I
Suor
Angelina, al secolo Genoveffa Poltronieri, era zoppa da sempre.
«Cumme me lassaje cummenzaje a truculia’», confessò un giorno
che era in vena di confidenze. Displasia dell’anca, probabilmente,
ma a settant’anni e più, tanti ne aveva ai tempi cui rivanno
queste memorie, con l’artrosi e l’osteoporosi che dovevano aver
fatto il resto, sarebbe stata impossibile una diagnosi certa. Aveva
sempre rifiutato una radiografia, disse, e da bambina era stata
convinta dai suoi ad accettare la cosa come la volontà di Dio, col
sollievo di sei centimetri di rialzo al tacco di una scarpa, che
davano al suo passo il ritmo di una duina: struscio di spazzola e
pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di
spazzola e pedale di cassa. Praticamente da sempre era il factotum
nella clinica in cui da una dozzina d’anni tenevo ambulatorio il
mercoledì e il sabato, e nella quale era riuscita a sistemare tre
nipoti, giardiniere, cuoco e barelliere, fatti venire dal paesino
incastrato su un cocuzzolo del Molisano nel quale era nata.
Era
lei a venirmi ad aprire, verso le sei del mattino, e la scena si
ripeteva sempre uguale: il trillo del campanello, l’inconfondibile
rumore dei suoi passi, le due mandate di chiavistello, la sua faccia
da topo, l’immancabile «venite, ché mo è asciuto ’o cafè».
Una chiavica di caffè, a onor del vero, ma per fumarci sopra la
seconda sigaretta della mattinata si poteva pure chiudere un occhio.
La
prima sigaretta della mattinata la fumavo in auto, una mezz’ora
dopo essermi mosso da casa. Per arrivare in clinica alle sei partivo
intorno alle cinque, passavo a prendere i giornali all’unica
edicola aperta a quell’ora in città e mi avviavo, controllando di
tanto in tanto nello specchietto retrovisore l’alba che mi seguiva
fino a superarmi.
Era
il momento più bello della giornata. Ormai conoscevo la strada così
bene che avrei potuto percorrerla ad occhi chiusi, ma i fari
dell’auto proiettavano una luce imperdibile sui costoni di tufo che
bordavano da un lato la carreggiata, di un ocra che trascolorava ad
ogni curva in suggestioni sempre diverse, talvolta davvero
sorprendenti.
Di
tanto in tanto incrociavo un camion carico di ortaggi o di legname,
qualche pazzo che si allenava per una gara di fondo e, data l’ora,
i cumuli di spazzatura che al ritorno non avrei visto più perché di
lì a poco rimossi dai netturbini. Al ritorno non c’era più
traccia neppure dei topi stecchiti dagli pneumatici delle auto che,
abbagliandoli nel bel mezzo del guado, li paralizzavano al centro
della carreggiata, lasciandoli lì, ridotti a oscene poltiglie dalle
forme a volta davvero assai bizzarre. Spettacoli da dare il
voltastomaco, comprensibile che la vita ridotta a carne scomposta
venga sottratta alla vista delle donne che vanno a far la spesa e dei
bambini che vanno a scuola, e così, premurosamente, accadeva. Tanto
più se si trattasse di un gatto o di un cane.
Quei
fagotti di viscere esplose sotto le ruote di un’auto mi
infliggevano ogni volta domande che non trovavano risposte. Cosa
poteva aver valso il rischio di attraversare la strada? Domanda
idiota, cui un’altra tentava una risposta: un topo è in grado di
concepire ciò che noi umani chiamiamo rischio? Ma pure questa mi
sembrava idiota, e un’altra domanda, in risposta a quella, non meno
idiota di quella, veniva a tentare invano una risposta: quella
inutile traccia di frenata era un segno di superiorità dell’uomo
sull’animale? Non sul piano dei riflessi, concludevo, ma senza aver
concluso niente. Tutte le questioni sollevate restavano aperte,
sicché passavo a un altro ordine di problemi. È più pena o
ribrezzo? E perché si tratta in ogni caso di un sentimento che
inesorabilmente è via via crescente all’aumentare della taglia
dell’animale ucciso?
Anche
queste erano domande che rimanevano senza risposta, ma il caffè di
suor Angelina le dissolveva, e senza che ne restasse traccia lungo la
giornata. Tornavano lungo la strada che mi riportava a casa, dopo il
lavoro, ma in altra forma. Ripensavo al cancro ovarico della
quindicenne, al seminoma testicolare del trentenne, al linfoma del
settantenne, e con dispetto facevo i conti con quella gerarchia
emotiva che mi dettava una palese disparità di pena da caso a caso.
E anche qui non sapevo se fosse giusto o no.
II
Intorno
alla fine di gennaio dell’anno in cui si svolsero i fatti che mi
accingo a narrare accadde qualcosa di inquietante: settimana dopo
settimana aumentava il numero dei gatti che trovavo morti sulla
strada che facevo. A pensarci bene, la cosa doveva essere cominciata
già negli ultimi mesi dell’anno che si era appena chiuso, ma ora
non c’era settimana che non ne contassi almeno quattro o cinque, e
il numero era destinato a crescere, perché nella sola seconda
settimana di aprile ne contai quattro il mercoledì e tre il sabato.
Non
era solo questo a darmi inquietudine. I corpi giacevano senza vita
lungo un tratto di strada relativamente ridotto, non più di quattro
o cinque chilometri, gli ultimi prima del mio arrivo, ma nell’area,
almeno quando vi passavo, non vi era alcun segno del movimento cui i
gatti avrebbero dovuto dar vita per dare in qualche modo spiegazione
di un così elevato numero di cadaverini: non un gatto vivo ai
margini della carreggiata, solo gatti morti. Era come se si dessero
appuntamento in gran numero in quella zona apposta per farsi mettere
sotto le ruote delle auto che passavano di lì, per poi sparire, e
darsi appuntamento la notte dopo.
Un
convegno suicidiario? Decine, forse centinaia di felini, per qualche
ora si affollavano lungo quei quattro o cinque chilometri di strada,
in attesa di un’auto, di un furgone, di un camion, per andare
spiaccicarvisi sotto? Per essere una strada così poco trafficata di
notte, la cosa sollevava molti dubbi, in primo luogo riguardo al
fatto che nessuno se ne fosse accorto. Di fatto, nessuno ne parlava.
Altri
dettagli rendevano il mistero ancora più inspiegabile. In primo
luogo, col crescere del loro numero, i gatti morti non giacevano più
in modo casuale sulla carreggiata, ma quasi esclusivamente sul suo
lato destro, a un metro o poco più dalla striscia gialla che la
delimitava. Poi, e qui la cosa dava davvero da pensare, non vi era
alcuna traccia di frenata degli pneumatici sull’asfalto. L’ipotesi
del convegno suicidiario perdeva peso, ma forse era più credibile
che qualcuno si fosse inventato un nuovo sport? Una combriccola di
automobilisti batteva quel tratto di strada per la loro notturna
caccia al gatto? Ipotesi ancor più balzana. Per cercare di capirne
qualcosa avrei dovuto dedicare del tempo alla faccenda, ma non potevo
permettermelo, sicché cercai di accantonarla, anche se ogni
mercoledì e ogni sabato tornava a pungolarmi.
Durò
poco, perché un sabato mattina mi si presentò davanti Angelo
D’Esposito, un omino sulla cinquantina, capo netturbino. Da qualche
tempo aveva una febbricola accompagnata da nausea, inappetenza,
dolore al fianco destro, un lieve ittero e perdita di peso.
L’ecografia chiarì che si trattava di un grosso ascesso,
presumibilmente amebico, che gli aveva mangiato quasi tutto il lobo
sinistro epatico. Accolse la diagnosi quasi sollevato, perché aveva
pensato si trattasse di molto peggio e, giacché era l’ultimo
paziente della giornata, ci trattenemmo un po’ a chiacchierare. E
così arrivai a chiedergli dei gatti.
«Com’è
che ne muoiono così tanti da queste parti?».
Fece
una smorfia come se si trattasse di una questione ormai archiviata
senza spiegazione.
«Non
me ne parli. Ne abbiamo discusso per settimane coi colleghi dei
comuni della zona e non siamo riusciti ad arrivare a niente. Nessuno
che sia riuscito a capire cosa accada, ma per i nostri uomini il
mercoledì e il sabato sono i giorni più faticosi. Perché non è
tanto la rimozione dei corpi, ma pulire l’asfalto è un lavoraccio
che richiede...».
«Come?
– lo interruppi – Li trovate solo il mercoledì e il sabato?».
«Non
se n’è accorto? Solo in quei
due giorni».
III
Tornando
a casa, cercai di mettere un po’ d’ordine ai pensieri che avevano
cominciato ad affollarsi attorno a quanto avevo appreso dal
D’Esposito.
E
dunque. Da alcuni mesi sempre più gatti morivano sotto le ruote
delle auto su un tratto di strada lungo sette o otto chilometri,
perché a quelli che percorrevo io – così mi aveva rivelato il
D’Esposito – se ne dovevano aggiungere almeno altri due,
proseguendo oltre, sui quali la cosa era fin lì stata in tutto
simile. I corpi venivano trovati quasi soltanto il mercoledì e il
sabato, era solo grazie a questa coincidenza coi giorni in cui avevo
ambulatorio in clinica che avevo potuto accorgermi della cosa. Chi
investiva i gatti non accennava neppure a un tentativo di frenata e
tuttavia non era evidente un chiaro intento di passarci sopra perché
la posizione in cui venivano trovati i corpi era compatibile con una
traiettoria dell’auto sulla carreggiata del tutto ordinaria, sicché
la cosa risultava due volte inspiegabile, sia a voler ipotizzare una
caccia al gatto, sia a pensare che si trattasse di un suicidio di
massa. La cosa, poi. Continuavo a dire «la cosa», ed era solo per
negare a me stesso che fosse diventata una vera e propria ossessione.
Cominciavo a sognare gatti morti, e risparmio a queste pagine i
dettagli. Risolsi che avrei dovuto interessarmi alla faccenda.
Quasi
avesse intuito, il D’Esposito mi lasciò in clinica un plico con
una relazione dettagliata su quanto aveva registrato negli ultimi
mesi, corredata perfino da alcuni grafici, da alcune foto, da
fotocopie di circolari, di esposti alle autorità competenti: dal
dicembre dell’anno precedente al luglio corrente, centoundici gatti
morti trovati il mercoledì e il sabato, a fronte dei soli quattro
trovati negli altri giorni della settimana; conferma dell’uniformità
dei dati relativi alla posizione dei corpi sulla carreggiata, quasi
tutti giacenti sul suo margine destro, col loro asse maggiore
perpendicolare a quello della corsa degli pneumatici; dato che mi
sorprese, perché fin lì non ero stato in grado di rilevarlo,
uniforme era anche il tipo di lesione che aveva causato tutte quelle
morti, quasi sempre a carico del solo cranio, tutt’al più del
cranio e del torace; a ulteriore e maggiore sorpresa, la concorde
strafottenza alle segnalazioni che il D’Esposito aveva inviato alle
forze dell’ordine, agli uffici comunali, alla locale società
protettrice degli animali, ecc.
Il
plico era accompagnato da una lettera:
«Caro
dottore,
le
scrivo da Brescia, dove sono arrivato la settimana scorsa, perché
non mi fidavo delle cure che avrei potuto aspettarmi rimanendo a
casa. Qui il primario mi prega di farle i complimenti per la
diagnosi: dice che non era facile pensare che si trattasse proprio di
un ascesso amebico, e infatti prima di crederci mi hanno fatto una
tac e un sacco di altre analisi. Ora sono in terapia e ogni tre
giorni mi fanno un’ecografia di controllo. Pare che l’ascesso
vada regredendo, adesso è di quarantadue millimetri, e comunque la
febbre va sparendo. Insomma, se Dio vuole, tra due o tre settimane
dovrebbero dimettermi, almeno così dicono.
Come
ha visto, le ho lasciato un po’ di materiale relativo alla
questione di cui discutemmo. All’inizio ci stavo perdendo la testa
e mi ero fatto delle idee assai strane che comunque abbandonai subito
perché tiravano in ballo persone che non riuscivo neanche a
immaginare capaci del fatto. Ho pensato che sia meglio se ne
interessi lei, se ne ha voglia e se riuscirà a trovare tempo, ma
l’impressione che la faccenda nasconda qualcosa di grosso non mi è
mai passata, quindi avrei piacere se al mio ritorno mi facesse sapere
cosa è riuscito a capire, visto che qui mi dicono che avrò bisogno
di un’ecografia ogni tre mesi per almeno un anno. Dicono che si
tratta di ascessi che possono dare recidiva e qui mi consenta, con
rispetto parlando, una scaramantica grattata di palle.
A
presto, suo
Angelo
D’Esposito
P.S.:
Pensa che quello che mi è accaduto possa avere qualche relazione col
mio lavoro? Crede possa esserci possibilità di iniziare una pratica
per il pensionamento anticipato da malattia professionale?».
Cosa
intendeva dire, il D’Esposito, quando parlava di «persone che non
riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto»? A cosa l’avevano
portato, le sue indagini? Quali erano i suoi sospetti?
IV
Decisi
di procedere in modo sistematico. Anche troppo, in verità, perché
cominciai con l’infliggermi la lettura del più voluminoso trattato
sui gatti che riuscii a procurarmi: due tomi per un totale di oltre
tremila pagine. L’opera si apriva con un’ampia e dettagliata
trattazione dell’anatomia e della fisiologia dei felini, per
passare poi ad una sezione relativa alle loro patologie più comuni,
fino a quelle più rare. A chiudere il primo tomo, una più che
esauriente sezione dedicata alla loro alimentazione e alle loro
abitudini, insieme ad una infinita serie di consigli relativi alla
perfetta convivenza dell’animale con la specie umana.
Assai
più interessante il secondo tomo, quasi interamente dedicato alla
storia dell’animale dagli albori della storia ai nostri giorni:
ittiti e atzechi, impero di Carlo V e antico Egitto, Roma dell’età
repubblicana e Inghilterra vittoriana, e in tutto la sorniona e fiera
presenza del gatto. Cose che in gran parte già conoscevo, ma ad ogni
pagina scoprivo qualcosa di nuovo, perfino di incredibile.
Puntai
l’attenzione a tutto ciò che fosse in relazione all’uccisione
dei gatti nel corso della storia. Poca roba. Una setta assira li
sacrificava al plenilunio nella certezza che fossero le vittime
preferite dal proprio dio. Un altro gruppetto di folli, nel primo
Rinascimento, vicino ad Amsterdam, li squartava vivi dopo averli
nutriti con latte di capra per trenta giorni, tenendoli al buio, per
prelevarne la bile, ingrediente base per la preparazione di uno dei
tanti elisir di lunga vita ideati dalla ispirata cialtroneria umana.
E poi per secoli erano stati uccisi per far cappelli e baveri con la
loro pelliccia, nella versione povera di quella di volpe. Ma i gatti
di cui mi interessavo io non morivano nei pleniluni, né venivano
trovati scuoiati, e agli elisir di lunga vita, infine, chi poteva
credere ancora?
Proseguendo,
trovai i gatti uccisi nel XVI secolo dagli studenti di medicina cui
era interdetto lo studio dell’anatomia sui cadaveri umani, e ancora
quelli che vennero mangiati a Leningrado, prima che l’assedio ad
opera dell’esercito del Terzo Reich costringesse gli assediati,
finiti i gatti, a passare ai topi. Si parlava degli studi neurologici
che Charcot per qualche tempo condusse sul cervello di gatto, e di
quelli, in parte analoghi, di Ramon y Cayal: gatti che finivano in un
inceneritore, non ai bordi delle strade. Poi, naturalmente, The
Great Cat Massacre sul quale qualche anno prima Robert
Darnton aveva scritto un fortunato saggio... Nulla, insomma, che
facesse al caso mio.
Quasi
nulla, per meglio dire. Perché una decina di righe era dedicata a un
vecchio rito pagano riesumato intorno al 1500 ad Amalfi, ad opera di
un certo Eugenio Sormani e dei suoi accoliti, tutti finiti al rogo
per stregoneria tra il 1517 e il 1521: impiccavano gatti e traevano
aruspici dalle oscillazioni della corda durante la loro agonia.
Pensai che anche in questo caso non si trattasse di una traccia
utile, ma d’un tratto, come trafitto da una rivelazione, mi
ritrovai a chiedermi: «Ma siamo sicuri che muoiano sotto gli
pneumatici delle auto? Non è possibile che siano uccisi altrove, e
in altro modo, per essere portati dove poi vengono trovati allo scopo
di celare il vero scopo per cui vengono uccisi? E il fatto che le
ruote passino esclusivamente sulle loro teste non può servire
proprio a cancellare ogni segno che indichi in che modo sono stati
uccisi?». «Fosse così – conclusi – si spiegherebbe tutto ciò
che fino ad ora è stato inspiegabile».
Presi
le foto scattate dal D’Esposito per cercare di cogliervi qualcosa
che potesse essermi sfuggito. Niente, le teste dei gatti erano
ridotte in uno stato da rendere impossibile qualsiasi supposizione.
Dovevo procedere di persona.
Un
sabato di ottobre, alle cinque e un quarto, accostai la mia Renault
al bordo della solita strada, tirai il freno a mano e spensi il
motore. Uscii dall’auto armato di una Polaroid e di un nastro
centimetrato e mi avvicinai al corpo di un gatto che mi ero lasciato
una ventina di metri dietro. Aveva la testa spiaccicata sull’asfalto,
quasi esplosa sotto il peso della ruota che le era passata sopra.
Sulla poltiglia sanguinolenta era visibile perfino l’impronta dello
pneumatico in due strisce di poco divergenti l’una dall’altra.
Vincendo il ribrezzo, scattai quante più foto possibili, per poi
prendere le misure che potessero tornarmi utili. Procedendo verso la
clinica, vidi altri cinque cadaverini, ma solo con due ripetei le
stesse operazioni, perché avevo esaurito la scorta di caricatori per
la Polaroid.
V
Per
qualche giorno non fui in grado di metter mano al materiale che avevo
raccolto: potrà far sorridere, ma era come se temessi qualcosa.
Quando finalmente poi mi decisi, ogni timore si dissolse, ma per
lasciare posto ad una frenesia che non mi lasciò più.
I
tre casi di cui avevo raccolto gli estremi erano in tutto simili. Li
confrontai con quelli delle foto del D’Esposito e tutto coincideva
con i miei. Le impronte degli pneumatici appartenevano tutte allo
stesso modello: era sempre la stessa auto.
D’un
tratto riuscii anche a spiegarmi la sovrapposizione delle due
impronte tra loro lievemente divergenti: l’autore del fattaccio
fermava la sua auto sul bordo della carreggiata, scendeva col gatto
già morto, lo piazzava con la testa davanti alla ruota anteriore
destra e ripartiva, sicché la ruota posteriore destra passava
anch’essa sul cadavere ma con l’angolo di scarto dovuto alla
sterzata necessaria a rimettere in carreggiata un’auto che aveva
precedentemente accostato al suo bordo tenendosi di poco obliqua alla
sua parallela.
Mancava
la cosa più importante: a chi apparteneva quell’auto? Era
credibile che appartenesse a un tizio in grado di procurarsi da solo,
e in meno di un anno, più di un centinaio di gatti? No, era
praticamente certo che fosse solo un anello della catena,
probabilmente l’ultimo. E dunque si trattava di qualcosa che
implicava più persone. Di cosa si trattasse, ero ancora lontano dal
capirlo, e infatti infilai un vicolo cieco: «Passare con lo
pneumatico sempre sulla testa e sul collo dei gatti – mi chiesi –
non servirà per caso a cancellare i segni di un cappio? Vuoi vedere
che Eugenio Sormani ha ancora dei seguaci?».
Mi
tornarono in mente le parole del D’Esposito: «persone che non
riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto». Mi sembrò che lo
sgomento potesse ricadere su quelle «persone» in ragione del
«fatto»: una setta che impiccava gatti mi sembrò che incastonasse
a dovere quello sgomento. Decisi di scrivergli per aggiornarlo su
quello che avevo scoperto, per metterlo al corrente dei miei
sospetti, in realtà sperando che li confermasse, dandomi
un’ulteriore traccia. Fu solo dopo aver spedito la lettera che
cominciai ad avere dubbi sull’ipotesi dei sormaniani, ma intanto
avevo già deciso di fare un salto ad Amalfi. Mi imposi di
soprassedere in attesa della risposta del D’Esposito. Intanto avrei
fatto qualche domanda a Gaetano Nicolella, il mio meccanico.
VI
«È
un copertone della Pirelli che è in commercio solo da due o tre anni
– disse Gaetano Nicolella – ma è montato su almeno cinque o sei
tipi d’auto».
«E
dall’angolo col quale divergono le due impronte non si può
risalire alla distanza tra l’asse anteriore e quello posteriore, e
quindi all’auto che monta questo pneumatico?».
Scosse
il capo: «Se si sapesse con quale angolo di sterzata ha accostato
l’auto – rispose – ma questo non lo sappiamo, né c’è modo
di saperlo».
Tentai:
«Ma l’angolo col quale divergono le due impronte è praticamente
uguale in tutte le foto...».
«Questo
– disse – ci consente di essere sicuri solo del fatto che accosta
l’auto praticamente sempre con la stessa angolazione rispetto al
bordo della carreggiata: niente di più, niente di meno».
Un
buco nell’acqua, pensai, e feci per andarmene, scusandomi per il
tempo che gli avevo fatto perdere. Tornai subito indietro, gli chiesi
di non mandarmi al diavolo se gli ponevo un altro problema.
In
tutte le foto che inquadravano un’area relativamente ampia rispetto
al corpo del gatto, sia in quelle mie, sia in quelle scattate dal
D’Esposito, era presente sull’asfalto una macchia che sembrava
d’olio. Era un dettaglio che avevo notato solo guardando le foto e
di cui dunque non avevo dati relativi alla distanza che lo separava
dai punti che avevo preso in considerazione. Pasticciando nel
tentativo di spiegare cosa pretendevo di sapere, chiesi al brav’uomo
se una misurazione nota tra due punti considerati in una delle foto
permettesse di calcolare la distanza tra il dorso del gatto – e
dunque, con lieve approssimazione, tra l’asse anteriore dell’auto
– e il punto dal quale era colato il liquido che aveva dato luogo a
quella macchia.
«Cominciamo
col dire – fece Gaetano – che una perdita di questo tipo può
venire solo dal bocchetto posteriore della coppa. Se non fosse che la
distanza tra la macchia e il dorso del gatto non è quella tra il
bocchetto e l’asse anteriore...».
«Va
bene – dissi interrompendolo – ma si tratta dell’ipotenusa di
un triangolo rettangolo che ha per cateto lungo tra distanza tra il
bocchetto e il punto mediano dell’asse anteriore e per cateto corto
più o meno la metà della lunghezza dello stesso asse. Quindi,
volendo...».
«Volendo,
cosa?», fece.
«Sui
tabulati che la casa produttrice di un’auto rilascia – dissi –
ci sarà la distanza tra la coppa e l’asse, no?».
«No»,
rispose.
«E
calcolarla su tutti modelli d’auto che passano per un’officina
come questa...?», azzardai.
«Cosa
dovrei fare?», chiese.
Si
fece un po’ pregare, ma finì con l’accettare, e due giorni dopo
mi arrivò una sua telefonata. Solo due modelli d’auto avevano un
bocchetto posteriore della coppa dell’olio a un metro e
ottantasette dalla ruota anteriore destra, ma solo uno montava il
copertone della Pirelli la cui impronta era sulle foto: la Fiat Tipo.
«Che li impicchi o no – mi dissi – li va schiacciare sotto le
ruote della sua Fiat Tipo che perde olio dal bocchetto posteriore
della coppa dell’olio». Non era
molto, ma non era neanche poco.
Il
giorno dopo mi arrivò una lettera da Brescia:
«Gentile
collega,
le
rispediamo la lettera da lei inviata al signor Angelo D’Esposito,
che sappiamo essere stato suo paziente, e che egli non ha potuto
leggere perché deceduto due giorni prima del recapito, per sepsi
generale...».
Povero
Angelo, pensai, morendo s’è portato appresso un segreto che
probabilmente non mi avrebbe rivelato, per evitare grane.
VII
La
domenica dopo andai ad Amalfi. L’idea era quella di far visita a
don Pasquale Coviello, che conoscevo da anni, perché ogni sei mesi
veniva per una controllatina all’imponente gozzo tiroideo che una
fifa matta gli impediva di decidersi a farsi asportare. Di Amalfi
sapeva tutto, don Pasquale, e certamente avrebbe saputo dirmi se
eventualmente avesse avuto l’impressione che negli ultimi tempi i
sormaniani fossero riemersi dal buco nero che li aveva inghiottiti
cinque secoli prima. Arrivai che aveva appena finito di dir messa,
era in sagrestia a togliersi i paramenti.
«Qual
buon vento...?», mi fece.
«Passavo
da queste parti e mi son detto: “Andiamo a vedere se per caso il
gozzo non ha soffocato don Pasquale”».
«Eh,
no – disse sbottonando il colletto ed esibendo una cicatrice non
più vecchia di un mese – il gozzo non c’è più. E ringraziando
Nostro Signore è andato tutto liscio. Ma non credo che lei sia
venuto qui solo per questo, mi dica in cosa posso esserle utile».
«Mi
parli un poco di Eugenio Sormani».
«Oh,
Sormani. Il pazzo che fu bruciato a Napoli, vero?».
Annuii.
«Non
c’è molto da dire, in verità. Fu arrestato da queste parti nel
1513, insieme a una dozzina di suoi seguaci, dall’Inquisizione,
pare su segnalazione del cardinale Ottavio Baldacci. Lo portarono a
Napoli, dove fu processato per stregoneria e condannato al rogo. Al
momento dell’arresto gli trovarono in casa un impressionante numero
di teschi di gatti, il che non fu irrilevante per sostenere l’accusa
di maneggi con Satana. Sotto tortura rivelò le pratiche della setta
alla quale aveva dato vita, tanto astruse da dar corpo ai sospetti
che lo avevano portato in giudizio. In ogni notte di luna piena i
sormaniani impiccavano gatti a dei pali piantati a terra a comporre
la disposizione delle stelle in una data costellazione... Non saprei
essere più preciso... Ho letto gli atti del processo, ma la
confessione è un guazzabuglio di assurdità...».
«Pare
che traessero degli aruspici dalle oscillazioni delle corde, no?».
«Sì,
anche quello, ma non solo. Piluccando dai pitagorici e dai cabalisti,
il Sormani si era costruito un sistema mostruosamente complicato che
mischiava assieme astronomia e alchimia... Onestamente, non saprei
dirle nulla di più preciso. Ma mi dica: com’è che le interessano
i sormaniani?».
Gli
raccontai della faccenda.
«Oh,
povero D’Esposito! Non lo sapevo. Il Signore l’abbia d’accanto,
era un brav’uomo... Ma, se devo dirle la mia, qui il Sormani non
c’entra. In quei suoi riti macabri tutto presupponeva dei postulati
che oggi neanche un pazzo si sognerebbe di sostenere. E poi c’è la
questione dei crani... Alle teste dei gatti i sormaniani riservavano
un enorme rispetto, sostenevano che la loro volta cranica
riproducesse quella del Nono Cielo... No, qui le vanno a schiacciare
sotto la ruota di un’auto... Non ci siamo, non ci siamo proprio».
Capii
di aver imboccato una falsa pista.
VIII
Due
mercoledì dopo, senza che me ne avesse dato prevviso, don Pasquale
Coviello venne a farmi visita in clinica.
Iniziò
senza preamboli:
«Dobbiamo
fare l’autopsia ad uno di quei gatti».
Mi
lasciò senza parole, ma sembrò leggermi dentro tutte le obiezioni a
quell’idea, perché continuò: «Nick, il mio gatto, è sparito».
Raccontò
che di mattina presto si era fatta a piedi tutta la strada che da
mesi era coperta da cadaveri di gatti, e che ne aveva contati cinque,
ma Nick non c’era, «ringraziando Nostro Signore».
«Me
lo ammazzeranno venerdì notte o al massimo martedì prossimo, ne
sono sicuro. Dobbiamo fermarli, anche se il mio Nick non dovesse
farcela in tempo. Dobbiamo sapere chi sono, cosa ne fanno, di cosa
muoiono veramente, i gatti. Penserò a tutto io, le porterò io uno
di quei corpi, lei deve solo contattare qualcuno che sia disposto a
farne l’autopsia».
Capii
il perché di tanta determinazione e un po’ mi rimproverai di non
aver avuto io quell’idea. Mi dissi che solo il professor Mele
avrebbe potuto darci un aiuto.
Il
professor Mario Mele era un caro amico, nonostante avesse una
trentina d’anni più di me. Ci eravamo conosciuti sette o otto anni
prima per la stesura di un volume sull’impiego dell’ecografia in
Medicina Legale e ne era nata un’istantanea simpatia che di tanto
in tanto si nutriva di piccoli favori reciproci.
Una
leggenda vivente, il Mele. Magrissimo, un centinaio di sigarette al
giorno, un sarcasmo più tagliente del suo bisturi, una fama
indiscussa che toccava punte di venerazione tra i suoi colleghi, uno
dei quali un giorno mi disse:
«Mele
lo fa parlare, il cadavere».
Al
telefono gli spiegai velocemente la questione, che mi parve
addirittura eccitarlo:
«Bellissimo,
mandami subito uno di questi gatti».
Ci
mettemmo d’accordo che per il sabato successivo, verso le undici,
don Pasquale gli avrebbe portato in istituto uno dei cadaveri.
Quel
sabato, verso le tre del pomeriggio, arrivò la sua telefonata:
«Che
caso coi controcazzi... Hai tempo o ti mando tutto a casa?».
Sul
lettino avevo una gravida con una bruttissima gestosi, gli dissi che
avrei preferito mi facesse recapitare il referto a casa e che poi
l’avrei chiamato l’indomani, in mattinata.
«Perfetto,
rimaniamo così. Ma che caso, cazzo, che caso!», concluse,
appiccicandomi addosso un curiosità che non smise di torturami fino
a quando, la sera, aprii la sua busta gialla. Insieme al referto
autoptico c’era una lettera. Lessi e tutto diventò chiaro:
«Caro
mio,
quel
prete ha uno stomaco di ferro. Mi ha portato tre sacchi con tre
gatti, ha detto che pensava che così fosse meglio, che avremmo
potuto avere più informazioni. Gli ho chiesto se avesse raccolto
dall’asfalto tutto il materiale o se per caso avesse lasciato in
loco qualche brandello di tessuto: mi ha assicurato di aver usato
tutte le accortezze del caso. E ha insistito per pagare, anche se gli
ho detto che non c’era bisogno perché eri tu ad avermi chiesto il
piacere. Poi ha voluto a tutti i costi assistere al lavoro, anche se
al secondo sacco s’è messo a piangere e ha cominciato a carezzare
il gatto. Lo chiamava Nic, Mic, non ho capito bene, e lì non ha
retto, s’è scusato ed è andato via. Gli ho detto che gli avrei
spedito una copia del referto.
Ti
risparmio le banalità pro forma che, se vuoi, potrai leggere dalla
relazione che qui ti allego e arrivo al nocciolo della questione: per
quanto le teste fossero massacrate, sono riuscito a ricostruire il
cranio dei gatti in tutti e tre i casi, e in tutti e tre mancava un
pezzetto della teca, più o meno della grandezza di un centimetro
quadrato, di forma circolare, coi bordi che recavano i segni
inconfondibili della trapanazione che è d’uso per gli studi di
stereotassi cerebrale.
La
morte risaliva a dieci-dodici ore dal ritrovamento, diciamo intorno
alle diciassette-diciotto di venerdì, da iniezione intracardiaca di
aria (in uno dei setti interventricolari ho trovato addirittura una
punta d’ago spezzata).
Ci
sentiamo domani, non farti problemi per l’ora ché anche di
domenica mi sveglio presto.
Ti
abbraccio,
Mario»
La
mattina dopo, verso le nove, lo chiamai.
«Bello,
eh? Chi può essere questo figlio di buona donna che si allena sui
gatti, hai qualche idea?».
Sì,
l’avevo.
IX
Il
dottor Massimo Russo era neurochirurgo e lavorava nella stessa
clinica dove il mercoledì e il sabato tenevo ambulatorio. Lo
conoscevo solo di nome, perché aveva studio in giorni diversi da
quelli in cui l’avevo io: il martedì e il venerdì, seppi.
L'amministrazione gli aveva concesso due stanzette al piano terra per
il suo ambulatorio della mattinata, ma sempre più spesso negli
ultimi anni vi si tratteneva fino a tarda serata con due o tre
giovani specializzandi che lo assistevano al lavoro. In cosa
consistesse questo lavoro, nessuno seppe dirmelo in clinica.
Gli
chiesi un appuntamento e il martedì sera arrivai in clinica. Mentre
varcavo l’uscio, incrociai uno dei suoi assistenti che stava
uscendo. Reggeva un grosso contenitore di plastica.
Non
persi un istante:
«Scusi,
è sua la Fiat Tipo che è nel parcheggio?», chiesi, anche se non
ero sicuro di averla vista.
«Sì
– rispose – perché?».
«Non
vorrei sbagliare – dissi – ma mi pare che abbia lasciato i fari
accesi».
«Oh,
grazie», fece, affrettandosi.
Arrivai
alla porta dello studio del dottor Russo e bussai. Venne ad aprirmi
con un sorriso di quelli che fanno della mandibola un pericoloso
corpo contundente. Mi fece accomodare e chiese:
«In
cosa posso esserti utile, caro collega?».
«Io
sto bene – iniziai goffamente – vengo qui per una questione,
diciamo così, personale. E vorrei che fosse una discussione civile.
Diciamo che sono uno dei pochi che si è accorto di questi troppi
gatti che vengono trovati morti da queste parti. Non importa come sia
arrivato a capire come finiscano con la testa spiacciata sotto la
Fiat Tipo del suo assistente che anche stasera è andato ad allestire
la solita sceneggiata, ma so perché vengono uccisi e so del buco che
hanno in testa quando escono da qui... Quanti erano stasera? Cinque?»
«Quattro.
Ma continua, e dammi pure del tu».
«No,
grazie, d’altronde c’è poco altro da dire. Volevo solo chiederle
se questo sconcio può finire. Ho saputo che si parla di aprire qui
in clinica una sala operatoria per la neurochirurgia, penso che ormai
la mano dev’essersela fatta...».
Tacque
per qualche secondo, poi mi disse:
«In
quanti siete a sapere di questa cosa?».
«In
tre», risposi.
Probabilmente
il tono gli suonò minatorio, perché parlò con la durezza d’accento
di chi come unica difesa abbia l’attacco:
«Bene,
inizio dicendo che, se volessi, il mio lavoro potrebbe continuare
ugualmente. Al massimo dovrei spostarmi da qui, dovrei trovare un
altro modo per liberarmi dei cadaveri, ma queste sono cose che si
risolvono in mezza giornata. D’altra parte, lei non ha alcuna
prova. Anche se ne avesse, non troverebbe porte aperte. Sa chi è il
presidente della società protettrice degli animali in questa
regione? Mia moglie. Al comandante della stazione dei carabinieri
della zona ho salvato un figlio da una brutta meningite. Mio fratello
lavora al Viminale. E sa che la clinica si è già impegnata per
l’acquisto delle apparecchiature della nuova sala operatoria di cui
sarò il responsabile? Due miliardi sono un investimento che deve
fruttare. Faccia quello che le pare, le rideranno in faccia. Ah, poi
ci sono i miei tre assistenti. Sono giovani, non vedono l’ora di
lavorare, per proteggere il progetto per il quale sudano da due anni
sarebbero capaci anche di sgradevoli colpi di testa...».
Dovette
intuire che dal disagio passavo all’inquietudine, perché ammorbidì
d’un tratto i toni:
«Ecco,
potrei risponderle così, ma invece la metterò in altro modo. Sa
quanti morti ci sono ogni anno in questa zona per ictus e trombosi
cerebrale, lei che va contando quanti gatti morti trova per strada?
Glielo dico io: l’anno scorso sono stati cinquantasette, e l’anno
prima sessantuno. E sa perché muoiono? Perché in più
dell’ottantacinque per cento dei casi non riescono ad arrivare a
Napoli in tempo utile».
Tacque
un attimo, poi riprese, quasi urlando:
«Non
me ne fotte un cazzo dei gatti e della sua delicatezza di stomaco. La
clinica deve avere una sala operatoria e un chirurgo esperto e
veloce. Se al mio caso fossero tornati utili i topi, lei non sarebbe
qui, ma a me servivano i gatti e, si sa, i gatti sono carini, fanno
le fusa... E poi mi dica: in quanti se ne sono accorti? Lei è arrivato
secondo, sa? E sa chi l’ha preceduta? Uno spazzino. Uno spazzino,
capisce? Che peraltro ha subito smesso di rompere il cazzo dopo una
amabile chiacchieratina... Vada, per piacere, vada. Abbiamo perso
entrambi del tempo. Per quanto mi riguarda, farò finta che questo
incontro non ci sia mai stato. Le consiglio di fare altrettanto, ma
si regoli come le pare».
Rimasi
di gelo. Ebbi solo la forza di replicare:
«Ho
capito. E per quanto tempo ancora continuerà tutto questo?».
Il suo
tono di voce tornò sereno, quasi cordiale:
«Se
tutto va bene, tre o quattro mesi. Dobbiamo lavorare soltanto sui
versamenti della fossa cranica posteriore».
Non
riuscii più a dire neppure un’altra parola. Mi alzai e andai via.