’ineluttabilità. Altre due hanno segno diverso, ma manifestano lo
stesso stato d’animo verso quel che solo a posteriori si rivelerà ineluttabile
nei sensi e nei modi previsti da un opposto risultato del calcolo, e sono (3) l’opporvisi,
ritenendo che l’ineluttabile sia evitabile, e che dunque ineluttabile non abbia
ad essere, o (4) lasciar che accada, tentando di dare all’ineluttabile senso e modo
diversi da quelli prospettati dal più pessimistico dei calcoli.
Tutte queste
reazioni sono rintracciabili alla vigilia del varo della legge n. 898 del 1°
dicembre 1970. Quando quattro anni dopo si andrà al referendum che ne propone l’abrogazione
sono già tutte fuori gioco.
Fu la
sensazione dell’ineluttabilità della secolarizzazione della società italiana a
sospingere verso l’approvazione del disegno di legge presentato in parlamento
dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini: il referendum che sarebbe
seguito di lì a quattro anni si sarebbe limitato a rendere evidente che era
trasversale ai partiti politici e maggioritaria.
Per il clima culturale dell’epoca era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 – e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una particolare società quale fu quella basata su una economia interamente contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a prodotto della società, invece che a norme eterne.
Ma era esplicita anche in chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi. Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato. Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche qui immanentizzata.
Per il clima culturale dell’epoca era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 – e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una particolare società quale fu quella basata su una economia interamente contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a prodotto della società, invece che a norme eterne.
Ma era esplicita anche in chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi. Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato. Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche qui immanentizzata.
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