venerdì 24 luglio 2015

Un vero guaio

Per qualche tempo, a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo scorso, si consumò uninteressante polemica tra antropologi e psichiatri, e parlo di nomi prestigiosi come Jean Poirier, Melville Herskovits, Rudolf Wittkower, da un lato, e George Devereux, Henri Collomb, Ralph Linton, dallaltro.
La questione potrebbe essere enunciata in questo modo: esiste unanormalità che una base organica ci dia la possibilità di definire assoluta, consentendoci così di definire anormale lintero contesto in cui questanormalità ha conquistato valore di norma?
Cerco di chiarire meglio, ma premetto che mi servirò di un esempio assai rozzo: posto che mangiare carne umana è la norma in una tribù di antropofagi, mentre fuori è manifestazione clinica di un gravissimo disturbo psichico, cè niente che ci consenta di definire gravemente disturbata tutta la tribù di antropofagi, in toto, o siamo costretti ad ammettere che in certi casi mangiare carne umana possa dirsi cosa normale?
Qui devo fermarmi un istante per chiarire due o tre punti relativi ad alcuni termini che ho scelto apposta per la loro ambiguità, peraltro costruendo un esempio che non fu mai prodotto nel corso di quella polemica, e non a caso, come vedrete.
In primo luogo, non sarà sfuggito, almeno al lettore mediamente smaliziato, che la questione è sostanzialmente pertinente al concetto di relativismo culturale, e che lesempio di cui mi sono servito sembrerebbe negargli attestato di legittimità.
In secondo luogo, non sarà sfuggita l’estrema ambivalenza di ciò che ho designato come «norma», che da un lato, infatti, sta a significare «legge», ma dallaltro rimanda a «consuetudine», come espressione di quel «valore che compare più frequentemente in un insieme preselezionato», perdendo così ogni implicazione dordine morale o psicologico, per acquisirne una che ha senso solo in ambito statistico.
Per finire, se non fosse superfluo, occorre segnalare che scegliere un esempio come quello relativo alla tribù di antropofagi rivela il chiaro intento di radicalizzare la questione mirando ad ottenere una risposta attesa come sola possibile. Insomma, con un esempio che dichiarava di voler illustrare i termini della questione, ne ho prodotto anche uno che palesa l’intenzione di indirizzarla ad una soluzione offerta come ovvia.
Cosa mi ha consentito di farlo? Per meglio dire: cosa poteva assicurarmi che l’uditorio avrebbe inclinato a una risposta del tipo «mangiare carne umana è da pazzi, ergo tutta la tribù è pazza»? Semplice: ho prodotto un esempio che, facendo leva su quanto ho ritenuto fosse opinione ragionevolmente unanime nell’uditorio che mi sono scelto, rendesse prevedibile anche l’unanimità su un assunto che in realtà è assai più problematico.
Per dirla in altro modo: sarei riuscito a convincervi che sia da pazzi rifiutarsi di mangiare carne di maiale senza invece sollevare obiezioni al consumo di carne di pollo, con ciò strappandovi consenso sull’assunto che ebrei e musulmani siano pazzi, tutti? Presumo che avrei incontrato maggiori difficoltà. Assai minori, invece, ne incontrerei ponendo la questione relativa alle mutilazioni genitali femminili, no?
E dunque – infine – cosa consente di definire «anormale» un’intera società che in stragrande maggioranza aderisce ad una specifica «consuetudine»? Mi pare ovvio: il fatto che quella «consuetudine» sia pacificamente identificabile come segno di un grave disturbo psichico. In altri termini, che alla psichiatria si riconosca lo statuto di scienza in grado di offrire prove certe relative all’esistenza di una base organica comune ad ogni individuo, e che l’antropologia non sollevi obiezioni, ma questa è cosa dalla quale siamo sempre stati assai lontani, perché l’antropologia sembra nata per relativizzare proprio laddove la psichiatria sembra nata per assolutizzare. Un vero guaio.      

9 commenti:

  1. scusi, Malvino, non capisco questa frase:
    ".... che alla psichiatria si riconosca lo statuto di scienza in grado di offrire prove certe relative all’esistenza di una base organica comune ad ogni individuo"

    a offrirci prove certe circa l'esistenza di una " base organica comune " a me sembra essere non la psichiatria ma, banalmente, l'anatomia. Secondo le mie conoscenze, l'obiettivo di dare una base organica ai disturbi psichiatrici è un obiettivo che la psichiatria ha sempre perseguito ma che ha raggiunto in pochissimi casi. E anche in quei pochissimi casi, tra il disturbo psichiatrico e la base organica si è riusciti a dimostrare solamente una correlazione e mai un rapporto di causalità necessaria.

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    1. Tutto giusto, dunque non dovrebbe risultarle oscura la frase: è "un vero guaio" il fatto che la psichiatria riesca a trovare solo in qualche caso una base organica di una "anormalità" che possa avere valore di "norma" in un dato contesto, entro il quale (vedi il commento di cachorroquente qui sotto) l'antropologo riesce a dimostrarla funzionale.

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    2. La nuova moda infatti è l'analisi di modelli con il machine learning. Non so perchè succede, ma so che succede con una certa probabilità.
      Mettendo due sensori sulle vacche e analizzando i dati si sono scoperte cose che i naturalisti 'deterministi' ancora non erano riusciti a trovare.

      http://arstechnica.com/information-technology/2015/04/the-internet-of-cows-azure-powered-pedometers-get-dairies-mooovin/

      il passo dopo (in realtà già ora in fase di test) è la medicina

      http://www.wired.co.uk/news/archive/2013-02/11/ibm-watson-medical-doctor

      quello dopo sarà la psichiatria. Lei avrà il 15% di probabilità di diventare un maniaco depressivo, un 2% di entrare al ristorante e fare una strage armato di uzi, ma per fortuna solo lo 0.001% di evolvere come un Gasparri.

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    3. capisco cosa vuole dire. Non condivido che sia un guaio ( non per me, voglio dire ), ritenendo di non aver bisogno né della psichiatria né dell'antropologia per dare giudizi di valore su comportamenti individuali o su consuetudini sociali.

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    4. Infatti, nulla impedisce di dare giudizi di valore a chicchessia, il "vero guaio" è non poterlo parametrare con strumenti scientifici.

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  2. Credo che la psichiatria moderna si cavi dall'impiccio smettendo di parlare di malattia e insistendo sul 'disturbo' (o 'disorder') multiassiale che diventa tale non in rapporto alla morale o al rapporto tra una credenza e una realtà, ma alla sofferenza patita/arrecata e alla possibilità di 'funzionare'.

    In tale senso l'antropofago espleta un rito religioso/propiziatorio in una cerimonia che cementa i rapporti sociali; 'funziona' e quindi non è 'disturbato' (statisticamente, dunque, non c'è motivo di credere che abbia alterazioni organiche o funzionali ancora inspiegate che stanno alla base della schizofrenia o di un disturbo di personalità ecc). Anche l'uccisione del malcapitato (se non stiamo parlando di cannibalismo rituale al danno di un membro della famiglia morto di cause naturali che, al limite, può essere pericoloso per la salute) avviene in un atto di guerra che, se si può considerare immorale, non configura certo una patologia mentale.

    In questo senso si riesce anche a distinguere tra un disturbo ossessivo compulsivo e le norme igienico-alimentari degli ebrei ortodossi ecc. ecc.

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  3. Una volta definito il contesto relativo c'è margine di assolutizzazione in termini di minore/maggiore funzionalità all'interno di tale contesto, però non è sempre detto che aumentare la funzionalità di un individuo all'interno dello stesso contesto di partenza sia corretto.
    Se mio nonno (demenza senile incipiente) riprendesse a guidare la macchina ne trarrebbe immenso giovamento in termini di autostima e percezione di autonomia (fortemente minata), ma si creerebbero altri tipi di problemi.
    Nonostante questo approccio funzionale, anche per la psichiatria moderna lavorare sul contesto invece che sull'individuo è taboo.
    Al massimo si estende il lavoro individuale ad altri membri della famiglia.
    Economicamente lavorare sull'individuo costa sicuramente meno, ma la mia impressione è che l'efficacia sia spesso dubbia.

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  4. Qui viene presentata solo la "normalità normativa", ma in psichiatria ne vengono considerate almeno altre due (normalità statistica e individuale) e viene sempre esplicitato che tutte e tre hanno grossi limiti (ciascuno di questi criteri escluderebbe dalla normalità condizioni palesemente normali).
    Secondo me in questo, e solo in questo, viene in aiuto il criterio soggettivo che ritorna in quasi tutti i criteri diagnostici delle patologie presentate nel DSM, quello per cui la condizione patologic, per essere tale, deve provocare grandi difficoltà nel buon funzionamento dell'individuo.

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  5. In questo approccio c'è un problema di fondo presente anche in economia: l'arco temporale di riferimento. Un cuore che non funziona è un cuore che non funziona, mentre es. un prete in crisi spirituale ("perdita degli interessi abituali", come si dice in gergo) può avere un grave scompenso nel breve ma non è detto che non lo aiuti a ottenere maggiore funzionalità in futuro in un altro contesto. Se si adotta un approccio funzionale la scientificità è solo descrittiva e teorica, la pratica diventa politica (scelta dell'arco temporale di riferimento).

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