Quando
Camillo Ruini esortò i cattolici italiani a disertare la
chiamata referendaria del 12 e 13 giugno 2005, il calcolo – poi
rivelatosi azzeccato – era che il quorum non fosse raggiunto e che
la legge n. 40 del 19 febbraio 2004 non fosse abrogata. Per quanto
sottoposta a limiti così pesanti da renderla un percorso ad
ostacoli, la fecondazione assistita non era tuttavia vietata da
quella legge, che infatti all’art.
1 recita: «Al
fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti
dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso
alla procreazione medicalmente assistita»,
venendo così a confliggere in modo irricomponibile col dettato che definisce «moralmente
inaccettabile»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2377)
il ricorso a qualsiasi tecnica di inseminazione artificiale. Sembrò
che la Cei si spendesse in difesa di un principio, mentre in realtà
lo sacrificava con grande disinvoltura, per uscire vincitrice da una
prova di forza che era tutta politica. Se, infatti, «vi
sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché
la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male
morale»
(ibidem,
1761) – e in questa fattispecie cade il ricorso a pratiche
procreative diverse da quelle naturali – la politica è pratica di
compromesso che non di rado costringe il principio entro i limiti del
possibile.
Così
accade con le unioni civili: tutte le dichiarazioni che in questi
giorni sono licenziate dai vari gradi della gerarchia ecclesiastica,
e che per la gran parte dei commentatori sono il legittimo esercizio
del magistero sulle coscienze dei fedeli, sono in grave difetto –
soprattutto omissivo, ma non solo – rispetto a quanto la dottrina
morale cattolica afferma come inderogabile. Nella difesa del
matrimonio, ad esempio, viene costantemente trascurato il richiamo al
fatto che «non
può sussistere un
valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso
sacramento»
(Codice
di Diritto Canonico,
can. 1055 § 2): in sostanza, il matrimonio civile non è «offesa
alla dignità del matrimonio» meno
di quanto lo siano tutte le forme di «libera
unione»,
degradate a «concubinato»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2390). Sembrano lontani i tempi in cui monsignor Pietro Fiordelli,
vescovo di Prato, bollava come «pubblici
concubini»
Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, sposatisi in municipio con rito
civile:
«Questo
gesto di aperto, sprezzante ripudio della religione –
scriveva sul giornale diocesano – è
motivo di immenso dolore per i sacerdoti e per i fedeli. Il
matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è
matrimonio, ma soltanto l’inizio di uno scandaloso concubinato».
Nessun prete si azzarderebbe a ripeterlo, oggi, ma nulla sul piano
dottrinario e canonico è mutato da allora: se non è sacramento, il
matrimonio non è vero matrimonio.
Ma
il compromesso non si limita ad evitare di porre il distinguo tra
matrimonio celebrato con rito religioso e quello celebrato con rito
civile: purché sia fermo il punto che nessuna forma giuridica possa
(e dunque debba) essere attribuita al legame tra due persone che
abbiano lo stesso sesso, le gerarchie ecclesiastiche sono già da
tempo indulgenti sulle unioni di fatto tra un uomo e una donna,
omettendo la condanna morale a quanti «rifiutano
di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica
l’intimità
sessuale» e
con ciò «distruggono
l’idea
stessa di famiglia»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2390), ed evitando ogni rampogna pubblica a chi abbia rapporti sessuali prematrimoniali, che restano grave offesa al VI comandamento, al pari – esattamente al pari – della masturbazione e dello stupro. Anche qui il principio è sacrificato a una partita tutta
politica, che impone, se non l’abbandono,
almeno un significativo disimpegno su una questione sempre meno
difendibile, per concentrare tutte le forze su quella che sembra
offrire qualche possibilità di successo. Anche qui, come nel caso
della condanna del matrimonio con rito civile negli anni Cinquanta, a
quei tempi celebrato in rarissimi casi, la scelta è quella di
battersi contro modelli socialmente minoritari, nella convinzione che
possano restar tali stigmatizzandoli come deleteri, consci del fatto
che il riconoscimento pubblico e giuridico di ogni modello
alternativo a quello cattolico (così d’altronde
era accaduto per il matrimonio con rito civile, contemplato dal
Codice Civile del 1942) lo rende, prima o poi, socialmente accettato.
In fondo è l’ammissione
che la legge umana fotte sempre quella divina, e che quest’ultima
non può più contare sull’autoevidenza
della sua superiorità, tutt’al più su qualche cattodem, su Gasparri, su Quagliariello. Ridotta veramente male, non c’è che dire.