giovedì 6 agosto 2015
mercoledì 5 agosto 2015
[...]
Da
ansa.it
apprendo che giovedì 6 agosto lo Zimbabwe presenta all’Expo
lo zebraburger, hamburger con carne di zebra, variante del cocroburger, hamburger con
carne di coccodrillo, che sempre lo Zimbabwe ha presentato all’Expo
a metà luglio, e che pare sia andato a ruba. Toccagli il leone Cecil, agli zimbabwesi, e si incazzano di brutto, ma zebre e coccodrilli te li buttano in faccia. Idem per gli animalisti, di cui non ho notizia di proteste per il cocroburger, sicché suppongo se le risparmieranno pure per lo zebraburger. Probabilmente non c’è contraddizione, la vedo solo io, dunque fate finta che queste righe siano la confessione di uno che comincia a far fatica a spiegarsi le cose.
martedì 4 agosto 2015
Di ragni e di cavalli
Sull’immunità
parlamentare ho già detto cosa penso, qui mi limiterò a dire che in
tutte le sue forme, anche in quelle che alcuni ritengono
eccessivamente ridimensionate dalla revisione dell’art.
68 della Costituzione, è un istituto che ha perso ogni funzione di
garanzia per diventare solo un odioso privilegio.
Si prenda il primo
capo del suddetto articolo: «I
membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle
opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio
delle loro funzioni».
Poteva avere un senso, in passato: tutelava l’oppositore
che un regime avesse l’intenzione
di rendere inoffensivo servendosi di una magistratura debitamente
asservita. Ma oggi? Si prenda, per esempio, un’opinione
che esprima contenuti ipoteticamente discriminatori in ordine alla
razza, e la si metta in bocca – uguale in tutto, fino alla virgola
– ad un comune
cittadino, prima, e ad un parlamentare, poi: perché, se giudicata
offensiva in un caso, dovrebbe rimanere impunita nell’altro? Per
meglio dire, cos’è che la rende inoffensiva in bocca ad un
deputato o un senatore? Cosa dovrebbe giustificare il fatto che chi
sia stato fatto oggetto di questa offesa possa aspettarsi di avere
giustizia nel primo caso, e non nel secondo?
Così al secondo e al
terzo capo, che recitano: «Senza autorizzazione della Camera
alla quale appartiene, nessun membro
del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione
personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti
privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo
che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se
sia colto nell’atto
di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta
per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in
qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza».
Sorvolando sull’efficacia
sostanzialmente nulla di perquisizioni o intercettazioni
preliminarmente annunciate a chi debba esserne fatto oggetto, resta
la questione dell’autorizzazione
della Camera a che la magistratura possa procedere nelle
attività di accertamento di un reato e all’eventuale richiesta di
misure cautelari che essa ritenga necessarie in attesa del processo.
Qui ritengo sia da sospendere ogni considerazione relativa allo stato
dei fatti nel nostro ordinamento – io per primo considero
indispensabile modificarlo in più punti, innanzitutto a garanzia di
chiunque non abbia subìto ancora una condanna definitiva – ma di
appuntare l’attenzione sulla patente disparità di trattamento a
carico di un comune cittadino o di un parlamentare per quanto attiene
all’eventualità che essi abbiano commesso lo stesso reato: è
scorretto affermare che il primo abbia molte più possibilità di
essere condannato rispetto al secondo? Trattandosi dello stesso
reato, è giusto che chi ne abbia subìto il torto dal primo abbia da
attendersi maggiori possibilità di ristoro rispetto a chi l’abbia
subìto dal secondo? E in virtù di quale garanzia che in questo
secondo caso sarebbe necessario assicurare a chi ha commesso quel
reato?
In quanto al fatto che spetti al Parlamento concedere alla
magistratura l’autorizzazione a trattare un parlamentare come un
comune cittadino, la questione rivela molti punti critici, peraltro
eloquentemente illustrati da numerosissime vicende che sono scorse
lungo i decenni di vita di Camera e Senato. Alle Giunte cui i due
rami del Parlamento demandano il compito di individuare un eventuale
fumus persecutionis nelle iniziative della magistratura a carico di
un parlamentare spetta il compito di relazionare alle assemblee se ne
hanno trovato traccia o meno, ma è a queste ultime che spetta
l’ultima parola, che non di rado – l’ultimo caso è quello del
senatore Antonio Azzollini – smentisce il parere di chi ha potuto
approfondire meglio il caso. A stretto rigor di logica, se ne
potrebbe dedurre che le Giunte per l’autorizzazione a procedere
siano del tutto inutili: se ogni deputato ed ogni senatore è in
grado di arrivare a un libero convincimento sul caso di volta in
volta in oggetto, facendo a meno del preliminare lavoro di studio che
un organo appositamente designato allo scopo dedica alle carte
inviate al Parlamento da quella o quella Procura, non si capisce che
senso abbia lo spreco.
Un discorso a parte meriterebbe la natura
della libertà che porta a convincimento un deputato o un senatore
circa l’opportunità che un suo pari sia trattato come un qualunque
cittadino o non abbia a godere di un trattamento di favore, ma è
evidente che su questo punto non arriveremmo mai a cavare un ragno
dal buco, salvo l’uso di strumenti inopportuni e, tutto sommato,
inefficaci. Tuttavia sembra che la delicatezza di quest’ultima
questione non sfugga al nostro beneamato Guardasigilli, che oggi
dalla pagine di un quotidiano a larga tiratura butta lì un’ipotesi
quasi a veder che effetto faccia: affidare alla Corte Costituzionale
il compito di concedere o meno l’autorizzazione a procedere a
carico di un Parlamentare. Come se avesse ben chiaro che razza di
ragno stia nel buco.
Superfluo dire che l’idea sembri avere mero
intento autopromozionale, tanto più se si considera che ad Andrea
Orlando non sfugge il ragno, ma neanche il fatto che l’idea
necessiterebbe di una riforma costituzionale per attribuire alla
Corte Costituzionale un compito che la Carta non le attribuisce, e
allora campa cavallo, tanto più che sul cavallo c’è la Boschi che
di certo non sarebbe disposta rimetter mano alle sue riforme per
infilarci la proposta del signor Guardasigilli. Che in questo modo ci
guadagna il suo bel figurone di gran conoscitore di ragni e di cavalli.
lunedì 3 agosto 2015
«Ricetta per l'Italia»
Da affaritaliani.it copio-incollo la «ricetta per l'Italia» di Marco Rizzo, leader del Partito Comunista (ilpartitocomunista.it):
«Essendo a conoscenza della differenza che ci sarebbe tra “avere” il potere ed “esser” al governo (la stessa differenza che passa dalla Rivoluzione alle Elezioni), spiego comunque quella che sarebbe la ricetta per l'Italia del Partito Comunista:
- Rottura unilaterale dei trattati economici e politici europei e di quelli militari con la Nato.
- Remissione del debito estero (con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori).
- Nazionalizzazione di tutte le banche e le grandi imprese con affidamento di gestione e controllo ai lavoratori.
- Tutti i settori strategici della Nazione (sanità, trasporti, formazione, grandi cantieri ecc…) assumono carattere statale ed annullano qualunque precedente privatizzazione.
- Viene istituito il salario minimo da lavoro garantito per tutti.
- Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari.
- Sono equiparati i contratti di lavoro ed ogni diritto per i cittadini italiani ed i migranti. Tutti sono tenuti al rispetto totale della legalità socialista, pena severe sanzioni previste dal nuovo codice penale.
- La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza.
- È ristabilita la leva militare obbligatoria per il nuovo Esercito Popolare.
- Lo Stato Socialista è laico. Sono permesse tutte le religioni (senza alcuna spesa per lo Stato), sono aboliti i Patti Lateranensi».
È da quel «ricetta» che inizierei l’analisi del testo: sta per «programma», è ovvio, ma il termine ha un evidente richiamo alla preparazione in ambito gastronomico. Dice niente? Bravi, anch’io pensato subito alla cuoca di Lenin. Senza dubbio, infatti, qui siamo di fronte ad un timballo nel quale son presenti molti ingredienti della cucina comunista (esproprio, nazionalizzazione, leva obbligatoria, ecc.). La cuoca che Lenin sosteneva avrebbe ben potuto amministrare la cosa pubblica, tuttavia, era il risultato di quella rivoluzione che invece lo stesso Marco Rizzo non ha difficoltà a concedere sia cosa ben diversa dal raccogliere consenso su un programma di governo. Ma poi, siamo onesti, si è mai vista una cuoca a capo del Cremlino? Quello di Lenin era un paradosso, via, e in ogni caso calava in tutt’altro contesto da quello in cui cala Marco Rizzo, pure lui bel paradosso, senza dubbio, ma qui senz’altro fine che darsi per sproposito.
In altri termini, invece di dirci come ha intenzione di prendere il potere, il leader del Partito Comunista ci espone la sua agenda dei primi 100 giorni, al pari di un qualsiasi spacciabubbole a capo di un partito borghese. Lungo la lista, peraltro, non si scorge traccia di quel caposaldo della dottrina marxista-leninista che commisura il fine al mezzo, e non dà l’uno senza l’altro.
Non è tutto. Per quasi ogni ingrediente non è indicata la dose. Non vengono indicati tempi e modi della preparazione. Ma quello che per certi versi arriva addirittura a dare una puntina di sconcerto – non più di una puntina, ovviamente – è il fatto che la nostra cuoca non sembra avere neanche i fondamentali della cucina comunista, o almeno faccia di tutto per dar mostra di ignorarli.
Si prenda, per esempio, il punto 8: «La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza». Quali saranno mai, questi «criteri di uguaglianza», in grado equiparare i possessori di seconde case a quanti ne posseggono una sola? In relazione al punto 6 («Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari»), quali «criteri di uguaglianza» reggono l’assegnazione di una casa a chi non l’ha e il fatto che chi ne abbia due, di cui una necessariamente sfitta, possa conservarle entrambe? E qual è il parametro che farà la differenza tra «grandi proprietà immobiliari» e quelle medie o quelle piccole? (Analogo problema si pone al punto 2, con la «remissione del debito estero, con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori», che è cosa semplice a dire e pressoché impossibile a fare: quanto «piccolo» dovrà essere il debito, e farà differenza se i «piccoli risparmiatori» hanno investito in titoli azionari?) E come dovrà intendersi il trasferimento delle proprietà confiscate dai vecchi ai nuovi proprietari? Voglio dire: vi sarà intermediazione di proprietà da parte dello Stato e, nel caso, con quali strumenti giuridici?
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.
venerdì 31 luglio 2015
#facciadiculo
Nella
seduta dell’8 luglio, facente seguito a quelle del 23 giugno e del
7 luglio, nelle quali il caso era stato ampiamente analizzato e
discusso sulla base degli atti della Procura di Trani, la Giunta
delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato approvava la
proposta del suo Presidente, Dario Stefano, volta alla concessione
dell’autorizzazione
all’esecuzione
dell’ordinanza
applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari nei
confronti del senatore Antonio Azzollini. Mi scuso per il burocratese, ma è solo per rimarcare il dato bruto che tre settimane dopo, ribaltando il parere della Giunta, il Senato gli
salvava il culo.
Non ha importanza, ora. se fosse giusto o meno che il
senatore se ne stesse in custodia cautelare, ma che il commento di
Matteo Renzi al voto del Senato sia il seguente: «Chi
ha letto le carte ha ritenuto in larga maggioranza di votare contro
l’ipotesi dell’arresto. Lo considero un segno di maturità».
Sarebbe da ritenere, in sostanza, che la Giunta non abbia letto le
carte con la stessa attenzione che ci ha messo chi ha votato contro
l’autorizzazione
a procedere, anche se è dimostrato che c’è
chi l’ha
negata senza neppure averle sfiorate, le carte. E tuttavia chi appena
l’anno
scorso aveva imposto al proprio gruppo a Montecitorio
il voto favorevole all’arresto
di Francantonio Genovese, deputato del Pd, twittando subito dopo: «Il
Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica sempre.
Anche quando si tratta dei propri deputati»,
mettendoci per hashtag un fiero #avisoaperto,
stavolta ha ritenuto più opportuno lasciare «libertà
di coscienza»
al gruppo parlamentare di Palazzo Madama.
Ogni considerazione sul
perché Genovese andasse sacrificato e Azzollini risparmiato non può
che essere segnata da sospetti che peraltro sono ampiamente
suffragati da fatti inoppugnabili come l’enorme quantità di favori
concessi da Azzollini ai suoi colleghi nei lunghi anni in cui ha
presieduto la Commissione Bilancio del Senato e il suo essere
esponente di spicco di un partito i cui numeri esigui sono comunque
indispensabili a tener su il Governo. Ma si sa che, in mancanza di
prove, i sospetti restano sospetti, e non hanno dignità di
argomento.
Di notevole resta solo la dichiarazione di Renzi, che al
voto del Senato cerca di dare un significato palesemente diverso da quello che
ha, e con la risibile spiegazione che il fumus
persecutionis, di
cui
al parere della Giunta non v’era traccia nella richiesta avanzata dalla Procura di Trani, è stato rintracciato da
chi neanche ha sfogliato gli atti allegati alla richiesta di custodia
cautelare per Azzollini. Roba che stavolta l’hashtag giusto è
#facciadiculo.
Merde sotto il sole di luglio
S’apre
la stagione che lascia vuoti molti spazi nell’informazione,
occasione imperdibile per chi è affamato di visibilità. A
settembre, sa bene, tutto ridiventerà più difficile, occorre ne
approfitti, e che si affretti, perché la concorrenza è spietata.
Con un minimo di esperienza, che di solito non manca mai a questi
coatti, la cosa si fa più facile, perché d’estate,
sarà per l’afa, i riflessi
dell’opinione pubblica diventano
ancora più meccanici di quanto non lo siano di solito, e
provocazioni che meriterebbero solo un velo di riprovazione sotto un
macigno di indifferenza riescono ad ottenere l’attenzione
cercata. In realtà è così tutto l’anno,
d’estate accade solo che tutto diventi
più evidente per l’acuirsi del fenomeno, e poco importa se si
tratti di Pannella che litiga con Bonino o di Razzi che balla con
Luxuria, perché in fondo non fa molta differenza: degni di nota sono
solo i tratti disperati che assume la contesa per occupare gli spazi
lasciati vuoti nell’informazione da quanto manchi del minimo per
dirsi notizia, e il fatto che l’attenzione sia estremamente mobile
e mostri la voracità del nugolo di mosche che sta sempre sulla merda
più fresca. Il punto, tuttavia, è un altro: la merda è merda, non
si discute, ma le mosche? Non sono loro, in fondo, ad essere il vero
problema? Intendo dire: passi per chi, pur di dar segno che esiste,
ha bisogno di cagare in piazza, ma un po’ di segatura sopra, e via,
no? Chi è più malato: chi caga in piazza o chi d’attorno gli fa capannello?
mercoledì 29 luglio 2015
[...]
Sospendendo
ogni giudizio sulle capacità di cui fin qui Marino e Crocetta hanno
dato prova come amministratori della cosa pubblica, penso abbia da
porsi la questione di quanto sia legittimo che debbano dar conto del
loro operato a Renzi, con ciò configurando il controllo eterodiretto
di un Comune e di una Regione da parte del Governo, con quanto ne
consegue sul piano istituzionale, e qui suppongo sia superfluo
rimandare alla legislazione che assicura piena autonomia ai distinti
livelli del potere esecutivo, in ossequio al dettato costituzionale.
Si dirà, so bene, che Renzi non è solo Presidente del Consiglio, ma
anche Segretario nazionale del Pd, e cioè del partito che coi suoi
eletti dà un sostegno essenziale alle Giunte presiedute da Marino e
Crocetta, sicché ha pieno diritto di porre le proprie condizioni in
cambio dell’appoggio ad esse: vero, ma questo non è che ennesima
riprova di quanto questo cumulo di cariche, ancorché ammesso dallo
statuto di un partito, anzi in certi casi addirittura espressamente
contemplato come espediente per assicurare solidità di azione tra
partito di maggioranza relativa e premier, sebbene non censurato da
una specifica norma giuridica, possa generare seri squilibri
nell’articolazione tra esecutivo centrale e poteri locali, fino a
creare – com’è di fatto per Campidoglio e Palazzo d’Orleans –
una situazione di tutela permanente dell’uno sugli altri.
Sia
chiaro, non siamo dinanzi ad un’interferenza che configuri un
illecito, ma penso non sfugga che questa situazione snaturi il
principio di autonomia degli enti locali, di
fatto riducendo a Prefetto un eletto dal popolo. Non sembri
un’iperbole, ma quale differenza passa dal sistema feudale?
martedì 28 luglio 2015
sabato 25 luglio 2015
[...]
Non
tardano a sortire, com’era da attendersi, le obiezioni alla
sentenza della Cassazione che ha dichiarato illegittima l’esenzione
fiscale sugli immobili in cui si svolgono attività didattiche
gestite da religiosi. Vale la pena di prenderle in considerazione,
però dicendo subito che le scuole cattoliche continueranno a godere
del trattamento di favore fin qui goduto, e che sarà non in forza
degli argomenti – tutti assai debolucci, come vedremo – che
sollevano queste obiezioni, ma di un cavillo che al momento non fa
ancora capolino nelle dichiarazioni ufficiali, e non per pudore, figurarsi. La sentenza, infatti,
sancisce un principio, e un principio sacrosanto, ma non può che trarlo dal caso specifico che
era sottoposto ai giudici, e il caso verteva sul mancato versamento
dell’Ici al Comune di Livorno da parte di due scuole cattoliche,
quella del Santo Spirito e quella dell’Immacolata. Ripeto: mancato
pagamento dell’Ici, perché la controversia maturò ai tempi in cui
non era ancora in vigore l’Imu, che sempre imposta sugli immobili
è, ma che dall’Ici formalmente differisce per diversi aspetti.
C’è bisogno che vada oltre? Si dirà che la sentenza riguardava una tassa che non è più dovuta, per la semplice ragione che è stata abolita, e che sul mancato pagamento di quella che l’ha sostituita c’è da ridiscutere, in parlamento e in tribunale. L’argomento che tornerà buono alla Cei, dunque, non è tra quelli che prenderemo in considerazione, ma quello che opporrà alla sentenza il fatto che essa riguardava l’Ici, non l’Imu. Anzi, visto che gli argomenti che avremmo dovuto prendere in considerazione servono solo di copertura a quello che sarà il reale nucleo della controffensiva clericale, con l’immancabile supporto dei filoclericali che siedono al governo e in parlamento, possiamo anche risparmiarci di illustrarli e contestarli, tanto sono i soliti, quelli che da decenni hanno di fatto cassato l’art. 33 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Perdere tempo a discutere di cazzate? Possiamo evitare.
C’è bisogno che vada oltre? Si dirà che la sentenza riguardava una tassa che non è più dovuta, per la semplice ragione che è stata abolita, e che sul mancato pagamento di quella che l’ha sostituita c’è da ridiscutere, in parlamento e in tribunale. L’argomento che tornerà buono alla Cei, dunque, non è tra quelli che prenderemo in considerazione, ma quello che opporrà alla sentenza il fatto che essa riguardava l’Ici, non l’Imu. Anzi, visto che gli argomenti che avremmo dovuto prendere in considerazione servono solo di copertura a quello che sarà il reale nucleo della controffensiva clericale, con l’immancabile supporto dei filoclericali che siedono al governo e in parlamento, possiamo anche risparmiarci di illustrarli e contestarli, tanto sono i soliti, quelli che da decenni hanno di fatto cassato l’art. 33 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Perdere tempo a discutere di cazzate? Possiamo evitare.
venerdì 24 luglio 2015
Segnalibro
Si
tratta del ritratto di Erasmo da Rotterdam contenuto nell’edizione
della Cosmographia universalis di Sebastian Müller
stampata a Basilea da Henricum Petri nel 1553, però sfregiato
dall’Inquisizione spagnola
(Marcel Bataillon – Érasme et l’Espagne,
1991). Notevole è il fatto che i tratti d’inchiostro
rivelino un’evidente voglia di accecarlo e
cucirne la bocca.
[...]
Lo
ricordate il tizio che l’anno
scorso se ne andava in motorino alle tre di notte per Rione Traiano seduto sul sellino tra un pregiudicato e un latitante? Ma sì, via, sono
sicuro che ricordate la storiaccia. I tre non si fermarono all’alt
di una pattuglia dei carabinieri, ne seguì un inseguimento... Sì,
parlo del tizio che infine ci lasciò la pelle per una pallottola
scappata di canna ad uno dei carabinieri. Ora non ne ricordo il nome,
d’altronde neanche ha
importanza, figurarsi, ma, tanto per intenderci, era quel tizio che su Facebook
si atteggiava a guappo impavido e strafottente... Sì, insomma, parlo
di quello.
Bene, ieri c’era il
processo. Per meglio dire, doveva esserci, ma familiari e amici del
morto hanno fatto un gran casino, e la cosa è dovuta slittare, perché manganellarli a sangue
e allontanarli di peso sarebbe stato indelicato. Casino, e qui l’inciso è rilevante, scoppiato quando il pm ha chiesto per l’imputato, il carabiniere dal polpastrello sudaticcio, una condanna a tre anni e sei mesi. Pure troppo, a mio modesto avviso,
ma troppo poco per il pubblico lì convenuto con appositi striscioni,
scandendo nell’attesa slogan
molto gutturali, da curva sud cui l’arbitro abbia scippato un penalty, che a ogni uomo di mondo viene d’istinto la voglia di sparargli in bocca.
Manco sarebbe valsa la pena di
annotare su queste pagine l’accaduto,
se non fosse che le cronache riportano le ragioni rappresentate dal
fratello del morto per dare un senso a tutto quello strepito di
zamperi e vaiasse: «Possibile che io,
per un tentato furto, abbia preso cinque anni e lui, che ha ucciso
mio fratello, se la cavi con meno di tre anni e mezzo?» (Il
Mattino, 24.7.2015 – pag. 23).
Commentarla, no, ché a spiegare il
codice penale a un pregiudicato ci pensa eventualmente il suo
avvocato. Annotarla, però, sì, perché è frase che da sola
affresca un universo. E avrei voluto farlo già ieri, ma poi la mano se ne è andata per la tangente, e ho finito con l’intrattenermi sull’impossibilità di mettere d’accordo psichiatria e antropologia.
Un vero guaio
Per
qualche tempo, a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo
scorso, si consumò un’interessante
polemica tra antropologi e psichiatri, e parlo di nomi prestigiosi
come Jean Poirier, Melville Herskovits, Rudolf Wittkower, da un lato,
e George Devereux, Henri Collomb, Ralph Linton, dall’altro.
La questione potrebbe essere enunciata in questo modo: esiste
un’anormalità che una base
organica ci dia la possibilità di definire assoluta, consentendoci
così di definire anormale l’intero
contesto in cui quest’anormalità
ha conquistato valore di norma?
Cerco di chiarire meglio, ma premetto
che mi servirò di un esempio assai rozzo: posto che mangiare carne
umana è la norma in una tribù di antropofagi, mentre fuori è
manifestazione clinica di un gravissimo disturbo psichico, c’è
niente che ci consenta di definire gravemente disturbata tutta la
tribù di antropofagi, in toto, o siamo costretti ad ammettere che in certi
casi mangiare carne umana possa dirsi cosa normale?
Qui devo fermarmi
un istante per chiarire due o tre punti relativi ad alcuni termini
che ho scelto apposta per la loro ambiguità, peraltro costruendo un
esempio che non fu mai prodotto nel corso di quella polemica, e non a
caso, come vedrete.
In primo luogo, non sarà sfuggito, almeno al
lettore mediamente smaliziato, che la questione è sostanzialmente
pertinente al concetto di relativismo culturale, e che l’esempio
di cui mi sono servito sembrerebbe negargli attestato di
legittimità.
In secondo luogo, non sarà sfuggita l’estrema
ambivalenza di ciò che ho designato come «norma»,
che da un lato, infatti, sta a significare «legge»,
ma dall’altro
rimanda a «consuetudine», come espressione di quel «valore che
compare più frequentemente in un insieme preselezionato», perdendo
così ogni implicazione d’ordine
morale o psicologico, per acquisirne una che ha senso solo in ambito
statistico.
Per finire, se non fosse superfluo, occorre segnalare che
scegliere un esempio come quello relativo alla tribù di antropofagi
rivela il chiaro intento di radicalizzare la questione mirando ad
ottenere una risposta attesa come sola possibile. Insomma, con un
esempio che dichiarava di voler
illustrare i termini della questione, ne ho prodotto anche uno che
palesa l’intenzione di indirizzarla ad una soluzione offerta come
ovvia.
Cosa mi ha consentito di farlo? Per meglio dire: cosa poteva
assicurarmi che l’uditorio avrebbe inclinato a una risposta del
tipo «mangiare carne umana è da pazzi, ergo tutta la tribù è
pazza»? Semplice: ho prodotto un esempio che, facendo leva su quanto
ho ritenuto fosse opinione ragionevolmente unanime nell’uditorio
che mi sono scelto, rendesse prevedibile anche l’unanimità su un
assunto che in realtà è assai più problematico.
Per dirla in altro
modo: sarei riuscito a convincervi che sia da pazzi rifiutarsi di
mangiare carne di maiale senza invece sollevare obiezioni al consumo
di carne di pollo, con ciò strappandovi consenso sull’assunto che
ebrei e musulmani siano pazzi, tutti? Presumo che avrei incontrato
maggiori difficoltà. Assai minori, invece, ne incontrerei ponendo la
questione relativa alle mutilazioni genitali femminili, no?
E dunque
– infine – cosa consente di definire «anormale» un’intera
società che in stragrande maggioranza aderisce ad una specifica
«consuetudine»? Mi pare ovvio: il fatto che quella «consuetudine»
sia pacificamente identificabile come segno di un grave disturbo
psichico. In altri termini, che alla psichiatria si riconosca lo
statuto di scienza in grado di offrire prove certe relative
all’esistenza di una base organica comune ad ogni individuo, e che
l’antropologia non sollevi obiezioni, ma questa è cosa dalla quale siamo sempre
stati assai lontani, perché l’antropologia sembra nata per
relativizzare proprio laddove la psichiatria sembra nata per
assolutizzare. Un vero guaio.
giovedì 23 luglio 2015
[...]
«La
scoperta di Kepler 452B – dice Mentana (La7, 23.7.2015) – influirà molto sul
nostro futuro»,
però ci mette un «forse»
che probabilmente gli sarà sembrato un doveroso omaggio alla serietà di
informazione, metti caso poi su quel pianeta dovessimo trovarci un
insopportabile fetore di formaggio andato a male che ci costringa a
organizzarci un futuro altrove, e i telespettatori rimangano delusi.
È sul «forse» che vale la pena di
soffermarci, perché chi parla della scoperta già pregustando
l’eccitazione
che proverà nel preparare le valige non merita neppure compassione.
Dice niente che Kepler 452B sia a oltre 1400 anni luce? Si tratta di
quindici milioni di miliardi di chilometri (15.000.000.000.000.000
km), distanza che un’ipotetica
astronave
in grado di viaggiare ad una velocità dieci volte maggiore di quella
a cui viaggiano le astronavi fin qui realizzate coprirebbe in
pressappoco 40 secoli. Trascurando il problema di un generatore di
energia in grado di fornirne a sufficienza per un viaggio del genere,
a bordo dovrebbero susseguirsi una sessantina di generazioni di
astronauti, con l’augurio
che scorrano l’una dopo l’altra senza intoppi riproduttivi.
Date
queste premesse, e ammesso e non concesso che tutto vada liscio,
intorno al 6000 d.C. dovremmo essere nei pressi di Kepler 452B,
«pianeta gemello», «pianeta cugino», nomignoli affettuosi che già segnalano una certa confidenza. Bene, pare che il parente abbia una massa 60% maggiore della Terra, con quanto ne consegue per la forza di
gravità. Su Kepler 452B, per capirci, l’intero corpo umano
subirebbe in modo costante l’effetto che qui sulla Terra è il solo
sacco scrotale a subire al «forse»
di Mentana. Non dovrebbe bastare questo a scoraggiarci dal viaggio?
Orologeria, un cazzo!
Si
salvava solo la magistratura in questo paese da sempre refrattario
alla precisione, all’esattezza,
alla puntualità, ma ormai anche su quella non possiamo fare più
alcun affidamento. Guarda lì il rinvio a giudizio di Verdini, per
esempio. Ecchemmadonna, signori magistrati, aspettate che entri nel Pd,
prima.
Parafrasi
Sembra
che a Palermo si replichi la resa dei conti che nel 1981 portò alla
sconfitta della vecchia mafia di Stefano Bontate che lasciò libero
il campo alla nuova mafia di Totò Riina, ma stavolta a fronteggiarsi
sono la vecchia antimafia di Leoluca Orlando e la nuova antimafia di
Giuseppe Lumia, con le dovute differenze, ovviamente, perché, invece
del sangue, scorrono veleni: questo almeno è quanto emerge dagli
sviluppi del caso Crocetta, per le insinuazioni nemmeno poi tanto
velate che vengono diffuse a mezzo stampa da protagonisti e
comprimari, in attesa che a fare un po’
di luce su quanto ancora è fittamente avvolto dal mistero spunti un
pentito, a spiegarci se l’immenso
patrimonio morale accumulato negli anni da due o tre generazioni di
martiri caduti nella lotta alla mafia sia ancora sotto il controllo
dell’antimafia d’un
tempo o se invece questa possa dirsi già perdente per i colpi che le
ha inferto l’antimafia
emergente, che sembrerebbe destinata comunque a prendere il
sopravvento perché superiore sul piano tattico e su quello
strategico. Vedremo.
martedì 21 luglio 2015
[...]
In
violazione dell’art. 8 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di
cui fu fra i primi firmatari del testo base nel 1950, senza mai far
mancare poi la propria approvazione a tutti i protocolli addizionali
stilati dal 1952 al 2013, l’Italia
è condannata per la sua ostinazione a negare ogni forma di
riconoscimento legale all’unione
di due persone dello stesso sesso ed esplicitamente sollecitata a
mettersi in regola per evitare sanzioni più severe.
Sì, s’ode
qualche mugugno, ma ha fatto più rumore il divieto di raccogliere e
commerciare vongole dal diametro inferiore ai 25 millimetri, un altro
degli impegni sottoscritti dall’Italia
in sede europea, nel 2006. Qui da noi la
vongola arriva ormai solo a 22 millimetri – si protestò – e
impedirne la raccolta vuol dire privare le nostre tavole di un piatto
che è più italiano degli spaghetti alla carbonara, e non è giusto,
e a tutto c’è un limite, e questo è troppo, vorrete mica
sradicarci dalle nostre tradizioni secolari? Come se fra quelle non
vi fosse pure l’omofobia. Niente, la vongola non mancò di far gridare
a qualcuno che tanto valeva uscire dalla Ue, qui l’ipotesi nemmeno
sfiora chi mastica amaro per la condanna.
E sarà che poi «non
è una sentenza della Ue [visto che] alla Corte europea dei diritti
dell’uomo
aderiscono anche Russia, Moldavia, Turchia ecc.»,
che però non si capisce perché screditerebbero la Corte, visto che
in quanto a riconoscimento legale delle unioni tra persone dello
stesso sesso sono nella stessa situazione dell’Italia;
e
«non
è una sentenza che impone l’approvazione
del ddl Cirinnà»,
che infatti c’entra
poco o niente, visto che la sentenza si limita a segnalare, e a
condannare, l’inadempienza
dell’Italia
a una convenzione liberamente sottoscritta, vedesse lei come
rientrare nella legalità, Cirinnà o non Cirinnà; e poi «è
solo una sentenza di primo grado, come quella sul crocifisso nei
luoghi pubblici in Italia che fu ribaltata in appello, dunque il
governo italiano proponga subito appello per non pagare le sanzioni e
rivendicare il diritto degli italiani a decidere in Italia sulla
famiglia»,
e come puoi decidere altrimenti che in ossequio a una sentenza, che
se riconfermata, ti obbliga a pagare e adeguarti, sennò a stracciare
gli impegni che hai firmato?
Ecco, questa è la domanda che verrebbe
voglia di porre a Mario Adinolfi (i virgolettati, infatti, sono
suoi): se la sentenza verrà riconfermata, per l’importanza
che riveste la questione, sei disposto a chiedere al governo italiano
di stracciare gli impegni assunti da tutti i paesi della Ue e perfino
dalla Russia, dalla Moldavia e dalla Turchia? E il governo pensi che
ti darà retta?
Adino’, te lo dico con l’affetto e la delicatezza che userei con un fratello scemo, se l’avessi: sotto i 25 millimetri non possono circolare, è vero, ma grosse come le tue non so’ più vongole, so’ cozze.
Io sto con Crocetta
Quello
sul gomito destro di Crocetta sembra un lipoma. Oddio, potrebbe
essere anche una cisti sebacea, ma la questione non cambia poi di molto:
se hai un amico che è chirurgo plastico, non ne approfitti? E già
che ti ci trovi, con quella ciccia che minaccia di sparare
qualche bottone della tua camicia in faccia a chi ti sta di fronte, che se per caso è pure figlia di martire si grida all’attentato, non ne
approfitti per una liposuzioncina? Dite quel che volete, secondo me i
rapporti con Tutino erano assai laschi, buongiorno-buonasera-riverisca-minchiachescirocco. Neanche vale la pena, poi, di
considerare le insinuazioni che vorrebbero Crocetta al centro di
chissà quale giro di interessi illeciti. Ma, dico, avete visto la
sua casa? In un angolo dei mobiletti in truciolato, a destra un
triste divanetto con sopra un patchwork che sa di studentessa fuori
sede e mal depilata, e poi la mensoletta col veliero in bottiglia, la tazza da
negozietto di souvenir con tre candele colorate infilate dentro, il
posacenere da artigianato di area depressa... E quell’orribile
cosaccio in finto noce sul quale sta sparapanzato? Dei poggiatesta da
sala d’attesa di un ambulatorio d’altre ere, rivestimento in
alcantara, bordini in microfibra probabilmente apposti con lo
sparaspilli, motivo floreale da copriletto primi anni Settanta,
insomma, roba che con sessanta euro il rigattiere ti dà pure il
poggiapiedi in abbinato. E questo sarebbe il Governatore che
amministra il magnamagna della Regione siciliana? Ma non fatemi
ridere, questo è tutt’al più un Totò Merumeni invecchiato male
che sopravvive tra i ninnoli lasciatigli dalla prozia canuta. Poco
più in là – probabilmente la foto l’ha tagliata via – ci sarà
pure Makakita, semmai impagliata. Guardatelo, questo è un uomo
incapace della seppur minima cattiva azione, poi, sì, vabbè, sarà
incapace pure d’ogni altra cosa, ma come si può immaginarlo al
centro del malaffare che brulica attorno e dentro Palazzo d’Orleans?
E dunque, miserabile cazzaro
Le tasse si possono abbassare solo tagliando la spesa. Dovendola tagliare, converrebbe cominciare da quello che ci costa un’amministrazione pubblica fatta apposta per ingrassare parassiti e ladri di ogni taglia, clientele radicate nella carne viva del paese, e non puoi farlo, peraltro ti ci vorrebbero dieci anni, e tu annunci di voler abbassare le tasse fin dal prossimo anno, senza agganciare il taglio a niente che articoli una bonifica del genere. Poi, dovresti abolire privilegi tanto consolidati da esser ritenuti diritti intangibili, peraltro in gran parte assicurati per legge. Non dico la Chiesa, ma prova a toccare i tassisti. Ma neanche questo basterebbe per abolire una tassa come quella sulla casa, sicché sarebbe inevitabile tagliare i servizi, e anche quelli essenziali. La tassa sulla casa, poi, si paga in tutta Europa, e abolirla, anche solo sulla prima casa, causerebbe un buco che sarebbe possibile tappare solo sforando le clausole di salvaguardia sottoscritte in sede comunitaria, e dunque creando l’incidente, robe che si è visto in che modo si risolvano a Bruxelles: ti arriva la letterina e vai in castigo.
E dunque, miserabile cazzaro, dici che vuoi abbassar le tasse? Benissimo, ma come? Facci vedere come hai fatto i conticini di questa simpatica operazioncina. Cosa tagli? Come dici, non tagli? Ennesima genialata messa a debito o a partita di giro?
E dunque, miserabile cazzaro, dici che vuoi abbassar le tasse? Benissimo, ma come? Facci vedere come hai fatto i conticini di questa simpatica operazioncina. Cosa tagli? Come dici, non tagli? Ennesima genialata messa a debito o a partita di giro?
lunedì 20 luglio 2015
Personaggi fittizi
«Pronto»
«È
***?»
«Sì,
con chi parlo?»
«Provi
a indovinare. La mia voce non l’aiuta?»
«Inconfondibile,
ma non ci vuole molto ad imitarla...»
«Sono
io, può esserne certo...»
«Non
ho intenzione di prestarmi a burle, ora riattacco. Le do cinque
minuti per twittare una qualsiasi cazzata delle sue in cui ci sia...
Ecco, ci metta un “che” con due acca, e mi richiami solo dopo
averlo fatto...»
«Che
paranoia...»
«Guardi
che siamo entrambi due personaggi alquanto fittizi creati da uno che
neanche sa dove andrà a parare questa conversazione telefonica: a me
ha fatto dire quello che ho detto, a lei tocca fare quello che le ho
chiesto, sennò la fiction finisce qui. Sembra paranoia, in realtà è
un prologo che deve dare al lettore un’idea
di chi sia io. Lei è persona nota e non ne ha bisogno»
«Ma
non mi sono presentato»
«E
lei pensa che il lettore sia cretino? Via, si è capito...»
«Ok,
posto il tweet e la richiamo»
«Due
acca...»
«Ho
capito»
«A
dopo»
«A
dopo»
...
«Pronto»
«Sono
io. Ha letto?»
«Sì.
Dica pure. Ma cominci col dirmi chi le ha dato il numero del mio
cellulare...»
«Ho
chiesto in giro...»
«Sì,
ma poi chi glielo ha dato?»
«***»
«Perché
mi ha chiamato?»
«Ho
letto quello che ha scritto in questi giorni. Volevo sapere se è
davvero convinto che...»
«Ammesso
che non ne fossi convinto quando lo scrivevo, lo sarei adesso, e per
il fatto stesso che si scomoda a telefonarmi per chiedermelo»
«Ma
non ha detto che siamo entrambi due personaggi fittizi che...?»
«Certo,
ma non è detto che uno dei due non sia più fittizio dell’altro»
«E
quello sarei io?»
«È
lei che ha una dimensione pubblica, che è fittizia di suo, io sono
un comune cittadino... Ma vada al sodo, mi dica cosa vuole
e poi sparisca»
«Quando
dice che... No, aspetti... Ecco qui, lei scrive: “... la
parte pretende di essere il tutto, di poterlo interamente
rappresentare in modo organicistico, con la coincidenza di leader in
partito, di partito in nazione e di nazione in stato...”»
«Ebbene?»
«Ma
è una cazzata»
«Non
ho mica scritto che avvenga scientemente. Non pensi ad un soggetto
agente, pensi ad un soggetto agito...»
«Non
saprei cosa voglio?»
«Non
ho detto questo. Dico che è cosa diversa da quello che crede...»
«Forse
ho sbagliato a chiamarla»
«Lo
penso anch’io, sa? Ma le ripeto:
siamo personaggi fittizi, consideri che potrebbe anche non essere
stata una scelta... In ogni caso adesso chiudo, non penso ci sia
altro da dire»
«E
questa non è una scelta?»
«Ma
non vede che anche ogni mia frase è tra virgolette?»
«Non
la seguo»
«Non
mi segua»
Iscriviti a:
Post (Atom)