giovedì 2 luglio 2015

Moria di gatti


I

Suor Angelina, al secolo Genoveffa Poltronieri, era zoppa da sempre. «Cumme me lassaje cummenzaje a truculia’», confessò un giorno che era in vena di confidenze. Displasia dell’anca, probabilmente, ma a settant’anni e più, tanti ne aveva ai tempi cui rivanno queste memorie, con l’artrosi e l’osteoporosi che dovevano aver fatto il resto, sarebbe stata impossibile una diagnosi certa. Aveva sempre rifiutato una radiografia, disse, e da bambina era stata convinta dai suoi ad accettare la cosa come la volontà di Dio, col sollievo di sei centimetri di rialzo al tacco di una scarpa, che davano al suo passo il ritmo di una duina: struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa. Praticamente da sempre era il factotum nella clinica in cui da una dozzina d’anni tenevo ambulatorio il mercoledì e il sabato, e nella quale era riuscita a sistemare tre nipoti, giardiniere, cuoco e barelliere, fatti venire dal paesino incastrato su un cocuzzolo del Molisano nel quale era nata.
Era lei a venirmi ad aprire, verso le sei del mattino, e la scena si ripeteva sempre uguale: il trillo del campanello, l’inconfondibile rumore dei suoi passi, le due mandate di chiavistello, la sua faccia da topo, l’immancabile «venite, ché mo è asciuto ’o cafè». Una chiavica di caffè, a onor del vero, ma per fumarci sopra la seconda sigaretta della mattinata si poteva pure chiudere un occhio.
La prima sigaretta della mattinata la fumavo in auto, una mezz’ora dopo essermi mosso da casa. Per arrivare in clinica alle sei partivo intorno alle cinque, passavo a prendere i giornali all’unica edicola aperta a quell’ora in città e mi avviavo, controllando di tanto in tanto nello specchietto retrovisore l’alba che mi seguiva fino a superarmi.
Era il momento più bello della giornata. Ormai conoscevo la strada così bene che avrei potuto percorrerla ad occhi chiusi, ma i fari dell’auto proiettavano una luce imperdibile sui costoni di tufo che bordavano da un lato la carreggiata, di un ocra che trascolorava ad ogni curva in suggestioni sempre diverse, talvolta davvero sorprendenti.
Di tanto in tanto incrociavo un camion carico di ortaggi o di legname, qualche pazzo che si allenava per una gara di fondo e, data l’ora, i cumuli di spazzatura che al ritorno non avrei visto più perché di lì a poco rimossi dai netturbini. Al ritorno non c’era più traccia neppure dei topi stecchiti dagli pneumatici delle auto che, abbagliandoli nel bel mezzo del guado, li paralizzavano al centro della carreggiata, lasciandoli lì, ridotti a oscene poltiglie dalle forme a volta davvero assai bizzarre. Spettacoli da dare il voltastomaco, comprensibile che la vita ridotta a carne scomposta venga sottratta alla vista delle donne che vanno a far la spesa e dei bambini che vanno a scuola, e così, premurosamente, accadeva. Tanto più se si trattasse di un gatto o di un cane.
Quei fagotti di viscere esplose sotto le ruote di un’auto mi infliggevano ogni volta domande che non trovavano risposte. Cosa poteva aver valso il rischio di attraversare la strada? Domanda idiota, cui un’altra tentava una risposta: un topo è in grado di concepire ciò che noi umani chiamiamo rischio? Ma pure questa mi sembrava idiota, e un’altra domanda, in risposta a quella, non meno idiota di quella, veniva a tentare invano una risposta: quella inutile traccia di frenata era un segno di superiorità dell’uomo sull’animale? Non sul piano dei riflessi, concludevo, ma senza aver concluso niente. Tutte le questioni sollevate restavano aperte, sicché passavo a un altro ordine di problemi. È più pena o ribrezzo? E perché si tratta in ogni caso di un sentimento che inesorabilmente è via via crescente all’aumentare della taglia dell’animale ucciso?
Anche queste erano domande che rimanevano senza risposta, ma il caffè di suor Angelina le dissolveva, e senza che ne restasse traccia lungo la giornata. Tornavano lungo la strada che mi riportava a casa, dopo il lavoro, ma in altra forma. Ripensavo al cancro ovarico della quindicenne, al seminoma testicolare del trentenne, al linfoma del settantenne, e con dispetto facevo i conti con quella gerarchia emotiva che mi dettava una palese disparità di pena da caso a caso. E anche qui non sapevo se fosse giusto o no.



II

Intorno alla fine di gennaio dell’anno in cui si svolsero i fatti che mi accingo a narrare accadde qualcosa di inquietante: settimana dopo settimana aumentava il numero dei gatti che trovavo morti sulla strada che facevo. A pensarci bene, la cosa doveva essere cominciata già negli ultimi mesi dell’anno che si era appena chiuso, ma ora non c’era settimana che non ne contassi almeno quattro o cinque, e il numero era destinato a crescere, perché nella sola seconda settimana di aprile ne contai quattro il mercoledì e tre il sabato.
Non era solo questo a darmi inquietudine. I corpi giacevano senza vita lungo un tratto di strada relativamente ridotto, non più di quattro o cinque chilometri, gli ultimi prima del mio arrivo, ma nell’area, almeno quando vi passavo, non vi era alcun segno del movimento cui i gatti avrebbero dovuto dar vita per dare in qualche modo spiegazione di un così elevato numero di cadaverini: non un gatto vivo ai margini della carreggiata, solo gatti morti. Era come se si dessero appuntamento in gran numero in quella zona apposta per farsi mettere sotto le ruote delle auto che passavano di lì, per poi sparire, e darsi appuntamento la notte dopo.
Un convegno suicidiario? Decine, forse centinaia di felini, per qualche ora si affollavano lungo quei quattro o cinque chilometri di strada, in attesa di un’auto, di un furgone, di un camion, per andare spiaccicarvisi sotto? Per essere una strada così poco trafficata di notte, la cosa sollevava molti dubbi, in primo luogo riguardo al fatto che nessuno se ne fosse accorto. Di fatto, nessuno ne parlava.
Altri dettagli rendevano il mistero ancora più inspiegabile. In primo luogo, col crescere del loro numero, i gatti morti non giacevano più in modo casuale sulla carreggiata, ma quasi esclusivamente sul suo lato destro, a un metro o poco più dalla striscia gialla che la delimitava. Poi, e qui la cosa dava davvero da pensare, non vi era alcuna traccia di frenata degli pneumatici sull’asfalto. L’ipotesi del convegno suicidiario perdeva peso, ma forse era più credibile che qualcuno si fosse inventato un nuovo sport? Una combriccola di automobilisti batteva quel tratto di strada per la loro notturna caccia al gatto? Ipotesi ancor più balzana. Per cercare di capirne qualcosa avrei dovuto dedicare del tempo alla faccenda, ma non potevo permettermelo, sicché cercai di accantonarla, anche se ogni mercoledì e ogni sabato tornava a pungolarmi.
Durò poco, perché un sabato mattina mi si presentò davanti Angelo D’Esposito, un omino sulla cinquantina, capo netturbino. Da qualche tempo aveva una febbricola accompagnata da nausea, inappetenza, dolore al fianco destro, un lieve ittero e perdita di peso. L’ecografia chiarì che si trattava di un grosso ascesso, presumibilmente amebico, che gli aveva mangiato quasi tutto il lobo sinistro epatico. Accolse la diagnosi quasi sollevato, perché aveva pensato si trattasse di molto peggio e, giacché era l’ultimo paziente della giornata, ci trattenemmo un po’ a chiacchierare. E così arrivai a chiedergli dei gatti.
«Com’è che ne muoiono così tanti da queste parti?».
Fece una smorfia come se si trattasse di una questione ormai archiviata senza spiegazione.
«Non me ne parli. Ne abbiamo discusso per settimane coi colleghi dei comuni della zona e non siamo riusciti ad arrivare a niente. Nessuno che sia riuscito a capire cosa accada, ma per i nostri uomini il mercoledì e il sabato sono i giorni più faticosi. Perché non è tanto la rimozione dei corpi, ma pulire l’asfalto è un lavoraccio che richiede...».
«Come? – lo interruppi – Li trovate solo il mercoledì e il sabato?».
«Non se n’è accorto? Solo in quei due giorni».



III

Tornando a casa, cercai di mettere un po’ d’ordine ai pensieri che avevano cominciato ad affollarsi attorno a quanto avevo appreso dal D’Esposito.
E dunque. Da alcuni mesi sempre più gatti morivano sotto le ruote delle auto su un tratto di strada lungo sette o otto chilometri, perché a quelli che percorrevo io – così mi aveva rivelato il D’Esposito – se ne dovevano aggiungere almeno altri due, proseguendo oltre, sui quali la cosa era fin lì stata in tutto simile. I corpi venivano trovati quasi soltanto il mercoledì e il sabato, era solo grazie a questa coincidenza coi giorni in cui avevo ambulatorio in clinica che avevo potuto accorgermi della cosa. Chi investiva i gatti non accennava neppure a un tentativo di frenata e tuttavia non era evidente un chiaro intento di passarci sopra perché la posizione in cui venivano trovati i corpi era compatibile con una traiettoria dell’auto sulla carreggiata del tutto ordinaria, sicché la cosa risultava due volte inspiegabile, sia a voler ipotizzare una caccia al gatto, sia a pensare che si trattasse di un suicidio di massa. La cosa, poi. Continuavo a dire «la cosa», ed era solo per negare a me stesso che fosse diventata una vera e propria ossessione. Cominciavo a sognare gatti morti, e risparmio a queste pagine i dettagli. Risolsi che avrei dovuto interessarmi alla faccenda.
Quasi avesse intuito, il D’Esposito mi lasciò in clinica un plico con una relazione dettagliata su quanto aveva registrato negli ultimi mesi, corredata perfino da alcuni grafici, da alcune foto, da fotocopie di circolari, di esposti alle autorità competenti: dal dicembre dell’anno precedente al luglio corrente, centoundici gatti morti trovati il mercoledì e il sabato, a fronte dei soli quattro trovati negli altri giorni della settimana; conferma dell’uniformità dei dati relativi alla posizione dei corpi sulla carreggiata, quasi tutti giacenti sul suo margine destro, col loro asse maggiore perpendicolare a quello della corsa degli pneumatici; dato che mi sorprese, perché fin lì non ero stato in grado di rilevarlo, uniforme era anche il tipo di lesione che aveva causato tutte quelle morti, quasi sempre a carico del solo cranio, tutt’al più del cranio e del torace; a ulteriore e maggiore sorpresa, la concorde strafottenza alle segnalazioni che il D’Esposito aveva inviato alle forze dell’ordine, agli uffici comunali, alla locale società protettrice degli animali, ecc.
Il plico era accompagnato da una lettera:

«Caro dottore,
le scrivo da Brescia, dove sono arrivato la settimana scorsa, perché non mi fidavo delle cure che avrei potuto aspettarmi rimanendo a casa. Qui il primario mi prega di farle i complimenti per la diagnosi: dice che non era facile pensare che si trattasse proprio di un ascesso amebico, e infatti prima di crederci mi hanno fatto una tac e un sacco di altre analisi. Ora sono in terapia e ogni tre giorni mi fanno un’ecografia di controllo. Pare che l’ascesso vada regredendo, adesso è di quarantadue millimetri, e comunque la febbre va sparendo. Insomma, se Dio vuole, tra due o tre settimane dovrebbero dimettermi, almeno così dicono.
Come ha visto, le ho lasciato un po’ di materiale relativo alla questione di cui discutemmo. All’inizio ci stavo perdendo la testa e mi ero fatto delle idee assai strane che comunque abbandonai subito perché tiravano in ballo persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto. Ho pensato che sia meglio se ne interessi lei, se ne ha voglia e se riuscirà a trovare tempo, ma l’impressione che la faccenda nasconda qualcosa di grosso non mi è mai passata, quindi avrei piacere se al mio ritorno mi facesse sapere cosa è riuscito a capire, visto che qui mi dicono che avrò bisogno di un’ecografia ogni tre mesi per almeno un anno. Dicono che si tratta di ascessi che possono dare recidiva e qui mi consenta, con rispetto parlando, una scaramantica grattata di palle.
A presto, suo

Angelo D’Esposito

P.S.: Pensa che quello che mi è accaduto possa avere qualche relazione col mio lavoro? Crede possa esserci possibilità di iniziare una pratica per il pensionamento anticipato da malattia professionale?».

Cosa intendeva dire, il D’Esposito, quando parlava di «persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto»? A cosa l’avevano portato, le sue indagini? Quali erano i suoi sospetti?


IV

Decisi di procedere in modo sistematico. Anche troppo, in verità, perché cominciai con l’infliggermi la lettura del più voluminoso trattato sui gatti che riuscii a procurarmi: due tomi per un totale di oltre tremila pagine. L’opera si apriva con un’ampia e dettagliata trattazione dell’anatomia e della fisiologia dei felini, per passare poi ad una sezione relativa alle loro patologie più comuni, fino a quelle più rare. A chiudere il primo tomo, una più che esauriente sezione dedicata alla loro alimentazione e alle loro abitudini, insieme ad una infinita serie di consigli relativi alla perfetta convivenza dell’animale con la specie umana.
Assai più interessante il secondo tomo, quasi interamente dedicato alla storia dell’animale dagli albori della storia ai nostri giorni: ittiti e atzechi, impero di Carlo V e antico Egitto, Roma dell’età repubblicana e Inghilterra vittoriana, e in tutto la sorniona e fiera presenza del gatto. Cose che in gran parte già conoscevo, ma ad ogni pagina scoprivo qualcosa di nuovo, perfino di incredibile.
Puntai l’attenzione a tutto ciò che fosse in relazione all’uccisione dei gatti nel corso della storia. Poca roba. Una setta assira li sacrificava al plenilunio nella certezza che fossero le vittime preferite dal proprio dio. Un altro gruppetto di folli, nel primo Rinascimento, vicino ad Amsterdam, li squartava vivi dopo averli nutriti con latte di capra per trenta giorni, tenendoli al buio, per prelevarne la bile, ingrediente base per la preparazione di uno dei tanti elisir di lunga vita ideati dalla ispirata cialtroneria umana. E poi per secoli erano stati uccisi per far cappelli e baveri con la loro pelliccia, nella versione povera di quella di volpe. Ma i gatti di cui mi interessavo io non morivano nei pleniluni, né venivano trovati scuoiati, e agli elisir di lunga vita, infine, chi poteva credere ancora?
Proseguendo, trovai i gatti uccisi nel XVI secolo dagli studenti di medicina cui era interdetto lo studio dell’anatomia sui cadaveri umani, e ancora quelli che vennero mangiati a Leningrado, prima che l’assedio ad opera dell’esercito del Terzo Reich costringesse gli assediati, finiti i gatti, a passare ai topi. Si parlava degli studi neurologici che Charcot per qualche tempo condusse sul cervello di gatto, e di quelli, in parte analoghi, di Ramon y Cayal: gatti che finivano in un inceneritore, non ai bordi delle strade. Poi, naturalmente, The Great Cat Massacre sul quale qualche anno prima Robert Darnton aveva scritto un fortunato saggio... Nulla, insomma, che facesse al caso mio.
Quasi nulla, per meglio dire. Perché una decina di righe era dedicata a un vecchio rito pagano riesumato intorno al 1500 ad Amalfi, ad opera di un certo Eugenio Sormani e dei suoi accoliti, tutti finiti al rogo per stregoneria tra il 1517 e il 1521: impiccavano gatti e traevano aruspici dalle oscillazioni della corda durante la loro agonia. Pensai che anche in questo caso non si trattasse di una traccia utile, ma d’un tratto, come trafitto da una rivelazione, mi ritrovai a chiedermi: «Ma siamo sicuri che muoiano sotto gli pneumatici delle auto? Non è possibile che siano uccisi altrove, e in altro modo, per essere portati dove poi vengono trovati allo scopo di celare il vero scopo per cui vengono uccisi? E il fatto che le ruote passino esclusivamente sulle loro teste non può servire proprio a cancellare ogni segno che indichi in che modo sono stati uccisi?». «Fosse così – conclusi – si spiegherebbe tutto ciò che fino ad ora è stato inspiegabile».
Presi le foto scattate dal D’Esposito per cercare di cogliervi qualcosa che potesse essermi sfuggito. Niente, le teste dei gatti erano ridotte in uno stato da rendere impossibile qualsiasi supposizione. Dovevo procedere di persona.
Un sabato di ottobre, alle cinque e un quarto, accostai la mia Renault al bordo della solita strada, tirai il freno a mano e spensi il motore. Uscii dall’auto armato di una Polaroid e di un nastro centimetrato e mi avvicinai al corpo di un gatto che mi ero lasciato una ventina di metri dietro. Aveva la testa spiaccicata sull’asfalto, quasi esplosa sotto il peso della ruota che le era passata sopra. Sulla poltiglia sanguinolenta era visibile perfino l’impronta dello pneumatico in due strisce di poco divergenti l’una dall’altra. Vincendo il ribrezzo, scattai quante più foto possibili, per poi prendere le misure che potessero tornarmi utili. Procedendo verso la clinica, vidi altri cinque cadaverini, ma solo con due ripetei le stesse operazioni, perché avevo esaurito la scorta di caricatori per la Polaroid.


V

Per qualche giorno non fui in grado di metter mano al materiale che avevo raccolto: potrà far sorridere, ma era come se temessi qualcosa. Quando finalmente poi mi decisi, ogni timore si dissolse, ma per lasciare posto ad una frenesia che non mi lasciò più.
I tre casi di cui avevo raccolto gli estremi erano in tutto simili. Li confrontai con quelli delle foto del D’Esposito e tutto coincideva con i miei. Le impronte degli pneumatici appartenevano tutte allo stesso modello: era sempre la stessa auto.
D’un tratto riuscii anche a spiegarmi la sovrapposizione delle due impronte tra loro lievemente divergenti: l’autore del fattaccio fermava la sua auto sul bordo della carreggiata, scendeva col gatto già morto, lo piazzava con la testa davanti alla ruota anteriore destra e ripartiva, sicché la ruota posteriore destra passava anch’essa sul cadavere ma con l’angolo di scarto dovuto alla sterzata necessaria a rimettere in carreggiata un’auto che aveva precedentemente accostato al suo bordo tenendosi di poco obliqua alla sua parallela.
Mancava la cosa più importante: a chi apparteneva quell’auto? Era credibile che appartenesse a un tizio in grado di procurarsi da solo, e in meno di un anno, più di un centinaio di gatti? No, era praticamente certo che fosse solo un anello della catena, probabilmente l’ultimo. E dunque si trattava di qualcosa che implicava più persone. Di cosa si trattasse, ero ancora lontano dal capirlo, e infatti infilai un vicolo cieco: «Passare con lo pneumatico sempre sulla testa e sul collo dei gatti – mi chiesi – non servirà per caso a cancellare i segni di un cappio? Vuoi vedere che Eugenio Sormani ha ancora dei seguaci?».
Mi tornarono in mente le parole del D’Esposito: «persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto». Mi sembrò che lo sgomento potesse ricadere su quelle «persone» in ragione del «fatto»: una setta che impiccava gatti mi sembrò che incastonasse a dovere quello sgomento. Decisi di scrivergli per aggiornarlo su quello che avevo scoperto, per metterlo al corrente dei miei sospetti, in realtà sperando che li confermasse, dandomi un’ulteriore traccia. Fu solo dopo aver spedito la lettera che cominciai ad avere dubbi sull’ipotesi dei sormaniani, ma intanto avevo già deciso di fare un salto ad Amalfi. Mi imposi di soprassedere in attesa della risposta del D’Esposito. Intanto avrei fatto qualche domanda a Gaetano Nicolella, il mio meccanico.



VI

«È un copertone della Pirelli che è in commercio solo da due o tre anni – disse Gaetano Nicolella – ma è montato su almeno cinque o sei tipi d’auto».
«E dall’angolo col quale divergono le due impronte non si può risalire alla distanza tra l’asse anteriore e quello posteriore, e quindi all’auto che monta questo pneumatico?».
Scosse il capo: «Se si sapesse con quale angolo di sterzata ha accostato l’auto – rispose – ma questo non lo sappiamo, né c’è modo di saperlo».
Tentai: «Ma l’angolo col quale divergono le due impronte è praticamente uguale in tutte le foto...».
«Questo – disse – ci consente di essere sicuri solo del fatto che accosta l’auto praticamente sempre con la stessa angolazione rispetto al bordo della carreggiata: niente di più, niente di meno».
Un buco nell’acqua, pensai, e feci per andarmene, scusandomi per il tempo che gli avevo fatto perdere. Tornai subito indietro, gli chiesi di non mandarmi al diavolo se gli ponevo un altro problema.
In tutte le foto che inquadravano un’area relativamente ampia rispetto al corpo del gatto, sia in quelle mie, sia in quelle scattate dal D’Esposito, era presente sull’asfalto una macchia che sembrava d’olio. Era un dettaglio che avevo notato solo guardando le foto e di cui dunque non avevo dati relativi alla distanza che lo separava dai punti che avevo preso in considerazione. Pasticciando nel tentativo di spiegare cosa pretendevo di sapere, chiesi al brav’uomo se una misurazione nota tra due punti considerati in una delle foto permettesse di calcolare la distanza tra il dorso del gatto – e dunque, con lieve approssimazione, tra l’asse anteriore dell’auto – e il punto dal quale era colato il liquido che aveva dato luogo a quella macchia.
«Cominciamo col dire – fece Gaetano – che una perdita di questo tipo può venire solo dal bocchetto posteriore della coppa. Se non fosse che la distanza tra la macchia e il dorso del gatto non è quella tra il bocchetto e l’asse anteriore...».
«Va bene – dissi interrompendolo – ma si tratta dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo che ha per cateto lungo tra distanza tra il bocchetto e il punto mediano dell’asse anteriore e per cateto corto più o meno la metà della lunghezza dello stesso asse. Quindi, volendo...».
«Volendo, cosa?», fece.
«Sui tabulati che la casa produttrice di un’auto rilascia – dissi – ci sarà la distanza tra la coppa e l’asse, no?».
«No», rispose.
«E calcolarla su tutti modelli d’auto che passano per un’officina come questa...?», azzardai.
«Cosa dovrei fare?», chiese.
Si fece un po’ pregare, ma finì con l’accettare, e due giorni dopo mi arrivò una sua telefonata. Solo due modelli d’auto avevano un bocchetto posteriore della coppa dell’olio a un metro e ottantasette dalla ruota anteriore destra, ma solo uno montava il copertone della Pirelli la cui impronta era sulle foto: la Fiat Tipo. «Che li impicchi o no – mi dissi – li va schiacciare sotto le ruote della sua Fiat Tipo che perde olio dal bocchetto posteriore della coppa dellolio». Non era molto, ma non era neanche poco.
Il giorno dopo mi arrivò una lettera da Brescia:

«Gentile collega,
le rispediamo la lettera da lei inviata al signor Angelo D’Esposito, che sappiamo essere stato suo paziente, e che egli non ha potuto leggere perché deceduto due giorni prima del recapito, per sepsi generale...».

Povero Angelo, pensai, morendo s’è portato appresso un segreto che probabilmente non mi avrebbe rivelato, per evitare grane.



VII

La domenica dopo andai ad Amalfi. L’idea era quella di far visita a don Pasquale Coviello, che conoscevo da anni, perché ogni sei mesi veniva per una controllatina all’imponente gozzo tiroideo che una fifa matta gli impediva di decidersi a farsi asportare. Di Amalfi sapeva tutto, don Pasquale, e certamente avrebbe saputo dirmi se eventualmente avesse avuto l’impressione che negli ultimi tempi i sormaniani fossero riemersi dal buco nero che li aveva inghiottiti cinque secoli prima. Arrivai che aveva appena finito di dir messa, era in sagrestia a togliersi i paramenti.
«Qual buon vento...?», mi fece.
«Passavo da queste parti e mi son detto: “Andiamo a vedere se per caso il gozzo non ha soffocato don Pasquale”».
«Eh, no – disse sbottonando il colletto ed esibendo una cicatrice non più vecchia di un mese – il gozzo non c’è più. E ringraziando Nostro Signore è andato tutto liscio. Ma non credo che lei sia venuto qui solo per questo, mi dica in cosa posso esserle utile».
«Mi parli un poco di Eugenio Sormani».
«Oh, Sormani. Il pazzo che fu bruciato a Napoli, vero?».
Annuii.
«Non c’è molto da dire, in verità. Fu arrestato da queste parti nel 1513, insieme a una dozzina di suoi seguaci, dall’Inquisizione, pare su segnalazione del cardinale Ottavio Baldacci. Lo portarono a Napoli, dove fu processato per stregoneria e condannato al rogo. Al momento dell’arresto gli trovarono in casa un impressionante numero di teschi di gatti, il che non fu irrilevante per sostenere l’accusa di maneggi con Satana. Sotto tortura rivelò le pratiche della setta alla quale aveva dato vita, tanto astruse da dar corpo ai sospetti che lo avevano portato in giudizio. In ogni notte di luna piena i sormaniani impiccavano gatti a dei pali piantati a terra a comporre la disposizione delle stelle in una data costellazione... Non saprei essere più preciso... Ho letto gli atti del processo, ma la confessione è un guazzabuglio di assurdità...».
«Pare che traessero degli aruspici dalle oscillazioni delle corde, no?».
«Sì, anche quello, ma non solo. Piluccando dai pitagorici e dai cabalisti, il Sormani si era costruito un sistema mostruosamente complicato che mischiava assieme astronomia e alchimia... Onestamente, non saprei dirle nulla di più preciso. Ma mi dica: com’è che le interessano i sormaniani?».
Gli raccontai della faccenda.
«Oh, povero D’Esposito! Non lo sapevo. Il Signore l’abbia d’accanto, era un brav’uomo... Ma, se devo dirle la mia, qui il Sormani non c’entra. In quei suoi riti macabri tutto presupponeva dei postulati che oggi neanche un pazzo si sognerebbe di sostenere. E poi c’è la questione dei crani... Alle teste dei gatti i sormaniani riservavano un enorme rispetto, sostenevano che la loro volta cranica riproducesse quella del Nono Cielo... No, qui le vanno a schiacciare sotto la ruota di un’auto... Non ci siamo, non ci siamo proprio».
Capii di aver imboccato una falsa pista.



VIII

Due mercoledì dopo, senza che me ne avesse dato prevviso, don Pasquale Coviello venne a farmi visita in clinica.
Iniziò senza preamboli:
«Dobbiamo fare l’autopsia ad uno di quei gatti».
Mi lasciò senza parole, ma sembrò leggermi dentro tutte le obiezioni a quell’idea, perché continuò: «Nick, il mio gatto, è sparito».
Raccontò che di mattina presto si era fatta a piedi tutta la strada che da mesi era coperta da cadaveri di gatti, e che ne aveva contati cinque, ma Nick non c’era, «ringraziando Nostro Signore».
«Me lo ammazzeranno venerdì notte o al massimo martedì prossimo, ne sono sicuro. Dobbiamo fermarli, anche se il mio Nick non dovesse farcela in tempo. Dobbiamo sapere chi sono, cosa ne fanno, di cosa muoiono veramente, i gatti. Penserò a tutto io, le porterò io uno di quei corpi, lei deve solo contattare qualcuno che sia disposto a farne l’autopsia».
Capii il perché di tanta determinazione e un po’ mi rimproverai di non aver avuto io quell’idea. Mi dissi che solo il professor Mele avrebbe potuto darci un aiuto.
Il professor Mario Mele era un caro amico, nonostante avesse una trentina d’anni più di me. Ci eravamo conosciuti sette o otto anni prima per la stesura di un volume sull’impiego dell’ecografia in Medicina Legale e ne era nata un’istantanea simpatia che di tanto in tanto si nutriva di piccoli favori reciproci.
Una leggenda vivente, il Mele. Magrissimo, un centinaio di sigarette al giorno, un sarcasmo più tagliente del suo bisturi, una fama indiscussa che toccava punte di venerazione tra i suoi colleghi, uno dei quali un giorno mi disse:
«Mele lo fa parlare, il cadavere».
Al telefono gli spiegai velocemente la questione, che mi parve addirittura eccitarlo:
«Bellissimo, mandami subito uno di questi gatti».
Ci mettemmo d’accordo che per il sabato successivo, verso le undici, don Pasquale gli avrebbe portato in istituto uno dei cadaveri.
Quel sabato, verso le tre del pomeriggio, arrivò la sua telefonata:
«Che caso coi controcazzi... Hai tempo o ti mando tutto a casa?».
Sul lettino avevo una gravida con una bruttissima gestosi, gli dissi che avrei preferito mi facesse recapitare il referto a casa e che poi l’avrei chiamato l’indomani, in mattinata.
«Perfetto, rimaniamo così. Ma che caso, cazzo, che caso!», concluse, appiccicandomi addosso un curiosità che non smise di torturami fino a quando, la sera, aprii la sua busta gialla. Insieme al referto autoptico c’era una lettera. Lessi e tutto diventò chiaro:

«Caro mio,
quel prete ha uno stomaco di ferro. Mi ha portato tre sacchi con tre gatti, ha detto che pensava che così fosse meglio, che avremmo potuto avere più informazioni. Gli ho chiesto se avesse raccolto dall’asfalto tutto il materiale o se per caso avesse lasciato in loco qualche brandello di tessuto: mi ha assicurato di aver usato tutte le accortezze del caso. E ha insistito per pagare, anche se gli ho detto che non c’era bisogno perché eri tu ad avermi chiesto il piacere. Poi ha voluto a tutti i costi assistere al lavoro, anche se al secondo sacco s’è messo a piangere e ha cominciato a carezzare il gatto. Lo chiamava Nic, Mic, non ho capito bene, e lì non ha retto, s’è scusato ed è andato via. Gli ho detto che gli avrei spedito una copia del referto.
Ti risparmio le banalità pro forma che, se vuoi, potrai leggere dalla relazione che qui ti allego e arrivo al nocciolo della questione: per quanto le teste fossero massacrate, sono riuscito a ricostruire il cranio dei gatti in tutti e tre i casi, e in tutti e tre mancava un pezzetto della teca, più o meno della grandezza di un centimetro quadrato, di forma circolare, coi bordi che recavano i segni inconfondibili della trapanazione che è d’uso per gli studi di stereotassi cerebrale.
La morte risaliva a dieci-dodici ore dal ritrovamento, diciamo intorno alle diciassette-diciotto di venerdì, da iniezione intracardiaca di aria (in uno dei setti interventricolari ho trovato addirittura una punta d’ago spezzata).
Ci sentiamo domani, non farti problemi per l’ora ché anche di domenica mi sveglio presto.
Ti abbraccio,
Mario»

La mattina dopo, verso le nove, lo chiamai.
«Bello, eh? Chi può essere questo figlio di buona donna che si allena sui gatti, hai qualche idea?».
Sì, l’avevo.



IX

Il dottor Massimo Russo era neurochirurgo e lavorava nella stessa clinica dove il mercoledì e il sabato tenevo ambulatorio. Lo conoscevo solo di nome, perché aveva studio in giorni diversi da quelli in cui l’avevo io: il martedì e il venerdì, seppi. L'amministrazione gli aveva concesso due stanzette al piano terra per il suo ambulatorio della mattinata, ma sempre più spesso negli ultimi anni vi si tratteneva fino a tarda serata con due o tre giovani specializzandi che lo assistevano al lavoro. In cosa consistesse questo lavoro, nessuno seppe dirmelo in clinica.
Gli chiesi un appuntamento e il martedì sera arrivai in clinica. Mentre varcavo l’uscio, incrociai uno dei suoi assistenti che stava uscendo. Reggeva un grosso contenitore di plastica.
Non persi un istante:
«Scusi, è sua la Fiat Tipo che è nel parcheggio?», chiesi, anche se non ero sicuro di averla vista.
«Sì – rispose – perché?».
«Non vorrei sbagliare – dissi – ma mi pare che abbia lasciato i fari accesi».
«Oh, grazie», fece, affrettandosi.
Arrivai alla porta dello studio del dottor Russo e bussai. Venne ad aprirmi con un sorriso di quelli che fanno della mandibola un pericoloso corpo contundente. Mi fece accomodare e chiese:
«In cosa posso esserti utile, caro collega?».
«Io sto bene – iniziai goffamente – vengo qui per una questione, diciamo così, personale. E vorrei che fosse una discussione civile. Diciamo che sono uno dei pochi che si è accorto di questi troppi gatti che vengono trovati morti da queste parti. Non importa come sia arrivato a capire come finiscano con la testa spiacciata sotto la Fiat Tipo del suo assistente che anche stasera è andato ad allestire la solita sceneggiata, ma so perché vengono uccisi e so del buco che hanno in testa quando escono da qui... Quanti erano stasera? Cinque?»
«Quattro. Ma continua, e dammi pure del tu».
«No, grazie, d’altronde c’è poco altro da dire. Volevo solo chiederle se questo sconcio può finire. Ho saputo che si parla di aprire qui in clinica una sala operatoria per la neurochirurgia, penso che ormai la mano dev’essersela fatta...».
Tacque per qualche secondo, poi mi disse:
«In quanti siete a sapere di questa cosa?».
«In tre», risposi.
Probabilmente il tono gli suonò minatorio, perché parlò con la durezza d’accento di chi come unica difesa abbia l’attacco:
«Bene, inizio dicendo che, se volessi, il mio lavoro potrebbe continuare ugualmente. Al massimo dovrei spostarmi da qui, dovrei trovare un altro modo per liberarmi dei cadaveri, ma queste sono cose che si risolvono in mezza giornata. D’altra parte, lei non ha alcuna prova. Anche se ne avesse, non troverebbe porte aperte. Sa chi è il presidente della società protettrice degli animali in questa regione? Mia moglie. Al comandante della stazione dei carabinieri della zona ho salvato un figlio da una brutta meningite. Mio fratello lavora al Viminale. E sa che la clinica si è già impegnata per l’acquisto delle apparecchiature della nuova sala operatoria di cui sarò il responsabile? Due miliardi sono un investimento che deve fruttare. Faccia quello che le pare, le rideranno in faccia. Ah, poi ci sono i miei tre assistenti. Sono giovani, non vedono l’ora di lavorare, per proteggere il progetto per il quale sudano da due anni sarebbero capaci anche di sgradevoli colpi di testa...».
Dovette intuire che dal disagio passavo all’inquietudine, perché ammorbidì d’un tratto i toni:
«Ecco, potrei risponderle così, ma invece la metterò in altro modo. Sa quanti morti ci sono ogni anno in questa zona per ictus e trombosi cerebrale, lei che va contando quanti gatti morti trova per strada? Glielo dico io: l’anno scorso sono stati cinquantasette, e l’anno prima sessantuno. E sa perché muoiono? Perché in più dell’ottantacinque per cento dei casi non riescono ad arrivare a Napoli in tempo utile».
Tacque un attimo, poi riprese, quasi urlando:
«Non me ne fotte un cazzo dei gatti e della sua delicatezza di stomaco. La clinica deve avere una sala operatoria e un chirurgo esperto e veloce. Se al mio caso fossero tornati utili i topi, lei non sarebbe qui, ma a me servivano i gatti e, si sa, i gatti sono carini, fanno le fusa... E poi mi dica: in quanti se ne sono accorti? Lei è arrivato secondo, sa? E sa chi l’ha preceduta? Uno spazzino. Uno spazzino, capisce? Che peraltro ha subito smesso di rompere il cazzo dopo una amabile chiacchieratina... Vada, per piacere, vada. Abbiamo perso entrambi del tempo. Per quanto mi riguarda, farò finta che questo incontro non ci sia mai stato. Le consiglio di fare altrettanto, ma si regoli come le pare».
Rimasi di gelo. Ebbi solo la forza di replicare:
«Ho capito. E per quanto tempo ancora continuerà tutto questo?».
Il suo tono di voce tornò sereno, quasi cordiale:
«Se tutto va bene, tre o quattro mesi. Dobbiamo lavorare soltanto sui versamenti della fossa cranica posteriore».
Non riuscii più a dire neppure un’altra parola. Mi alzai e andai via.


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