giovedì 2 luglio 2015

Moria di gatti


I

Suor Angelina, al secolo Genoveffa Poltronieri, era zoppa da sempre. «Cumme me lassaje cummenzaje a truculia’», confessò un giorno che era in vena di confidenze. Displasia dell’anca, probabilmente, ma a settant’anni e più, tanti ne aveva ai tempi cui rivanno queste memorie, con l’artrosi e l’osteoporosi che dovevano aver fatto il resto, sarebbe stata impossibile una diagnosi certa. Aveva sempre rifiutato una radiografia, disse, e da bambina era stata convinta dai suoi ad accettare la cosa come la volontà di Dio, col sollievo di sei centimetri di rialzo al tacco di una scarpa, che davano al suo passo il ritmo di una duina: struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa. Praticamente da sempre era il factotum nella clinica in cui da una dozzina d’anni tenevo ambulatorio il mercoledì e il sabato, e nella quale era riuscita a sistemare tre nipoti, giardiniere, cuoco e barelliere, fatti venire dal paesino incastrato su un cocuzzolo del Molisano nel quale era nata.
Era lei a venirmi ad aprire, verso le sei del mattino, e la scena si ripeteva sempre uguale: il trillo del campanello, l’inconfondibile rumore dei suoi passi, le due mandate di chiavistello, la sua faccia da topo, l’immancabile «venite, ché mo è asciuto ’o cafè». Una chiavica di caffè, a onor del vero, ma per fumarci sopra la seconda sigaretta della mattinata si poteva pure chiudere un occhio.
La prima sigaretta della mattinata la fumavo in auto, una mezz’ora dopo essermi mosso da casa. Per arrivare in clinica alle sei partivo intorno alle cinque, passavo a prendere i giornali all’unica edicola aperta a quell’ora in città e mi avviavo, controllando di tanto in tanto nello specchietto retrovisore l’alba che mi seguiva fino a superarmi.
Era il momento più bello della giornata. Ormai conoscevo la strada così bene che avrei potuto percorrerla ad occhi chiusi, ma i fari dell’auto proiettavano una luce imperdibile sui costoni di tufo che bordavano da un lato la carreggiata, di un ocra che trascolorava ad ogni curva in suggestioni sempre diverse, talvolta davvero sorprendenti.
Di tanto in tanto incrociavo un camion carico di ortaggi o di legname, qualche pazzo che si allenava per una gara di fondo e, data l’ora, i cumuli di spazzatura che al ritorno non avrei visto più perché di lì a poco rimossi dai netturbini. Al ritorno non c’era più traccia neppure dei topi stecchiti dagli pneumatici delle auto che, abbagliandoli nel bel mezzo del guado, li paralizzavano al centro della carreggiata, lasciandoli lì, ridotti a oscene poltiglie dalle forme a volta davvero assai bizzarre. Spettacoli da dare il voltastomaco, comprensibile che la vita ridotta a carne scomposta venga sottratta alla vista delle donne che vanno a far la spesa e dei bambini che vanno a scuola, e così, premurosamente, accadeva. Tanto più se si trattasse di un gatto o di un cane.
Quei fagotti di viscere esplose sotto le ruote di un’auto mi infliggevano ogni volta domande che non trovavano risposte. Cosa poteva aver valso il rischio di attraversare la strada? Domanda idiota, cui un’altra tentava una risposta: un topo è in grado di concepire ciò che noi umani chiamiamo rischio? Ma pure questa mi sembrava idiota, e un’altra domanda, in risposta a quella, non meno idiota di quella, veniva a tentare invano una risposta: quella inutile traccia di frenata era un segno di superiorità dell’uomo sull’animale? Non sul piano dei riflessi, concludevo, ma senza aver concluso niente. Tutte le questioni sollevate restavano aperte, sicché passavo a un altro ordine di problemi. È più pena o ribrezzo? E perché si tratta in ogni caso di un sentimento che inesorabilmente è via via crescente all’aumentare della taglia dell’animale ucciso?
Anche queste erano domande che rimanevano senza risposta, ma il caffè di suor Angelina le dissolveva, e senza che ne restasse traccia lungo la giornata. Tornavano lungo la strada che mi riportava a casa, dopo il lavoro, ma in altra forma. Ripensavo al cancro ovarico della quindicenne, al seminoma testicolare del trentenne, al linfoma del settantenne, e con dispetto facevo i conti con quella gerarchia emotiva che mi dettava una palese disparità di pena da caso a caso. E anche qui non sapevo se fosse giusto o no.



II

Intorno alla fine di gennaio dell’anno in cui si svolsero i fatti che mi accingo a narrare accadde qualcosa di inquietante: settimana dopo settimana aumentava il numero dei gatti che trovavo morti sulla strada che facevo. A pensarci bene, la cosa doveva essere cominciata già negli ultimi mesi dell’anno che si era appena chiuso, ma ora non c’era settimana che non ne contassi almeno quattro o cinque, e il numero era destinato a crescere, perché nella sola seconda settimana di aprile ne contai quattro il mercoledì e tre il sabato.
Non era solo questo a darmi inquietudine. I corpi giacevano senza vita lungo un tratto di strada relativamente ridotto, non più di quattro o cinque chilometri, gli ultimi prima del mio arrivo, ma nell’area, almeno quando vi passavo, non vi era alcun segno del movimento cui i gatti avrebbero dovuto dar vita per dare in qualche modo spiegazione di un così elevato numero di cadaverini: non un gatto vivo ai margini della carreggiata, solo gatti morti. Era come se si dessero appuntamento in gran numero in quella zona apposta per farsi mettere sotto le ruote delle auto che passavano di lì, per poi sparire, e darsi appuntamento la notte dopo.
Un convegno suicidiario? Decine, forse centinaia di felini, per qualche ora si affollavano lungo quei quattro o cinque chilometri di strada, in attesa di un’auto, di un furgone, di un camion, per andare spiaccicarvisi sotto? Per essere una strada così poco trafficata di notte, la cosa sollevava molti dubbi, in primo luogo riguardo al fatto che nessuno se ne fosse accorto. Di fatto, nessuno ne parlava.
Altri dettagli rendevano il mistero ancora più inspiegabile. In primo luogo, col crescere del loro numero, i gatti morti non giacevano più in modo casuale sulla carreggiata, ma quasi esclusivamente sul suo lato destro, a un metro o poco più dalla striscia gialla che la delimitava. Poi, e qui la cosa dava davvero da pensare, non vi era alcuna traccia di frenata degli pneumatici sull’asfalto. L’ipotesi del convegno suicidiario perdeva peso, ma forse era più credibile che qualcuno si fosse inventato un nuovo sport? Una combriccola di automobilisti batteva quel tratto di strada per la loro notturna caccia al gatto? Ipotesi ancor più balzana. Per cercare di capirne qualcosa avrei dovuto dedicare del tempo alla faccenda, ma non potevo permettermelo, sicché cercai di accantonarla, anche se ogni mercoledì e ogni sabato tornava a pungolarmi.
Durò poco, perché un sabato mattina mi si presentò davanti Angelo D’Esposito, un omino sulla cinquantina, capo netturbino. Da qualche tempo aveva una febbricola accompagnata da nausea, inappetenza, dolore al fianco destro, un lieve ittero e perdita di peso. L’ecografia chiarì che si trattava di un grosso ascesso, presumibilmente amebico, che gli aveva mangiato quasi tutto il lobo sinistro epatico. Accolse la diagnosi quasi sollevato, perché aveva pensato si trattasse di molto peggio e, giacché era l’ultimo paziente della giornata, ci trattenemmo un po’ a chiacchierare. E così arrivai a chiedergli dei gatti.
«Com’è che ne muoiono così tanti da queste parti?».
Fece una smorfia come se si trattasse di una questione ormai archiviata senza spiegazione.
«Non me ne parli. Ne abbiamo discusso per settimane coi colleghi dei comuni della zona e non siamo riusciti ad arrivare a niente. Nessuno che sia riuscito a capire cosa accada, ma per i nostri uomini il mercoledì e il sabato sono i giorni più faticosi. Perché non è tanto la rimozione dei corpi, ma pulire l’asfalto è un lavoraccio che richiede...».
«Come? – lo interruppi – Li trovate solo il mercoledì e il sabato?».
«Non se n’è accorto? Solo in quei due giorni».



III

Tornando a casa, cercai di mettere un po’ d’ordine ai pensieri che avevano cominciato ad affollarsi attorno a quanto avevo appreso dal D’Esposito.
E dunque. Da alcuni mesi sempre più gatti morivano sotto le ruote delle auto su un tratto di strada lungo sette o otto chilometri, perché a quelli che percorrevo io – così mi aveva rivelato il D’Esposito – se ne dovevano aggiungere almeno altri due, proseguendo oltre, sui quali la cosa era fin lì stata in tutto simile. I corpi venivano trovati quasi soltanto il mercoledì e il sabato, era solo grazie a questa coincidenza coi giorni in cui avevo ambulatorio in clinica che avevo potuto accorgermi della cosa. Chi investiva i gatti non accennava neppure a un tentativo di frenata e tuttavia non era evidente un chiaro intento di passarci sopra perché la posizione in cui venivano trovati i corpi era compatibile con una traiettoria dell’auto sulla carreggiata del tutto ordinaria, sicché la cosa risultava due volte inspiegabile, sia a voler ipotizzare una caccia al gatto, sia a pensare che si trattasse di un suicidio di massa. La cosa, poi. Continuavo a dire «la cosa», ed era solo per negare a me stesso che fosse diventata una vera e propria ossessione. Cominciavo a sognare gatti morti, e risparmio a queste pagine i dettagli. Risolsi che avrei dovuto interessarmi alla faccenda.
Quasi avesse intuito, il D’Esposito mi lasciò in clinica un plico con una relazione dettagliata su quanto aveva registrato negli ultimi mesi, corredata perfino da alcuni grafici, da alcune foto, da fotocopie di circolari, di esposti alle autorità competenti: dal dicembre dell’anno precedente al luglio corrente, centoundici gatti morti trovati il mercoledì e il sabato, a fronte dei soli quattro trovati negli altri giorni della settimana; conferma dell’uniformità dei dati relativi alla posizione dei corpi sulla carreggiata, quasi tutti giacenti sul suo margine destro, col loro asse maggiore perpendicolare a quello della corsa degli pneumatici; dato che mi sorprese, perché fin lì non ero stato in grado di rilevarlo, uniforme era anche il tipo di lesione che aveva causato tutte quelle morti, quasi sempre a carico del solo cranio, tutt’al più del cranio e del torace; a ulteriore e maggiore sorpresa, la concorde strafottenza alle segnalazioni che il D’Esposito aveva inviato alle forze dell’ordine, agli uffici comunali, alla locale società protettrice degli animali, ecc.
Il plico era accompagnato da una lettera:

«Caro dottore,
le scrivo da Brescia, dove sono arrivato la settimana scorsa, perché non mi fidavo delle cure che avrei potuto aspettarmi rimanendo a casa. Qui il primario mi prega di farle i complimenti per la diagnosi: dice che non era facile pensare che si trattasse proprio di un ascesso amebico, e infatti prima di crederci mi hanno fatto una tac e un sacco di altre analisi. Ora sono in terapia e ogni tre giorni mi fanno un’ecografia di controllo. Pare che l’ascesso vada regredendo, adesso è di quarantadue millimetri, e comunque la febbre va sparendo. Insomma, se Dio vuole, tra due o tre settimane dovrebbero dimettermi, almeno così dicono.
Come ha visto, le ho lasciato un po’ di materiale relativo alla questione di cui discutemmo. All’inizio ci stavo perdendo la testa e mi ero fatto delle idee assai strane che comunque abbandonai subito perché tiravano in ballo persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto. Ho pensato che sia meglio se ne interessi lei, se ne ha voglia e se riuscirà a trovare tempo, ma l’impressione che la faccenda nasconda qualcosa di grosso non mi è mai passata, quindi avrei piacere se al mio ritorno mi facesse sapere cosa è riuscito a capire, visto che qui mi dicono che avrò bisogno di un’ecografia ogni tre mesi per almeno un anno. Dicono che si tratta di ascessi che possono dare recidiva e qui mi consenta, con rispetto parlando, una scaramantica grattata di palle.
A presto, suo

Angelo D’Esposito

P.S.: Pensa che quello che mi è accaduto possa avere qualche relazione col mio lavoro? Crede possa esserci possibilità di iniziare una pratica per il pensionamento anticipato da malattia professionale?».

Cosa intendeva dire, il D’Esposito, quando parlava di «persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto»? A cosa l’avevano portato, le sue indagini? Quali erano i suoi sospetti?


IV

Decisi di procedere in modo sistematico. Anche troppo, in verità, perché cominciai con l’infliggermi la lettura del più voluminoso trattato sui gatti che riuscii a procurarmi: due tomi per un totale di oltre tremila pagine. L’opera si apriva con un’ampia e dettagliata trattazione dell’anatomia e della fisiologia dei felini, per passare poi ad una sezione relativa alle loro patologie più comuni, fino a quelle più rare. A chiudere il primo tomo, una più che esauriente sezione dedicata alla loro alimentazione e alle loro abitudini, insieme ad una infinita serie di consigli relativi alla perfetta convivenza dell’animale con la specie umana.
Assai più interessante il secondo tomo, quasi interamente dedicato alla storia dell’animale dagli albori della storia ai nostri giorni: ittiti e atzechi, impero di Carlo V e antico Egitto, Roma dell’età repubblicana e Inghilterra vittoriana, e in tutto la sorniona e fiera presenza del gatto. Cose che in gran parte già conoscevo, ma ad ogni pagina scoprivo qualcosa di nuovo, perfino di incredibile.
Puntai l’attenzione a tutto ciò che fosse in relazione all’uccisione dei gatti nel corso della storia. Poca roba. Una setta assira li sacrificava al plenilunio nella certezza che fossero le vittime preferite dal proprio dio. Un altro gruppetto di folli, nel primo Rinascimento, vicino ad Amsterdam, li squartava vivi dopo averli nutriti con latte di capra per trenta giorni, tenendoli al buio, per prelevarne la bile, ingrediente base per la preparazione di uno dei tanti elisir di lunga vita ideati dalla ispirata cialtroneria umana. E poi per secoli erano stati uccisi per far cappelli e baveri con la loro pelliccia, nella versione povera di quella di volpe. Ma i gatti di cui mi interessavo io non morivano nei pleniluni, né venivano trovati scuoiati, e agli elisir di lunga vita, infine, chi poteva credere ancora?
Proseguendo, trovai i gatti uccisi nel XVI secolo dagli studenti di medicina cui era interdetto lo studio dell’anatomia sui cadaveri umani, e ancora quelli che vennero mangiati a Leningrado, prima che l’assedio ad opera dell’esercito del Terzo Reich costringesse gli assediati, finiti i gatti, a passare ai topi. Si parlava degli studi neurologici che Charcot per qualche tempo condusse sul cervello di gatto, e di quelli, in parte analoghi, di Ramon y Cayal: gatti che finivano in un inceneritore, non ai bordi delle strade. Poi, naturalmente, The Great Cat Massacre sul quale qualche anno prima Robert Darnton aveva scritto un fortunato saggio... Nulla, insomma, che facesse al caso mio.
Quasi nulla, per meglio dire. Perché una decina di righe era dedicata a un vecchio rito pagano riesumato intorno al 1500 ad Amalfi, ad opera di un certo Eugenio Sormani e dei suoi accoliti, tutti finiti al rogo per stregoneria tra il 1517 e il 1521: impiccavano gatti e traevano aruspici dalle oscillazioni della corda durante la loro agonia. Pensai che anche in questo caso non si trattasse di una traccia utile, ma d’un tratto, come trafitto da una rivelazione, mi ritrovai a chiedermi: «Ma siamo sicuri che muoiano sotto gli pneumatici delle auto? Non è possibile che siano uccisi altrove, e in altro modo, per essere portati dove poi vengono trovati allo scopo di celare il vero scopo per cui vengono uccisi? E il fatto che le ruote passino esclusivamente sulle loro teste non può servire proprio a cancellare ogni segno che indichi in che modo sono stati uccisi?». «Fosse così – conclusi – si spiegherebbe tutto ciò che fino ad ora è stato inspiegabile».
Presi le foto scattate dal D’Esposito per cercare di cogliervi qualcosa che potesse essermi sfuggito. Niente, le teste dei gatti erano ridotte in uno stato da rendere impossibile qualsiasi supposizione. Dovevo procedere di persona.
Un sabato di ottobre, alle cinque e un quarto, accostai la mia Renault al bordo della solita strada, tirai il freno a mano e spensi il motore. Uscii dall’auto armato di una Polaroid e di un nastro centimetrato e mi avvicinai al corpo di un gatto che mi ero lasciato una ventina di metri dietro. Aveva la testa spiaccicata sull’asfalto, quasi esplosa sotto il peso della ruota che le era passata sopra. Sulla poltiglia sanguinolenta era visibile perfino l’impronta dello pneumatico in due strisce di poco divergenti l’una dall’altra. Vincendo il ribrezzo, scattai quante più foto possibili, per poi prendere le misure che potessero tornarmi utili. Procedendo verso la clinica, vidi altri cinque cadaverini, ma solo con due ripetei le stesse operazioni, perché avevo esaurito la scorta di caricatori per la Polaroid.


V

Per qualche giorno non fui in grado di metter mano al materiale che avevo raccolto: potrà far sorridere, ma era come se temessi qualcosa. Quando finalmente poi mi decisi, ogni timore si dissolse, ma per lasciare posto ad una frenesia che non mi lasciò più.
I tre casi di cui avevo raccolto gli estremi erano in tutto simili. Li confrontai con quelli delle foto del D’Esposito e tutto coincideva con i miei. Le impronte degli pneumatici appartenevano tutte allo stesso modello: era sempre la stessa auto.
D’un tratto riuscii anche a spiegarmi la sovrapposizione delle due impronte tra loro lievemente divergenti: l’autore del fattaccio fermava la sua auto sul bordo della carreggiata, scendeva col gatto già morto, lo piazzava con la testa davanti alla ruota anteriore destra e ripartiva, sicché la ruota posteriore destra passava anch’essa sul cadavere ma con l’angolo di scarto dovuto alla sterzata necessaria a rimettere in carreggiata un’auto che aveva precedentemente accostato al suo bordo tenendosi di poco obliqua alla sua parallela.
Mancava la cosa più importante: a chi apparteneva quell’auto? Era credibile che appartenesse a un tizio in grado di procurarsi da solo, e in meno di un anno, più di un centinaio di gatti? No, era praticamente certo che fosse solo un anello della catena, probabilmente l’ultimo. E dunque si trattava di qualcosa che implicava più persone. Di cosa si trattasse, ero ancora lontano dal capirlo, e infatti infilai un vicolo cieco: «Passare con lo pneumatico sempre sulla testa e sul collo dei gatti – mi chiesi – non servirà per caso a cancellare i segni di un cappio? Vuoi vedere che Eugenio Sormani ha ancora dei seguaci?».
Mi tornarono in mente le parole del D’Esposito: «persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto». Mi sembrò che lo sgomento potesse ricadere su quelle «persone» in ragione del «fatto»: una setta che impiccava gatti mi sembrò che incastonasse a dovere quello sgomento. Decisi di scrivergli per aggiornarlo su quello che avevo scoperto, per metterlo al corrente dei miei sospetti, in realtà sperando che li confermasse, dandomi un’ulteriore traccia. Fu solo dopo aver spedito la lettera che cominciai ad avere dubbi sull’ipotesi dei sormaniani, ma intanto avevo già deciso di fare un salto ad Amalfi. Mi imposi di soprassedere in attesa della risposta del D’Esposito. Intanto avrei fatto qualche domanda a Gaetano Nicolella, il mio meccanico.



VI

«È un copertone della Pirelli che è in commercio solo da due o tre anni – disse Gaetano Nicolella – ma è montato su almeno cinque o sei tipi d’auto».
«E dall’angolo col quale divergono le due impronte non si può risalire alla distanza tra l’asse anteriore e quello posteriore, e quindi all’auto che monta questo pneumatico?».
Scosse il capo: «Se si sapesse con quale angolo di sterzata ha accostato l’auto – rispose – ma questo non lo sappiamo, né c’è modo di saperlo».
Tentai: «Ma l’angolo col quale divergono le due impronte è praticamente uguale in tutte le foto...».
«Questo – disse – ci consente di essere sicuri solo del fatto che accosta l’auto praticamente sempre con la stessa angolazione rispetto al bordo della carreggiata: niente di più, niente di meno».
Un buco nell’acqua, pensai, e feci per andarmene, scusandomi per il tempo che gli avevo fatto perdere. Tornai subito indietro, gli chiesi di non mandarmi al diavolo se gli ponevo un altro problema.
In tutte le foto che inquadravano un’area relativamente ampia rispetto al corpo del gatto, sia in quelle mie, sia in quelle scattate dal D’Esposito, era presente sull’asfalto una macchia che sembrava d’olio. Era un dettaglio che avevo notato solo guardando le foto e di cui dunque non avevo dati relativi alla distanza che lo separava dai punti che avevo preso in considerazione. Pasticciando nel tentativo di spiegare cosa pretendevo di sapere, chiesi al brav’uomo se una misurazione nota tra due punti considerati in una delle foto permettesse di calcolare la distanza tra il dorso del gatto – e dunque, con lieve approssimazione, tra l’asse anteriore dell’auto – e il punto dal quale era colato il liquido che aveva dato luogo a quella macchia.
«Cominciamo col dire – fece Gaetano – che una perdita di questo tipo può venire solo dal bocchetto posteriore della coppa. Se non fosse che la distanza tra la macchia e il dorso del gatto non è quella tra il bocchetto e l’asse anteriore...».
«Va bene – dissi interrompendolo – ma si tratta dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo che ha per cateto lungo tra distanza tra il bocchetto e il punto mediano dell’asse anteriore e per cateto corto più o meno la metà della lunghezza dello stesso asse. Quindi, volendo...».
«Volendo, cosa?», fece.
«Sui tabulati che la casa produttrice di un’auto rilascia – dissi – ci sarà la distanza tra la coppa e l’asse, no?».
«No», rispose.
«E calcolarla su tutti modelli d’auto che passano per un’officina come questa...?», azzardai.
«Cosa dovrei fare?», chiese.
Si fece un po’ pregare, ma finì con l’accettare, e due giorni dopo mi arrivò una sua telefonata. Solo due modelli d’auto avevano un bocchetto posteriore della coppa dell’olio a un metro e ottantasette dalla ruota anteriore destra, ma solo uno montava il copertone della Pirelli la cui impronta era sulle foto: la Fiat Tipo. «Che li impicchi o no – mi dissi – li va schiacciare sotto le ruote della sua Fiat Tipo che perde olio dal bocchetto posteriore della coppa dellolio». Non era molto, ma non era neanche poco.
Il giorno dopo mi arrivò una lettera da Brescia:

«Gentile collega,
le rispediamo la lettera da lei inviata al signor Angelo D’Esposito, che sappiamo essere stato suo paziente, e che egli non ha potuto leggere perché deceduto due giorni prima del recapito, per sepsi generale...».

Povero Angelo, pensai, morendo s’è portato appresso un segreto che probabilmente non mi avrebbe rivelato, per evitare grane.



VII

La domenica dopo andai ad Amalfi. L’idea era quella di far visita a don Pasquale Coviello, che conoscevo da anni, perché ogni sei mesi veniva per una controllatina all’imponente gozzo tiroideo che una fifa matta gli impediva di decidersi a farsi asportare. Di Amalfi sapeva tutto, don Pasquale, e certamente avrebbe saputo dirmi se eventualmente avesse avuto l’impressione che negli ultimi tempi i sormaniani fossero riemersi dal buco nero che li aveva inghiottiti cinque secoli prima. Arrivai che aveva appena finito di dir messa, era in sagrestia a togliersi i paramenti.
«Qual buon vento...?», mi fece.
«Passavo da queste parti e mi son detto: “Andiamo a vedere se per caso il gozzo non ha soffocato don Pasquale”».
«Eh, no – disse sbottonando il colletto ed esibendo una cicatrice non più vecchia di un mese – il gozzo non c’è più. E ringraziando Nostro Signore è andato tutto liscio. Ma non credo che lei sia venuto qui solo per questo, mi dica in cosa posso esserle utile».
«Mi parli un poco di Eugenio Sormani».
«Oh, Sormani. Il pazzo che fu bruciato a Napoli, vero?».
Annuii.
«Non c’è molto da dire, in verità. Fu arrestato da queste parti nel 1513, insieme a una dozzina di suoi seguaci, dall’Inquisizione, pare su segnalazione del cardinale Ottavio Baldacci. Lo portarono a Napoli, dove fu processato per stregoneria e condannato al rogo. Al momento dell’arresto gli trovarono in casa un impressionante numero di teschi di gatti, il che non fu irrilevante per sostenere l’accusa di maneggi con Satana. Sotto tortura rivelò le pratiche della setta alla quale aveva dato vita, tanto astruse da dar corpo ai sospetti che lo avevano portato in giudizio. In ogni notte di luna piena i sormaniani impiccavano gatti a dei pali piantati a terra a comporre la disposizione delle stelle in una data costellazione... Non saprei essere più preciso... Ho letto gli atti del processo, ma la confessione è un guazzabuglio di assurdità...».
«Pare che traessero degli aruspici dalle oscillazioni delle corde, no?».
«Sì, anche quello, ma non solo. Piluccando dai pitagorici e dai cabalisti, il Sormani si era costruito un sistema mostruosamente complicato che mischiava assieme astronomia e alchimia... Onestamente, non saprei dirle nulla di più preciso. Ma mi dica: com’è che le interessano i sormaniani?».
Gli raccontai della faccenda.
«Oh, povero D’Esposito! Non lo sapevo. Il Signore l’abbia d’accanto, era un brav’uomo... Ma, se devo dirle la mia, qui il Sormani non c’entra. In quei suoi riti macabri tutto presupponeva dei postulati che oggi neanche un pazzo si sognerebbe di sostenere. E poi c’è la questione dei crani... Alle teste dei gatti i sormaniani riservavano un enorme rispetto, sostenevano che la loro volta cranica riproducesse quella del Nono Cielo... No, qui le vanno a schiacciare sotto la ruota di un’auto... Non ci siamo, non ci siamo proprio».
Capii di aver imboccato una falsa pista.



VIII

Due mercoledì dopo, senza che me ne avesse dato prevviso, don Pasquale Coviello venne a farmi visita in clinica.
Iniziò senza preamboli:
«Dobbiamo fare l’autopsia ad uno di quei gatti».
Mi lasciò senza parole, ma sembrò leggermi dentro tutte le obiezioni a quell’idea, perché continuò: «Nick, il mio gatto, è sparito».
Raccontò che di mattina presto si era fatta a piedi tutta la strada che da mesi era coperta da cadaveri di gatti, e che ne aveva contati cinque, ma Nick non c’era, «ringraziando Nostro Signore».
«Me lo ammazzeranno venerdì notte o al massimo martedì prossimo, ne sono sicuro. Dobbiamo fermarli, anche se il mio Nick non dovesse farcela in tempo. Dobbiamo sapere chi sono, cosa ne fanno, di cosa muoiono veramente, i gatti. Penserò a tutto io, le porterò io uno di quei corpi, lei deve solo contattare qualcuno che sia disposto a farne l’autopsia».
Capii il perché di tanta determinazione e un po’ mi rimproverai di non aver avuto io quell’idea. Mi dissi che solo il professor Mele avrebbe potuto darci un aiuto.
Il professor Mario Mele era un caro amico, nonostante avesse una trentina d’anni più di me. Ci eravamo conosciuti sette o otto anni prima per la stesura di un volume sull’impiego dell’ecografia in Medicina Legale e ne era nata un’istantanea simpatia che di tanto in tanto si nutriva di piccoli favori reciproci.
Una leggenda vivente, il Mele. Magrissimo, un centinaio di sigarette al giorno, un sarcasmo più tagliente del suo bisturi, una fama indiscussa che toccava punte di venerazione tra i suoi colleghi, uno dei quali un giorno mi disse:
«Mele lo fa parlare, il cadavere».
Al telefono gli spiegai velocemente la questione, che mi parve addirittura eccitarlo:
«Bellissimo, mandami subito uno di questi gatti».
Ci mettemmo d’accordo che per il sabato successivo, verso le undici, don Pasquale gli avrebbe portato in istituto uno dei cadaveri.
Quel sabato, verso le tre del pomeriggio, arrivò la sua telefonata:
«Che caso coi controcazzi... Hai tempo o ti mando tutto a casa?».
Sul lettino avevo una gravida con una bruttissima gestosi, gli dissi che avrei preferito mi facesse recapitare il referto a casa e che poi l’avrei chiamato l’indomani, in mattinata.
«Perfetto, rimaniamo così. Ma che caso, cazzo, che caso!», concluse, appiccicandomi addosso un curiosità che non smise di torturami fino a quando, la sera, aprii la sua busta gialla. Insieme al referto autoptico c’era una lettera. Lessi e tutto diventò chiaro:

«Caro mio,
quel prete ha uno stomaco di ferro. Mi ha portato tre sacchi con tre gatti, ha detto che pensava che così fosse meglio, che avremmo potuto avere più informazioni. Gli ho chiesto se avesse raccolto dall’asfalto tutto il materiale o se per caso avesse lasciato in loco qualche brandello di tessuto: mi ha assicurato di aver usato tutte le accortezze del caso. E ha insistito per pagare, anche se gli ho detto che non c’era bisogno perché eri tu ad avermi chiesto il piacere. Poi ha voluto a tutti i costi assistere al lavoro, anche se al secondo sacco s’è messo a piangere e ha cominciato a carezzare il gatto. Lo chiamava Nic, Mic, non ho capito bene, e lì non ha retto, s’è scusato ed è andato via. Gli ho detto che gli avrei spedito una copia del referto.
Ti risparmio le banalità pro forma che, se vuoi, potrai leggere dalla relazione che qui ti allego e arrivo al nocciolo della questione: per quanto le teste fossero massacrate, sono riuscito a ricostruire il cranio dei gatti in tutti e tre i casi, e in tutti e tre mancava un pezzetto della teca, più o meno della grandezza di un centimetro quadrato, di forma circolare, coi bordi che recavano i segni inconfondibili della trapanazione che è d’uso per gli studi di stereotassi cerebrale.
La morte risaliva a dieci-dodici ore dal ritrovamento, diciamo intorno alle diciassette-diciotto di venerdì, da iniezione intracardiaca di aria (in uno dei setti interventricolari ho trovato addirittura una punta d’ago spezzata).
Ci sentiamo domani, non farti problemi per l’ora ché anche di domenica mi sveglio presto.
Ti abbraccio,
Mario»

La mattina dopo, verso le nove, lo chiamai.
«Bello, eh? Chi può essere questo figlio di buona donna che si allena sui gatti, hai qualche idea?».
Sì, l’avevo.



IX

Il dottor Massimo Russo era neurochirurgo e lavorava nella stessa clinica dove il mercoledì e il sabato tenevo ambulatorio. Lo conoscevo solo di nome, perché aveva studio in giorni diversi da quelli in cui l’avevo io: il martedì e il venerdì, seppi. L'amministrazione gli aveva concesso due stanzette al piano terra per il suo ambulatorio della mattinata, ma sempre più spesso negli ultimi anni vi si tratteneva fino a tarda serata con due o tre giovani specializzandi che lo assistevano al lavoro. In cosa consistesse questo lavoro, nessuno seppe dirmelo in clinica.
Gli chiesi un appuntamento e il martedì sera arrivai in clinica. Mentre varcavo l’uscio, incrociai uno dei suoi assistenti che stava uscendo. Reggeva un grosso contenitore di plastica.
Non persi un istante:
«Scusi, è sua la Fiat Tipo che è nel parcheggio?», chiesi, anche se non ero sicuro di averla vista.
«Sì – rispose – perché?».
«Non vorrei sbagliare – dissi – ma mi pare che abbia lasciato i fari accesi».
«Oh, grazie», fece, affrettandosi.
Arrivai alla porta dello studio del dottor Russo e bussai. Venne ad aprirmi con un sorriso di quelli che fanno della mandibola un pericoloso corpo contundente. Mi fece accomodare e chiese:
«In cosa posso esserti utile, caro collega?».
«Io sto bene – iniziai goffamente – vengo qui per una questione, diciamo così, personale. E vorrei che fosse una discussione civile. Diciamo che sono uno dei pochi che si è accorto di questi troppi gatti che vengono trovati morti da queste parti. Non importa come sia arrivato a capire come finiscano con la testa spiacciata sotto la Fiat Tipo del suo assistente che anche stasera è andato ad allestire la solita sceneggiata, ma so perché vengono uccisi e so del buco che hanno in testa quando escono da qui... Quanti erano stasera? Cinque?»
«Quattro. Ma continua, e dammi pure del tu».
«No, grazie, d’altronde c’è poco altro da dire. Volevo solo chiederle se questo sconcio può finire. Ho saputo che si parla di aprire qui in clinica una sala operatoria per la neurochirurgia, penso che ormai la mano dev’essersela fatta...».
Tacque per qualche secondo, poi mi disse:
«In quanti siete a sapere di questa cosa?».
«In tre», risposi.
Probabilmente il tono gli suonò minatorio, perché parlò con la durezza d’accento di chi come unica difesa abbia l’attacco:
«Bene, inizio dicendo che, se volessi, il mio lavoro potrebbe continuare ugualmente. Al massimo dovrei spostarmi da qui, dovrei trovare un altro modo per liberarmi dei cadaveri, ma queste sono cose che si risolvono in mezza giornata. D’altra parte, lei non ha alcuna prova. Anche se ne avesse, non troverebbe porte aperte. Sa chi è il presidente della società protettrice degli animali in questa regione? Mia moglie. Al comandante della stazione dei carabinieri della zona ho salvato un figlio da una brutta meningite. Mio fratello lavora al Viminale. E sa che la clinica si è già impegnata per l’acquisto delle apparecchiature della nuova sala operatoria di cui sarò il responsabile? Due miliardi sono un investimento che deve fruttare. Faccia quello che le pare, le rideranno in faccia. Ah, poi ci sono i miei tre assistenti. Sono giovani, non vedono l’ora di lavorare, per proteggere il progetto per il quale sudano da due anni sarebbero capaci anche di sgradevoli colpi di testa...».
Dovette intuire che dal disagio passavo all’inquietudine, perché ammorbidì d’un tratto i toni:
«Ecco, potrei risponderle così, ma invece la metterò in altro modo. Sa quanti morti ci sono ogni anno in questa zona per ictus e trombosi cerebrale, lei che va contando quanti gatti morti trova per strada? Glielo dico io: l’anno scorso sono stati cinquantasette, e l’anno prima sessantuno. E sa perché muoiono? Perché in più dell’ottantacinque per cento dei casi non riescono ad arrivare a Napoli in tempo utile».
Tacque un attimo, poi riprese, quasi urlando:
«Non me ne fotte un cazzo dei gatti e della sua delicatezza di stomaco. La clinica deve avere una sala operatoria e un chirurgo esperto e veloce. Se al mio caso fossero tornati utili i topi, lei non sarebbe qui, ma a me servivano i gatti e, si sa, i gatti sono carini, fanno le fusa... E poi mi dica: in quanti se ne sono accorti? Lei è arrivato secondo, sa? E sa chi l’ha preceduta? Uno spazzino. Uno spazzino, capisce? Che peraltro ha subito smesso di rompere il cazzo dopo una amabile chiacchieratina... Vada, per piacere, vada. Abbiamo perso entrambi del tempo. Per quanto mi riguarda, farò finta che questo incontro non ci sia mai stato. Le consiglio di fare altrettanto, ma si regoli come le pare».
Rimasi di gelo. Ebbi solo la forza di replicare:
«Ho capito. E per quanto tempo ancora continuerà tutto questo?».
Il suo tono di voce tornò sereno, quasi cordiale:
«Se tutto va bene, tre o quattro mesi. Dobbiamo lavorare soltanto sui versamenti della fossa cranica posteriore».
Non riuscii più a dire neppure un’altra parola. Mi alzai e andai via.


mercoledì 1 luglio 2015

[...]


Non entrerò nel merito della questione greca, mi limiterò a considerare solo un dettaglio che ricorre con insistenza in tutto il gran parlarne, e mi riferisco al costante richiamo a ciò che la Grecia antica ha dato allumanità.
Avevo messo da parte un lungo elenco di citazioni tratte dalla stampa nazionale e da quella estera che pensavo offrissero un esauriente campionario dei modi coi quali a tale richiamo è stata fin qui conferita, più o meno esplicitamente, la pretesa di avere forza di un vero e proprio argomento, che peraltro si vorrebbe incontestabile, in favore delle ragioni della Grecia odierna. L’intenzione – l’avrete intuito – era quella di aprire il post con la lista di debiti che l’Europa avrebbe nei confronti della Grecia antica e che in qualche modo pareggerebbero il conto con quelli che la Grecia odierna ha nei confronti dei suoi creditori europei, o almeno dovrebbero alleggerirlo di molto. Non sono riuscito più a trovare questa miscellanea, ma fa lo stesso, suppongo abbiate capito di cosa stia parlando: Socrate, Platone, Pericle, tutte le parole che hanno un etimo greco, lo stesso nome di Europa, tratto dalla mitologia ellenica.
Bene, vorrei dire che a mio modesto avviso questo argomento vale meno di una dracma bucata: i greci d’oggi non hanno nulla a che vedere coi greci di venti o di venticinque secoli fa, sicché è risibile pretendere che Omero, Aristotele o Euclide tornino a saldo di ciò che Atene deve al Fondo monetario internazionale o, peggio, che chi ha liberamente sottoscritto degli impegni al momento di entrare nella Comunità Europea abbia il diritto di chiedere e trovare deroghe ad essi in forza dell’assunto che, se la Grecia non ne facesse parte, l’Europa sarebbe costretta a non potersi dire depositaria, come d’altronde lo è tutto il mondo, del patrimonio di arte, cultura e pensiero che trovarono luce nell’Ellade di Sofocle, Prassitele e Platone. A me pare – e mi scuso con chi dovesse sentirsene offeso – che tentare di dar forza di argomento a questa peroratio comporti l’assunzione dei tratti sciovinisti coi quali è stato costruito il personaggio di Kostas Portokalos in My Big Fat Greek Wedding (Joel Zwick, 2002) o, peggio, di chi fra le rovine di un glorioso passato non trova niente di meglio da ribattere a chi gli rimprovera di limitarsi a parassitarlo che, «quando i tuoi antenati vivevano aggrappati agli alberi, i nostri erano già froci».
Rilevante, tuttavia, che a tale assunto si faccia ormai ricorso assai meno in Grecia che fuori, come se un paese riuscisse a pretendere che il proprio passato remoto abbia un valore corrente solo fino a quando la durezza di una crisi economica non ne riveli l’irrilevanza sul piano pratico. Sarà per questo che a battere con più insistenza il tasto dell’importanza di mantenere la Grecia in Europa siano l’Italia e la Spagna, quasi che a fronte di un rischio analogo volessero poter contare su una rendita da capitale, la loro.
Sia chiaro che dell’Unione Europea ho sempre avuto un’idea di come dovrebb’essere che è sempre stata assai diversa da quella che fin qui è stata e attualmente è: nata male, direi, e cresciuta peggio, tutto nell’illusione che certi processi possano essere interamente controllati dall’altoSia chiaro, inoltre, che riconosco al governo Tsipras alcune buone ragioni nell’opporre resistenza alle richieste della troika: non moltissime, in verità, ma alcune sì, anche se in buona misura depotenziate dall’ostinazione a credere che il default faccia più male a tutti che ai greci. Più in generale, ritengo che da entrambe le parti sia venuto il peggio di quanto fosse nelle loro possibilità, quasi fosse nelle loro intenzioni arrivare proprio all’attuale situazione, che sembra non avere soluzioni, se non dilatorie. Ma – dicevo – preferisco non entrare nel merito della questione.

martedì 30 giugno 2015

Resistenze

Ken Paxton, procuratore generale del Texas, dichiara che, invocando lobiezione di coscienza per motivi religiosi, i funzionari statali potranno rifiutarsi di rilasciare la licenza nuziale ad una coppia gay che ne faccia richiesta, e promette loro lassistenza legale gratuita, visto che il rifiuto li porterà a processo. Niente di strano, accadde più o meno la stessa cosa, però in Virginia, quando furono dichiarati legittimi i matrimoni tra bianchi e neri, anche se l’obiezione di coscienza, allora, fu invocata in difesa della segregazione razziale.
Anche qui, con la sentenza della Corte suprema che qualche giorno fa ha dichiarato legittimo il matrimonio tra individui dello stesso sesso, tra gay che festeggiano pazzi di gioia per lacquisizione di un diritto cui tenevano tanto e limmancabile stronzo che non si rassegna allidea, direi che tutto vada come deve andare, perché qualche resistenza al progresso è fisiologica. In questo caso, poi, si tratta di una resistenza che, tutto sommato, è responsabile: da funzionario statale sei tenuto a rilasciare la licenza nuziale anche ad una coppia gay, ti rifiuti, sei incriminato, vai a giudizio, e ti assumi le conseguenze del tuo gesto, perché, se un giudice ti dichiara colpevole di quella che qui da noi sarebbe omissione di atti dufficio, fai giurisprudenza, vivaddio, ma col tuo culo.

A 7.000 chilometri di distanza, la sentenza della Corte suprema statunitense genera un altro tipo di resistenza. È quella di chi tenta di trovare un po di sollievo immaginando Anthony Kennedy, o chi per lui, imputato al Giudizio Universale. Parlo del povero Berlicche, che gli fa dire: «Se ho emesso alcune sentenze che potrebbero essere dispiaciute ad una parte della Chiesa si tenga conto che ero stato mal consigliato», e pensare tra sé e sé: «Non è vero. Hai scelto in quella maniera perché volevi, perché avrebbe aiutato la tua carriera, perché volevi essere famoso e importante e sapevi che i tuoi amici, quelli importanti, non te l’avrebbero fatta passare liscia se avessi deciso altrimenti. Sapevi cosa sarebbe successo. Non tutto, ma in parte sapevi», ma tenendo il punto: «Ad ogni buon conto, toccava a me decidere, e ho deciso. E i giudizi emessi non si discutono», per beccarsi così quel che merita dal «Giudice dei giudici».
Tutto nel vago, ovviamente, conoscete Berlicche: il giudice non ha un nome, la condanna si intuisce solamente... Wilhelm Reich la chiama «resistenza isterica».

lunedì 29 giugno 2015

Lettera non spedita

Non ho tempo per intrattenermi troppo sulla geremiade che oggi Giuliano Ferrara leva ai cieli per la sentenza della Corte suprema americana sulle nozze gay (Il Foglio, 29.6.2015), tra mezz’ora mi attende il setacciamento di almeno mezzo chilometro di bagnasciuga alla ricerca di quelli che ogni persona insensibile direbbe ciottolini biancastri, azzurrognoli e verdolini, e che invece sono gemme di incalcolabile valore, che poi andranno a far mucchio in quella che ogni persona insensibile direbbe una volgare scatola di latta, e invece è il baule in cui noi pirati ficchiamo il bottino delle nostre razzie sulle coste di Sbarabonda, terra che ogni persona insensibile direbbe immaginaria, e invece esiste, vi assicuro che esiste, tant’è che noi della Malnata, questo è il nome di quello che ogni persona insensibile direbbe un canotto gonfiabile, e che invece è il terrore di Sbarabonda, appunto, lì tra poco sbarcheremo, seminando il panico fra gli indigeni con le nostre sciabole, che ogni persona insensibile direbbe di plastica, e invece sono il meglio che s’è mai visto nella storia della Filibusta, basta guardare il sangue dei felloni incrostato sulle lame: per oggi, insomma, dovrete fare a meno della solita decostruzione del pezzullo di Giuliano Ferrara cui questo blogguccio vi ha abituato, vi accontenterete della svelta letterina che gli avrei spedito, se non fosse che è persona insensibile e non risponderebbe, sicché, vabbè, ci siamo capiti.

Giulia’, fallo pe’ la buonanima de li mejo mortacci tua, mi devi togliere ’na curiosità: tu dici che due gay potranno pure sposarsi, ma che il loro non sarà mai un matrimonio vero, che la loro non sarà mai una vera famiglia, che il cuore c’entra un cazzo, e neanche l’eguaglianza dei diritti, perché «l’eguaglianza dei diritti ha, nel caso del matrimonio, il limite intrinseco, oggettivo, invalicabile, del carattere stesso del matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna aperto alla filiazione», ma davvero davvero davvero pensi che sia più matrimonio il tuo, sia più famiglia la tua, co’ tre cagnette a surroga quei tre figli che hai abortito tanti anni fa? So’ quelle che dovrebbero sta’ lì a dimostrare che tu e la Selma ci avete la filiazione aperta? 

venerdì 26 giugno 2015

mercoledì 24 giugno 2015

Segnalibro

Bordin line - Il Foglio, 24.6.2015

«Si può esprimere un dubbio, o, se si preferisce, una preoccupazione sulla tenuta in dibattimento di una specifica ipotesi accusatoria senza essere trattati da collusi? O se ne deve dedurre che, una volta partita una indagine, nell’informazione non deve esserci spazio per voci critiche ma solo per corifei o sicofanti?». Domande che meritano una risposta, quelle con le quali Massimo Bordin chiude la sua Bordin line di oggi (Il Foglio, 24.6.2015), perché rivelano una genuina sofferenza – e nobilissima – nel considerare quanto sia degenerata in rissa la polemica sullipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Roma a carico di Carminati & C., e come non si può esser solidali con chi lamenta che un’occasione di confronto sia sprecata in zuffa? In questo caso, poi, era possibile evitare fin dall’inizio di cedere all’irrefrenabile tentazione di delegittimare le posizioni dell’avversario: bastava leggere con attenzione l’art. 416 bis del Codice Penale, che non descrive i requisiti di una cosca mafiosa, ma quelli di una «associazione a delinquere di tipo mafioso». Ripeto: «di tipo». La questione non era relativa al fatto che l’organizzazione cui era a capo Carminati fosse o non fosse mafiosa, ma se rispondesse ai caratteri definiti dal testo della legge. Certo, la decisione spetterà al giudice, ma gli atti dell’indagine sono pubblici e consentono di farci un’idea.
L’associazione era «formata tra tre o più persone»? Senza dubbio, sì. E «coloro che ne fa[cevano] parte si avval[evano] della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva[va] per commettere delitti [termine che in gergo tecnico non rimanda necessariamente ad omicidi], per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri»? Senza dubbio, sì. Soprattutto: l’associazione a delinquere, cui era a capo Carminati, aveva bisogno di autodenominarsi mafiosa per essere «di tipo mafioso»? Senza dubbio, no. «Comunque localmente denominate», associazioni di quel «tipo» configurano la fattispecie contemplata dall’art. 416 bis. Che possiamo ritenere bello o brutto, ma che è legge dello Stato: finché sarà vigente, merita venga letta per quello che dice, e per come lo dice, cosa che d’altronde non dovrebbe risultare affatto difficile per un brillante analista di cronaca giudiziaria come Bordin, peraltro paladino di una legalità che trovi forza esclusivamente nella lettera della legge, avverso ad ogni arbitrio interpretativo.
Come si è sviluppata, invece, la discussione? Per meglio dire: come ha preso inizio? Con gli articoli di Giuliano Ferrara che mettevano in discussione l’ipotesi accusatoria, cosa pienamente legittima, con argomenti però speciosi, sostanzialmente miranti ad insinuare il dubbio che quell’imputazione sortisse da una smania di protagonismo della magistratura inquirente o, peggio, da suoi loschi intenti di destabilizzazione politica. E così la discussione ha preso la via del piano inclinato per lo schifìo. Non c’è traccia di coppole o di lupare, non ci sono morti ammazzati, non sono scoppiate bombe, è normalissimo malaffare, di quello che è parafisiologico ai margini di ogni amministrazione pubblica, e in fondo ineliminabile, via, c’era pure ai tempi di Orazio e di Marziale: questa, più o meno, è stata la natura degli argomenti prodotti per sbertucciare l’ipotesi accusatoria, ma soprattutto chi l’aveva formulata e, ancor più, chiunque la ritenesse fondata. Sicché un povero cristo che si fosse preso la cura di leggere le mille e dispari pagine del dispositivo della Procura di Roma, e l’avesse trovato solido, il che suppongo sia da ritenere legittimo almeno quanto il trovarlo fragile, era un visionario che vedeva piovre dove non c’erano. E lì, ad essere considerato visionario, uno poteva pure preferire di essere considerato corifeo o sicofante, va’ a capire se si tratta di epiteti più o meno insultanti. 
Ora, sia chiaro, nessuno vuol negare che Travaglio sia una carognetta e che Il Fatto Quotidiano coltivi un’idea della legalità che eufemisticamente potremmo definire un po’ asfissiante, ma per dare a Cicerone quel che è di Cicerone, e a Catilina quel che è di Catilina, come si può negare che Il Foglio ami scadere, più spesso che spesso, nella più irsuta delle caricature del garantismo, ormai specializzato nella difesa d’ufficio dei peggiori fetenti? Certo, «si può esprimere un dubbio, o, se si preferisce, una preoccupazione sulla tenuta in dibattimento di una specifica ipotesi accusatoria» ed è inammissibile per ciò stesso si sia «trattati da collusi». Benvenute, perciò, e sempre, le «voci critiche», e su tutto, ma che la critica resti sui fatti. Poi, certo, muoverla da una tribuna che non sia affollata da eccentriche macchiette che perorano la causa di un «Carminati che invoca giustizia», definendolo «un Robin Hood del XX secolo», uno che, «se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava» (Annalisa Chirico – Il Foglio, 30.12.2014), potrebbe aiutare ad evitare che la propria voce sia confusa con la loro. Perciò, se in qualche modo ciò che qui ho scritto dovesse capitare sotto gli occhi di Bordin, confido nel fatto che non lo trovi scritto su una pagina de Il Fatto per risparmiarmi di essere bollato come corifeo o sicofante.

martedì 23 giugno 2015

[...]

Da qualche annetto guardo a Giuliano Ferrara come al maglione che si è usato per anni, che per anni poi si è tenuto nell’armadio senza indossarlo più, e che, dopo essersi salvato due o tre volte dal bustone lasciato fuori l’uscio per quelli della Caritas, si rivela insuperabile come straccio quando si passa il Sidol all’ottone di casa. Poi c’è che strofini e rivai con la mente a bei tempi andati, quando lo straccio era un maglione... Insomma, lucidi l’ottone, ma è pure l’occasione per pensare a come passa il tempo, a come tutto perde forma e colore.
Questo pensavo, oggi, leggendo Il Foglio. Sempre stato alpaca – pensavo – però a distanza poteva pure sembrare cachemire, e ora guarda cosa è diventato: un cencio intriso di robaccia puzzolente e acida. E sì che un tempo ’sta sofistica era d’un soffice, ma d’un soffice... Ora può tornare buona solo a spremere un po’ d’olio di gomito.
Ce l’aveva col «carattere intollerante delle reazioni di chi si fregia con esclusivismo mal riposto dell’etichetta di laico e di progressista», Giuliano Ferrara, in pratica aveva digerito malissimo che il Family Day non avesse spaventato nessuno, anzi, avesse fatto tanta pena a più d’uno. «I manifestanti di San Giovanni – lamentava – sarebbero una retroguardia del pregiudizio, un’orda medievale (e “medievale”, come pensano indistintamente tutti gli ignoranti, vuol dire qualcosa di malamente, qualcosa di oscurantista che resiste al bagno di luce e di buone pratiche e felici pensieri che sono il prodotto dei tempi moderni)...».
E qui mi fermo, come se un buco nello straccio avesse infilato la maniglia che andavo strofinando, perché, nel commentare la manifestazione di piazza San Giovanni, anch’io intendevo dire «qualcosa di malamente» definendo «avanzi di Medioevo» gli organizzatori di quel Boor Pride. E perciò sarei ignorante pure io. 
Perché si sa che il Medioevo è stata un’epoca di luce, l’oscurantismo di quei tempi è tutta leggenda nera. Ah, il Medioevo, che età dell’oro! Che fermento di idee, che sete di conoscenza, che libertà di pensiero! Poi, purtroppo, arrivò il Rinascimento e – clic! – fu il buio.
E vabbè che la storia è un continuo revisionare, ma a quando il Cretaceo come Era dei Lumi?

Al bar

Più che un bar sembra un convivio di saggi, almeno la prima impressione che dà è quella. L’insegna, d’altronde, reca il titolo di un’opera di Platone: la Repubblica.
Entro, mi siedo a un tavolino e, mentre aspetto che il cameriere venga a prendere l’ordinazione, non posso fare a meno di prestare attenzione a quel che dice un tizio seduto poco distante.
È sull’ottantina, secco come un eremita, ed è attorniato da una mezza dozzina di signori dall’aspetto assai distinto che lo ascoltano – mi pare – con reverenza.
«Che senso ha – dice – il viaggio e il lungo soggiorno nello spazio di Samantha Cristoforetti? Domandiamoci perché l’abbia voluto affrontare: forse per provare a se stessa e al mondo il proprio sprezzo del pericolo e in specie la sua vittoria, che a me appare per l’eccesso di paura che mi ispira, sulla claustrofobia? Camminare fuori gravità sostenuta da un vuoto immenso, sarebbe una superiore aggiunta di libertà o una vertigine vasocostrittiva da perderci la circolazione e la ragione? L’allenamento astronautico da Marine, l’arsenale sedativo e nutritivo chimico dell’equipaggio, sono sufficienti a persuadere che non avere la terra sotto i piedi è bello?».
Confesso che lì per lì resto confuso. Il tizio parla e non vola una mosca. Stanno ad ascoltarlo col massimo rispetto, pare, e cè perfino chi ha un lento ciondolar del capo che sembra un annuire. E tuttavia, per quanti sforzi faccia, non riesco a capire che cazzo stia a dire.
Cioè, a capirlo, lo capisco, ma mi sembra una scatarrata di stronzate. E però tengo a freno limpressione, direi quasi che mimpongo di rimuoverla, e per un po’ – devo dire – ci riesco. Sarà quella sua chioma candida, quella parlata lenta, meditata...
Sarà pure che tutti stanno a sentirlo come se non volessero perdersi una sola sillaba. Insomma, do per scontato che sia persona autorevole, può darsi stia imbastendo la sua riflessione sul filo del paradosso, dell’ironia, va’ a capire, in fondo non sono del posto...
Poi confesso che a farmi trattenere un giudizio negativo c’è quel tale che dietro il bancone asciuga un bicchiere dopo l’altro con un lembo del suo grembiule. Dev’essere il titolare, ha un sorriso di soddisfazione stampato in faccia come a dire: «E dove lo trovate, un bar come il mio? Mica ci limitiamo a servire drink e cappuccini: questo è un cenacolo di dotti». Insomma, è brutto dirlo, ma resto un poco intimidito, e non riesco a far altro che continuare ad ascoltare.
«Di fisiologia ginecologica – continua il tizio, e qui solleva un dito in aria, alzando un poco il tono della voce – la sfidante intrepida non avrà certamente avuto più nessuna traccia, fin, credo dalla base, come in un evento patologico. Non so, ma quella ragazza sorridente, ormai obbligata a vita alla stranezza del suo record femminile di vacanza extragravitazionale, mi fa molta pena. Per un’analisi freudiana si potrà interpretare una donna fluttuante fuori gravità come desiderio soddisfatto di un rapporto incestuoso col padre, senza nozze tragiche, senza esplicazione, irrorazione e amorosa redenzione scenica. Qualcosa di molto simile alla violenza a cui soggiace e a cui consente, nel romanzo Adelphi di cui sono autore “In un amore felice” la protagonista dalla doppia vita Ada dove il Padre esoterico e simbolico evocato emana il proprio sé dagli Elohim, remote vestigia veterotestamentarie».
Qui, devo dire, unonda di fastidio spazza via ogni riserva: o è pazzo, questo vecchio, o è ubriaco; e ubriachi devono essere pure quanti lo ascoltano senza dire una parola, o sono pazzi pure loro.
Perché Samantha Cristoforetti va nello spazio? Per sballare, più o meno. Eventualmente per cercare di vincere qualche sua vecchia tara psicologica. Che pena, poverina. Chissà, le saranno saltate pure le mestruazioni. Per cosa, poi? Per sublimare nellimpresa astronautica un desiderio incestuoso. E tutti ad ascoltare, senza fiatare, uno capace di sparare tutta in una volta questa sventagliata di stronzate?
Se un po mi conoscete, sapete che dinanzi a roba del genere io non so stare zitto. E infatti sto per intromettermi, quando in piedi, davanti al tavolino, mi si para il tipo che prima era dietro il bancone, e mi fa: «Cosa le possiamo servire?». Ordino un succo di pomodoro e un piattino di olive. Intanto ho perso lattimo e mi rimetto ad ascoltare: «Le imprese spaziali – dice il vecchio – non sono portatrici di luce: chiamarle scientifiche è estenderle oltre le mura umane, e sgomenta la veemenza del loro urto con l’ambiente, che dura dai primi Sputnik e Apolli in cui sempre più incollati gli uni agli altri tentiamo di sopravvivere ai maleodoranti purgatori politici. La Civitas Dei non è più una speranza, la città umana si va trasformando sempre più in un mostro. La nave spaziale è inabitabile, le fughe sui pianeti impossibili. Dateci sogni, sogni, sogni…».
Un pazzo fottuto, non cè dubbio. Mè passata pure la voglia di dirgliene due: cosa vuoi dire a uno che in testa deve averci tanti buchi quanti ne ha una forma di Emmental?
Ma ecco il vassoio col mio succo di pomodoro.
«Grande, eh?», mi fa il tipo col grembiule.
«Sta scherzando?», chiedo.
Mauro – ha una targhetta col quel nome appuntata in petto, non deve essere il titolare, probabilmente è solo un cameriere – si fa livido in volto e mi fa: «Sarà lei a voler scherzare. Ma lei sa chi è quello?».
«A me è parso uno di quegli imbecilli di cui parlava Umberto Eco la settimana scorsa, uno di quelli che un tempo, dopo averne bevuto uno di troppo, si lasciavano andare a invereconde scempiaggini. Ho pensato: “Non ci sono più i bar di una volta. Una volta, un tizio così lavrebbero zittito subito. Ora i bar somigliano ai social network, dove puoi scrivere anche le più mastodontiche cazzate senza che nessuno...».
«Ma per piacere – mi interrompe Mauro – non bestemmi: quello era Ceronetti, un Premio Nobel o giù di lì».

[in corsivo: Guido Ceronetti, Samantha, lo spazio e il signor Freud (la Repubblica, 21.6.2015 - pag. 50)]

lunedì 22 giugno 2015

Tempo perso

È ampiamente dimostrato che Piazza San Giovanni non possa affatto contenere il milione di persone che invece chiunque vi organizza una manifestazione si ostina a vantare di essere riuscito portarvi, ma anche stavolta, col Family Day che vi si è tenuto laltrieri, abbiamo dovuto sentirci rifilare questa panzana, che in questo caso, più che irritare, sconcerta, perché, a detta degli organizzatori, lì si era chiamati a riaffermare ciò che sarebbe – insieme – realtà autoevidente e verità indiscutibile, per giunta con valenza di legge naturale, e quando mai roba del genere ha bisogno del numero per essere riaffermata? Se non basta a riaffermarsi da sola, non basta nemmeno un milione di persone.
No, è proprio limportanza che si pretende sia data al numero delle persone presenti in Piazza San Giovanni – 400.000 secondo il Viminale – a rivelare che il Family Day non avesse altro fine che una dimostrazione di forza, in tutto simile a quei raduni sindacali in difesa degli interessi di questa o quella categoria di lavoratori: la manifestazione, in questo caso, era in difesa dei privilegi della famiglia cosiddetta tradizionale, una roba più o meno simile a quella cui danno vita i tassisti quando qualcuno si permette anche soltanto di sfiorare le esclusive della loro licenza. Onestamente, tuttavia, occorre concedere che i tassisti sono un pochino più aggressivi.

Qui il post potrebbe anche considerarsi chiuso, daltronde neanche lavrei aperto se non avessi ricevuto più di un rimprovero per aver trascurato l’evento, ma, già che mi ci trovo, mi sia consentito di chiuderlo con uno sbocco di insofferenza, confessando che mi pare inutile, oltre che noioso, continuare a segnalare l’assurdo di un paese condannato a rincorrere il mondo civile standogli sempre dietro di quattro o cinque lustri, mai in grado di recuperare il ritardo, né almeno di fermarsi, non muovere più un passo, per rivendicare con orgoglio la propria inciviltà, gridando al mondo: siamo italiani, e qui da noi un ricchione è un ricchione, chi prende la pillola è una zoccola, stiamo bene così, ci basta che la pasta sia al dente e che ogni tanto si indica un Giubileo.
Perché almeno volesse il cielo che avessero partita vinta una volta per tutte, questi avanzi di Medioevo, riuscissero una buona volta a imporcela, ’sta teocrazia, e invece sono buoni solo a romperci i coglioni con le loro miserabili tautologie spacciate per verità assolute, che poi regolarmente si sbriciolano ad una ad una. Tranne che a blaterare di terapie per curare l’omosessualità, tranne che a cercare di insinuare sensi di colpa in chi abortisce, a costringere chi vuole l’eutanasia ad andare in Svizzera e in Spagna chi vuole la fecondazione assistita, non sono buoni a un cazzo, solo a combattere battaglie perse in partenza. E star lì a combatterle contro di loro – abbiate pietà, sto per dire una scempiaggine – mi pare sempre più – davvero, giuro – tempo perso. 

domenica 21 giugno 2015

«Le assunzioni hanno senso solo se cambiamo la scuola»

Dalla eNEWS 394 del 20 giugno 2015 (www.matteorenzi.it):


Assumendo che «modello organizzative» sia un refuso dovuto al fatto che la newsletter sia stata scritta di getto, vediamo se il testo possa rivelarci qualcosa della logica che informa questennesima mascalzonata dello zotico che siede a Palazzo Chigi.
Come dimostra il fatto che è quanto le agenzie di stampa ne hanno estratto per far sintesi, tutto ruota attorno all’affermazione che «le assunzioni hanno senso solo se cambiamo la scuola»: questo è quanto dovrebbe legare in modo indissolubile il regolarizzare la precaria condizione di 100.701 insegnanti a quella «diversa organizzazione» della scuola che dovrebbe essere attuata senza troppe discussioni. In sostanza: se non si procedesse all’approvazione della riforma così come la vuole Matteo Renzi, i precari potrebbero rimanere precari, senza alcun problema, né per loro, né per la scuola in generale.
Sta di fatto, invece, che essi già siano impiegati come corpo docente, e che sia proprio la loro condizione di precarietà a costituire un problema, per se stessi e per la scuola in generale: la loro assunzione è necessaria a prescindere da qualsivoglia «diversa organizzazione» si dia alla scuola. Di più, è necessaria anche volendo lasciare la scuola così com’è, e per la semplice ragione, più volte richiamata dalla giurisdizione nazionale e da quella sovranazionale, che non è lecito tenere in condizioni di precarietà dei lavoratori che in molti casi sono impiegati da decenni a far fronte alle esigenze di un’istituzione pubblica.
È perciò evidente la natura strumentale del nesso di necessità che viene surrettiziamente evocato tra la loro assunzione e l’approvazione di una riforma della scuola che debba essere in tutto e per tutto come la vuole Matteo Renzi, sicché assume valenza di vera e propria offesa dare ad intendere che assumerli comunque sarebbe come beneficarli di un «ammortizzatore sociale».
L’affermazione che «investire sui docenti serve a migliorare la qualità educativa per i nostri figli, non ad accontentare qualcuno», dunque, va ribaltata: giacché è del tutto opinabile che la riforma voluta da Matteo Renzi possa effettivamente «migliorare la qualità educativa per i nostri figli», non è ammissibile che l’assunzione dei precari sia posta a condizione di accontentare lui, approvandola.
È per questo che suona altrettanto offensivo quel «noi mettiamo i soldi»: si tratta di denaro pubblico, non di soldi che Matteo Renzi caccia di tasca sua, potendone così disporre a piacimento per comprarsi la realtà scolastica che più gli piaccia.
A parte, poi, varrebbe la pena di discutere dell’«autonomia» sulla quale sarebbe «basata» la «diversa organizzazione» della scuola voluta da Matteo Renzi, ma questo ci impegnerebbe a lungo sul merito della riforma, che in realtà non dà alcuna autonomia a quanti a vario titolo sono attori del processo educativo, limitandosi a piramidalizzarne le competenze in una logica che risponde alle esigenze di un mestierificio.

sabato 20 giugno 2015

[...]

«La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto
come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata,
e ha messo in risalto la funzione sociale
di qualunque forma di proprietà privata»

Laudato si, 93


«Vi è un socialismo che è connaturato a tutta la storia
della Chiesa e del cristianesimo, e di cui il Papato
si è valso in tutti i momenti in cui fosse necessario
conquistare i favori dei popoli, contro gli Stati e i governi. […]
Nell’idea socialista, al suo stato originario, vi è un principio
di “servizio”, di collaborazione dell’uno per l’altro,
di assistenza reciproca, di fraternità e carità,
che nessuna filosofia marxista potrà mai sopprimere
senza ricadere nei principi del liberalismo […]
e il cristianesimo l’ha capito tanto bene che non ha mancato
di approfittarne in tutta la sua storia. [...]
Vi è una “demagogia guelfa”, che ha nei paesi latini,
e non solo in quelli, una tradizione non meno viva e rigogliosa
della “demagogia giacobina”. Perché dunque meravigliarci
della funzione “socialista” del Papato?»

Giovanni Spadolini, Il Papato socialista

venerdì 19 giugno 2015

[...]

Quando ho sentito Matteo Renzi dire che aveva un «piano B» in risposta al no che gli veniva dallUnione Europea per la distribuzione in quota parte dell’ultima ondata di profughi arrivati in Italia, ho pensato: «Cazzarola, questuomo sarà la schifezza della schifezza della schifezza degli uomini, ma almeno ha un etto di fegato e cinquanta grammi di palle: ora caccia dal cappello larticolo 5 comma 6 del decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, dà un permesso umanitario a tutti gli ultimi arrivati e li fa liberi di andarsene dove vogliono, in culo a monsieur Hollande». Macché, si trattava del solito bluff. Quando gli hanno detto: «E caccia sto piano B, vediamo di che si tratta», ha messo giù le carte e sè visto che in mano aveva una coppia di 7: «Se non li volete voi, ce li teniamo noi». Così con quella fetecchia della cosiddetta #BuonaScuola: «Potrà cadere il mondo, ma per lestate vi rifilo il Calippo. Dovessi chiedere i voti a Verdini, ve lo rifilo». Poi a beccarsi un Calippo tra le chiappe è lui, ai ballottaggi, e qual è la risposta? «Ah, sì, non mi votate? E allora ve la faccio vedere io, ve la faccio: non assumo i precari. L’Agnese ci rimarrà male, ma le faccio fare un giretto in compagnia della Michelle e le passa». Robe che, se alle Europee non andava come è andata, probabilmente niente ottanta euro. Zero fegato, zero palle, il giorno che sarà infilato nel tritacarne cè da scommettere che lo sentiremo urlare: «Mammina! Mammina!», e finirà perfino con strapparci un cicinìn di pena.

[...]


ad A. F. 

Anche se analgesici e antispastici sono riusciti ad attenuare in modo rilevante quello che in epoche passate fu vissuto dal paziente come un atroce supplizio che spesso si protraeva per giorni e giorni, quasi sempre accompagnato da gravi complicanze non di rado letali, lostruzione di un tratto delle vie urinarie causata da un calcolo rimane esperienza altamente drammatica, e tutto poi per cosa? Per un sassolino.
Non c’è bisogno di aver letto Duby, Bloch, Le Goff e Baltrusaitis per farsi un’idea di come dovesse essere elaborato, sul piano emozionale, un episodio clinico del genere nel Medioevo, né dunque dovrebbe risultare così avventata l’ipotesi che l’invenzione della «pietra della follia», il sassolino che si riteneva fosse la causa delle sofferenze dei malati di mente e che si pensava fosse possibile rimuovere dal loro cranio per portarli così a sicura guarigione, nasca in quel periodo storico per inferenza analogica con la calcolosi: la pazzia come colica cerebrale.
Cè, invece, chi davanti alla «Estrazione della pietra della follia» di Hieronymus Bosch sparacchia, e non riesco a capacitarmi donde tragga tanta certezza, che lidea di un sassolino responsabile della pazzia nascerebbe per inferenza antitetica con la «pietra filosofale», alla quale, tra le numerose altre virtù, era attribuita quella di conferire il sommo sapere e il perfetto intelletto. Non ha importanza chi lo sostenga, ha importanza mettere a confronto le due ipotesi, l’una avanzata da un autorevole accademico, l’altra da un imbecille qualsiasi, che poi sarei io. 

giovedì 18 giugno 2015

Una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa / 1

Non una virgola fa la differenza tra il testo dellenciclica Laudato si che oggi è stata ufficialmente presentata in Vaticano e quello che qualche giorno fa lEspresso ha divulgato come «bozza» (*), dunque possiamo rompere ogni indugio e dar corpo alle impressioni che avevamo trattenuto per doverosa riserva: si tratta di un azzardo che potrebbe costare assai caro alla Santa Sede, perché una cosa è il necessario riposizionamento geopolitico in un mondo che da decenni non regge più sugli equilibri di un tempo, ma unaltra è dargli un manifesto che in buona sostanza, come vedremo, si assume i rischi di dichiarare incontrovertibile la rottura dell’intesa che, pur tra occasionali momenti di tensione, fin era sempre stata solida tra Capitale e Chiesa, anche quando l’incalzare delle istanze che si levavano dai meno abbienti costringevano la Santa Sede a pretendere che più abbienti mostrassero un volto compassionevole.
Si potrà a lungo discettare su quanto questa mossa potesse considerarsi obbligata a fronte del collasso demografico e della ingravescente secolarizzazione che affliggono il mondo occidentale, rendendo il cattolicesimo sempre più debole dove prima era fortissimo, per fargli trovare qualche vigore in Africa, in Asia e in Sudamerica, ma sta di fatto che essa è estremamente impegnativa per i pontificati a venire, soprattutto per il taglio che si è deciso di dare alla denuncia di un sistema che fin qui ha dimostrato di sapersi perpetuare di ristrutturazione in ristrutturazione, perpetuando – certo – le sue ingiustizie strutturali, ma riuscendo comunque a sventare la profezia di una sua ineluttabile implosione. Perciò potremmo dire che la denuncia che Bergoglio scaglia contro il mondo così com’è pecca dell’ingenuità e della retorica che Marx rimproverava agli utopisti. E non è tutto, perché sugli strumenti che dovrebbero trasformarlo in come dovrebb’essere non riesce a spiaccicare nulla che non sia l’ormai datata esortazione di Leone XIII, da un lato a temperare l’egoismo, dall’altro a rifuggire da soluzioni violente.
Nulla di più cretino che definire socialista questa enciclica: non lo è nel metodo dell’analisi, né nel merito del progetto che sarebbe alternativo. Sono i toni che rendono Laudato si’ un’enciclica inaudita, ma la ricetta non si discosta da quella della Centesimus annus. In più, gronda di ammicchi, di tic, di luoghi comuni, di vulgate fortunate ma che non hanno mai trovato saldo fondamento, addirittura di qualche franca bestialità.

[segue]

(*) In realtà, qualche differenza c’è, ma attiene esclusivamente a dettagli formali.

mercoledì 17 giugno 2015

[...]

Potrebbe avere qualche interesse raffrontare il testo della bozza di Laudato si diffusa da l’Espresso con quello definitivo dell’enciclica, che dovrebbe essere reso pubblico domani, ma non ci si deve attendere grosse sorprese, perché in Proprietà il .pdf recita «Creato il: 10/06/2015 – 11:12:20» e «Modificato: 11/06/2015 – 23:01:17», segno che si tratta di versione pressoché prossima a quella finale. Vero è che l’enciclica ha subìto almeno tre rifacimenti ab ovo, almeno così si è vociferato, ma da almeno tre pontificati è ormai la regola che la stesura di un documento ufficiale della Santa Sede sia assai più tormentata che in passato, com’è comprensibile tenuto conto del fatto che la platea dei lettori si è enormemente allargata e che l’attenzione a questo genere di testi si è fatta sempre più critica. Non si può escludere che nel raffronto troveremo qualche aggiunta, qualche taglio, qualche riformulazione, ma non dovrebbe trattarsi di grossa cosa, a maggior ragione dopo la divulgazione della bozza, che può aver irritato tanto anche perché rendeva imbarazzante apportarvi variazioni significative in extremis.
In tal senso occorre ridimensionare drasticamente la portata di quel «depotenziamento» dell’enciclica che si è detto sarebbe stato negli intenti di chi ha passato il testo della bozza a l’Espresso: senz’alcun dubbio Bergoglio è inviso ad ampi settori della Curia che un tempo erano solerti esecutori della politica ruiniana, senz’alcun dubbio Sandro Magister è un ruiniano di ferro, senz’alcun dubbio la divulgazione della bozza costituisce un affronto che può avere anche un’obliquità intimidatoria o addirittura minatoria, ma il testo di un’enciclica ha forza, se ne ha, che trascende il contesto dal quale è stata licenziata. Fatto sta che Laudato si’ è un’enciclica a dir poco imbarazzante e, se sarà il caso di parlarne più estesamente quando tra poco avremo a disposizione la versione ufficiale, non si può far a meno di rilevare quel che fa trasalire – letteralmente trasalire – leggendone la bozza: ipotesi scientifiche parecchio controverse spacciate come verità inconfutabili, sconcertante eccletismo filosofico, affermazioni che danzano pericolosamente sul bordo della dottrina, e poi, com’era prevedibile, uno stile pastorale che cede perfino a qualche beceraggine pur di compiacere quella sensibilità mondana in cui Pietro è convinto sia conveniente buttar la rete per fare la sua pesca grossa.
A parte, varrà la pena rammentare che fino ai primi anni Sessanta, quando in Vaticano ancora erano in uso pennino e inchiostro o stilografica, negli uffici della Curia era fatto divieto dell’uso di tamponi di carta assorbente per evitare la pur minima fuga di testi: al loro posto, si usava la sabbia. 

[...]


Basta un alito di vento, in autunno, e il picciolo si stacca, e la foglia abbandona il ramo, ma prima gli volteggia ancora un poco attorno, come attardandosi in un fragile indugio, e per un istante sulla scorza da cui trasse linfa si ripoggia, e sta sbilenca, per poi danzare via, leggera, senzaltro apparente peso che unultima nostalgia...

Rinuncio, ci vorrebbe la penna di un Giambattista Marino per descrivere le evoluzioni che fa la lingua di Bruno Vespa quando si stacca dal culo di un potente che inciampa. 

martedì 16 giugno 2015

Abbiamo un borderline a Palazzo Chigi


«Una proiezione riuscita consente al leader paranoide
di funzionare nel modo più efficace allinterno dei suoi confini,
anche se ciò avviene solo a prezzo di una imponente
distorsione percettiva della realtà esterna»
Otto F. Kernberg


«La sintesi è questa: abbiamo perso dove ci siamo fermati a mediare. Adesso Renzi deve tornare a fare Renzi». È possibilissimo che non abbia detto proprio così, si sa come sono i retroscenisti, sta di fatto che la frase attribuitagli da Maria Teresa Meli (Corriere della Sera, 16.6.2015) calza come guanto a Matteo Renzi.
Parla di sé in terza persona, tanto per cominciare, e su questo non è il caso di soffermarci troppo: si tratta di un sintomo noto anche a chi non abbia pratica con la semeiotica neuropsichiatrica, e che d’altronde possiamo anche evitare di considerare sul piano clinico, per ascriverlo su quello letterario all’habitus dello zotico che si è montato la testa. Poco da dire anche sull’ammissione di una sconfitta che, per il semplice fatto di essere una sconfitta, non può essere sua: è un altro sintomo che non richiede particolari competenze cliniche per essere rilevato come patognomonico del disturbo che affligge il tragicomico ometto, basta non commettere l’errore di interpretarlo come espressione di quell’autostima impermeabile al riconoscimento dei propri errori che nel vanesio cede a un civettuolo «il mio unico difetto è che son troppo buono», ma saper leggere in quell«adesso Renzi deve tornare a fare Renzi» il divorante bisogno di rivalsa che è tipico del narcisista che abbia subito una bruciante ferita.
Significativo, per questo, il fatto che la minaccia si sostanzi nel «tornare a fare Renzi», non nel tornare a esserlo: se non vogliamo far tesoro della lezione di Kernberg per individuare in un leader gli indizi di un Sé pesantemente disturbato, possiamo limitarci a dire che il poveraccio è ostaggio del personaggio che si è cucito addosso. Anche qui si opterebbe per uno slittamento dal piano clinico a quello letterario, il che tutto sommato continua a darci una rappresentazione coerente del soggetto, e tuttavia com’è possibile rinunciare allo strumento diagnostico dinanzi a una frase come «so che cè gente che vorrebbe spianarmi e vorrebbe approfittare di queste Amministrative per farlo, ma mi dispiace per loro, vinceremo questa battaglia»? Si tratta di un esemplare caso di ideazione paranoide. Ci è lecito liquidare l’uso di un termine come «spianare» e il repentino passaggio dall’«io» al «noi» come mere pennellate in un ritratto? E dinanzi a una frase come «la minoranza interna [al] Pd deve stare molto cauta, perché a questo giro non possono trascurare il risultato di queste elezioni: loro hanno perso», possiamo limitarci a considerarne le incongruità logiche (quando il partito vince, la vittoria è tutto merito suo; quando il partito perde, la sconfitta è dei suoi oppositori interni), trascurandone il carattere proiettivo?
Via, la questione è politica solo incidentalmente, siamo davanti a un caso che possiamo anche limitarci a dire umano, ma che è molto più corretto definire caso clinico. Certo, può provocare sgomento pensare che abbiamo un borderline a Palazzo Chigi, ma limitarci a considerarlo l’interprete di una parte in commedia ci impedisce di mettere in conto gli sviluppi tragici.

venerdì 12 giugno 2015

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Quello della Casa della Divina Provvidenza non è certo il primo caso di unimpresa gestita da suore che per difficoltà economiche cedano alla tentazione di chiedere aiuto a soggetti poco raccomandabili. Non si aveva notizia, invece, di suore che da tizi del genere arrivassero a subire, senza neppure abbozzare un cenno di protesta, cocenti offese del tipo «da oggi in poi comando io, se no vi piscio in bocca». Siamo alla fine dei tempi, i segni ci sono tutti.  

L’imbecillità

Dovrei intrattenermi almeno un pochino sulla questione sollevata da Umberto Eco nel corso della lectio tenuta all’Università di Torino, dove gli è stata conferita la laurea honoris causa in Comunicazione e cultura dei media, questo pare sia il temino sul quale la blogosfera è chiamata a fare il compito in classe, e a consegnare il foglio in bianco si fa una figuraccia, non sia mai detto.
«I social media – ha detto Umberto Eco – danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Beh, confesso che a me paiono parole a vanvera.
Chi metteva a tacere l’imbecille al bar, e come? Chiunque fosse, e in qualunque modo riuscisse a metterlo a tacere, se ci riusciva, cosa gli impedirebbe di farlo anche con l’imbecille sui social media? Ma, poi, oggi come ieri, il modo più saggio di reagire a ciò che un imbecille dice non è quello di lasciarlo dire, tutt’al più scrollando il capo? Concedo che non si abbia lobbligo di esser saggi fino a questo punto, e che la tentazione di entrare proprio in quel bar, indignarsi per ciò che dice limbecille, considerare indispensabile che taccia, fare qualcosa per cercare di farlo tacere, sia irresistibile, ma cosa impedisce di farlo anche sui social media? E ancora: in cosa consiste il danno che limbecille arreca alla collettività? E perché un imbecille dovrebbe vedersi negato il diritto di parola? Meglio: è sul piano del diritto che si sostanzia ciò che dà valore alla parola del Premio Nobel rispetto a ciò che non ne dà a quella dellimbecille?
Troppe domande, so bene, e a nessuna riesco a dare una risposta, ma è che la questione sollevata da Umberto Eco mi pare sia difettosa già in premessa, sicché rinuncio ad approfondirla, per dare invece attenzione al contesto nel quale è sorta la questione.
Dico: che senso ha conferire una laurea honoris causa a Umberto Eco? Per meglio dire: che senso ha che gliela offrano, ma soprattutto che lui la accetti? Gliene avevano già conferite altre trentanove prima di questa, e questa era la quarantesima, e tutti sanno che è un’onorificenza che ormai da decenni ha perso il prestigio che aveva in passato, e allora: se è comprensibile che la cosa possa gratificare un Vasco Rossi, non è ridicolo che un accademico di fama preclara come Umberto Eco si presti a quella che in fin dei conti non è che una fatua comparsata in tocco e toga?
La vanità, si dirà, è una debolezza umana. Senza dubbio, ma come dar torto ad Ambrose Bierce per il quale è pure il tributo che l’imbecille riserva all’asino che gli è subito d’accanto?