Giorni
fa, su Libernazione,
Dan Marinos scriveva di avere «l’impressione
che Il Post abbia drasticamente calato la qualità del servizio
offerto».
Non riuscendo a figurarmi una qualità più bassa di quella che due o
tre anni mi spinse a cancellare Il
Post
dalla lista del mio feed reader, sono andato a curiosare. Bene, posso
dire che il giudizio di Dan Marinos è ingeneroso: nessun calo di
qualità, Il
Post
è sempre lo stesso, forse solo un po’
più appesantito di réclame e marchette. Mi pare che la formula non
sia affatto cambiata: pesca a strascico dal web, con tutti i limiti e
gli infortuni del caso, a dispetto della spocchia esibita da chi lo
dirige nel dare la lezioncina sulla verifica delle fonti. Un caso
emblematico è quello del post che intenderebbe fornire al lettore la
nozione del «luogo
geografico con il nome più lungo del mondo»,
che «inizia
con la “t” e ha 85 lettere»
(Il Post,
2.6.2016): pescato sul web, dove infatti non si ha traccia di quello
riprodotto qui sopra (da Il
senso del Tingo,
Rizzoli 2006 – pag. 204), che con 110 lettere lo batte.
giovedì 2 giugno 2016
Ci vuole pazienza
Anche se lo sfizio di commentare Il Foglio mi è passato da tempo, oggi non posso trattenermi dall’intrattenermi su una cosina pubblicata a pag. 2, la più interessante di tutto il numero oggi in edicola: parlo della letterina con la quale l’onorevole Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia, annuncia di aver presentato in Cassazione, insieme ad altri suoi colleghi, il quesito referendario per abrogare la prima parte della legge sulle unioni civili, certo di poter contare sul sostegno del giornale, che pure si è sempre dichiarato contrario a questo passo fin da quando, mentre ancora la legge era discussa in Parlamento, ne era ventilata l’ipotesi. Motivo di tale certezza? «Noi foglianti non ci siamo mai fatti intimorire dalla forza degli avversari, né fermare dal calcolo delle possibilità di vittoria». Riandando ai referendum del 2005, alla giravolta che sul calcolo di Ruini portò Il Foglio dal no all’astensione, si resta senza parole: sarà che l’onorevole è un candido o è un cinico? Probabilmente falso candido e vero cinico.
[...]
Rifugiato
in India da 57 anni, il Dalai Lama dice che i rifugiati dovrebbero
rimanere solo per poco nel paese che li ospita. È un capo religioso,
dunque gli è consentita una faccia di culo.
mercoledì 1 giugno 2016
Un sospiro di mestizia
L’euforia
della scoperta scientifica tende sempre a dare un aspetto allettante
a quanto si è scoperto, e questo è largamente giustificato, perché
arrivare a comprendere qualcosa che prima non si comprendeva è il
primo passo per cercare di metterci mano, per cambiarla, se è il
caso, traendone vantaggio. Talvolta, tuttavia, l’euforia
è un riflesso condizionato: ci viene rivelato qualcosa che non è
per niente allettante, cui sembra pressoché impossibile mettere
mano, ma i toni coi quali si dà notizia della scoperta sono comunque
entusiastici.
Così accade con la scoperta di «una
firma strutturale e funzionale dell’attività
cerebrale di ciascuno di noi» (Le
Scienze, giugno 2016 – pag. 17): studi sull’attività
cerebrale umana effettuati mediante scansione per risonanza magnetica
rivelano che ogni individuo ha una sua specifica configurazione di
attività neuronale, che trova ragione in una specificità sia
anatomica che funzionale, e che è ben distinguibile sia nel compiere
alcune azioni che nel non compierne alcuna.
Presto ancora per dire
come ciascuno giunga ad acquistare questa firma inimitabile, ma non
è azzardato supporre che come al solito vi sia il concorso di
patrimonio genetico e ambiente. Di fatto, sembrerebbe lecito
affermare – ed Edoardo Boncinelli, che firma l’articolo,
non fa fatica ad ammetterlo – che, per
«poter essere diverso in azione, il mio cervello deve essere in
potenza diverso da qualsiasi altro». Ragioni per rallegrarsene non
mancano: è cosa che «ci salva dalla noia e dallo squallore del
branco senza animazione». Ma è pure cosa che «non favorisce una
placida intesa reciproca», si concede. Cedendo troppo all’eufemismo,
direi, perché viene a vacillare il fondamento di una logica che possa dirsi fattore specie-specifico.
Certo, sapevamo che la logica fosse un’invenzione e non una scoperta. Sapevamo che 5-6000 anni fossero troppo pochi per farla diventare una protesi fissa. Ma sia consentito un sospiro di mestizia.
martedì 31 maggio 2016
Giovanotto
Giovanotto,
oltre che un mostro, lei è un grande scostumato, sa? E che,
si fa così? Confessare prima di aver dato modo a Chirico, a Manconi,
a Cerasa e al resto della compagnia di potersi attivare? Sulla coscienza lei non ha solo un’innocente,
ma pure una bella carretta di innocentisti, si
vergogni.
[...]
La
scritta in nero dall’allineamento
incongruo all’ondulato
del supporto, lo strafalcione che storpiava «fin»
in «fine»... Un fake davvero grossolano, inevitabile fosse
smascherato in fretta, e infatti così è stato, ma nessuno ha pensato ad avvisare Giuliano Ferrara.
La scorta a Saviano e quella a Verdini
Le
polemiche di recente innescate dalle dichiarazioni del senatore
D’Anna,
secondo il quale non avrebbe ragion d’essere
l’assegnazione
di una scorta a Saviano, mi hanno fatto venir voglia di sapere a chi
altri ne sia assegnata una. In una lista aggiornata al 2013 (ripeto:
2013), nella quale figurano i nomi di giornalisti come Vespa, Fede e
Belpietro, di politici come Formigoni, Angelucci, Scajola, Ghedini,
La Russa, Cicchitto, Alemanno, De Mita e Santanchè, e di esponenti
del mondo imprenditoriale come Marcegaglia, Cordero di Montezemolo e
Berlusconi (Silvio e Paolo), ho trovato anche quello di Verdini,
leader del gruppo parlamentare di cui D’Anna
è membro. A onor del vero, occorre dire che Verdini si è
tempestivamente dissociato dalle dichiarazioni di D’Anna,
ma questo non mi fa smettere d’esser
curioso sulle ragioni che abbiano reso necessario assegnargli una
scorta, della quale, a dar fede al pettegolezzo, pare tuttora goda.
C’è
qualcuno che sappia quale sia il pericolo che ne mette a rischio
l’incolumità
fisica?
lunedì 30 maggio 2016
Interpretare / 1
Non
ho ancora acquistato il libro scritto a quattro mani da Mario
Brunello e Gustavo Zagrebelsky (Interpretare, Il Mulino 2016), di cui
oggi Il Fatto Quotidiano ha mandato in pagina uno stralcio, nel quale
mi pare venga riproposta in modo più che esplicito una questione che
probabilmente non sarà mai chiusa con un accordo tra le parti in
causa, cioè tra il legislatore e il magistrato giudicante. Nei
prossimi giorni mi procurerò il volume e vi saprò dire se mi ha
offerto spunti di riflessione, ma fin d’ora,
a mo’
di premessa, ritengo utile far sgombro il campo da possibili equivoci
su un tema che è estremamente delicato e che costituisce un capitolo
centrale della discussione sui rapporti tra politica e giustizia, già
affrontato su queste pagine nel commentare in modo critico –
aspramente critico – gli interventi di chi muoveva alla
magistratura l’accusa
di esorbitare dalle sue prerogative per riempire i vuoti lasciati
dalla politica o addirittura per usurparne ruolo e funzione. Come mi
auguro sarà evidente dalla lettura di quanto segue, io ritengo che
la separazione dei poteri implichi necessariamente che il legislatore
perda ogni facoltà di controllo sul testo di legge dopo che lo ha
licenziato, e che, laddove le sue intenzioni non siano fatte
esplicite dal testo, la sua interpretazione è giocoforza nella
disponibilità di chi applica la norma, ovviamente nei limiti posti
dalla giurisdizione costituzionale. Ma su questo tornerò nelle
conclusioni in coda alla serie di post di cui questo è il primo.
1.
I problemi posti dall’«interpretazione»
sono già tutti impliciti nell’incertezza
che a tutt’oggi
resta sul suo etimo. Se è chiaro, infatti, che «inter-» stia per
«tra», a intendere una relazione tra cosa e cosa, è controverso
cosa la stabilisca, visto che per alcuni la «-pretazione» sarebbe
«negoziazione» o «permuta» (per significato estensivo dato a
περαω, che sta per «vado a vendere»), mentre per altri sarebbe
«esposizione» o «spiegazione» (da φραζω, che sta per
«mostro», «indico», «dichiaro», ma che ha molti altri
significati, non meno pertinenti in questo caso, come «scorgo»,
«medito», «delibero»). Probabilmente è questo che dà ragione
della notevole plasticità che assume il significato
dell’«interpretare»,
al pari di ciò che accade col «tradurre»,
termine che gli è affine sia nell’accezione che fa
dell’«interprete»
colui cui spetta «trans-ducere»
un testo da una lingua a un’altra, sia in quella che ne fa
l’intermediario tra l’autore e chi è destinato a fruirne, com’è
nel caso di una commedia o di un brano
musicale. Quest’affinità
tra «interpretazione»
e «traduzione»
spiega perché all’«interprete»
e al «traduttore»
venga spesso mossa la stessa accusa, quella di aver «tradito», per
colpa o per dolo, il testo che erano stati chiamati a «interpretare»
e a «tradurre».
È accusa che non di rado è assai difficile stabilire se fondata,
perché il presunto «tradimento» è spesso ai danni di chi solo
avrebbe pieno diritto di lamentarlo, ma non ne ha la possibilità:
Johann
Sebastian Bach
è morto da troppo tempo per dirci quanto possa sentirsi soddisfatto
dell’«interpretazione» che Ramin Bahrami dà delle sue
composizioni;
per la stessa ragione, Herman Melville non può dirci se si ritenga
più «tradito» da Cesare Pavese o da Ottavio Fatica (laddove
potesse, d’altra
parte, sarebbe necessario avesse una buona conoscenza della lingua
italiana); e così accade pure per la Costituzione degli Stati Uniti
d’America, perché ad ogni sentenza della Suprema Corte che ne
richiama questo o quell’articolo
manca il visto di approvazione da parte di George Washington, Thomas
Jefferson, Benjamin Franklin, ecc. In generale, potremmo dire che per
provare il «tradimento» di un testo siamo spesso costretti a
ricorrere ad un’autorità di provata competenza alla quale
affidiamo il compito di «interpretare» le reali intenzioni
dell’autore, quando questi non abbia modo di farlo di persona. Nel
caso di una legge, per esempio, quest’autorità
è affidata alla magistratura giudicante, tenuta a rispettare il
criterio di «interpretazione», indispensabile all’applicazione
della norma, che le è imposto dall’art. 12 delle Preleggi:
«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore».
Tutto sembrerebbe essere predisposto per non dar luogo ad alcun
contenzioso, se non fosse che anche qui siamo dinanzi a un testo da
«interpretare», per giunta relativamente ambiguo. L’«intenzione
del legislatore», infatti, sembrerebbe doversi ritenere evidente nel
testo stesso della norma, «fatta palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse», e tuttavia non è
affatto raro che le parole usate lascino ampio margine a
«interpretazioni» diverse, perfino opposte, per non parlare di come
la «connessione» delle parole stesse sia spesso ulteriore fonte di
dubbio. Il suddetto art. 12 sembra farsi carico di questa evenienza,
perché recita che, «se una controversia non può essere decisa con
una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe», e, «se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento
giuridico dello Stato», che però sono espressi da parole, il cui
«significato proprio», «secondo la connessione di esse», può
risultare non univoco. A ciò il testo della norma sembra spesso
voler porre rimedio col ricorso a perifrasi che tolgano ogni
possibile ambiguità a parole che consentirebbero più d’una
«interpretazione», ma non sempre questo è sufficiente, né risolve
la questione il connetterle in proposizioni che costringano a una
lettura inequivoca, perché il caso al quale la legge va applicata ha
uno specifico che rende sempre necessaria una trasposizione del
principio astratto nella realtà fattuale. In conclusione, potremmo
dire che non si può applicare una legge senza interpretarla, né si
può interpretarla senza attribuirle un senso che spesso non è fatto
così inequivocabilmente palese dal testo, come invece chi l’ha
scritto avrebbe preteso fosse.
[segue]
sabato 28 maggio 2016
Non è un infortunio logico, è un «“clic” psicologico»
Oggi
Michele Serra scioglie ogni dubbio su quanto ieri Massimo Cacciari
affidava alla penna di Ezio Mauro e ci costringe ad arrossire per
l’ingenuità di cui abbiamo dato
prova nel segnalare la patente
incongruità tra premessa
(«riforma maldestra»)
e conclusione («voterò Sì»):
non si trattava di un infortunio logico, ma di un «“clic”
psicologico». Bastava saper
leggere a dovere quel «non abbiamo la faccia per dire no»:
«Non abbiamo la faccia, noi sinistra, noi classe dirigente
del Paese, noi italiani senzienti e operanti tra i Sessanta e il
Duemila (e rotti) – spiega Michele Serra – per giudicare
con la puzza sotto il naso il lavoro di un governo di giovanotti
avventurosi e forse avventuristi. Dal riflusso in poi (dunque dai
primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso di esistere se non
come reazione stizzita al presente. [...] Ora la sola idea che
qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa
essere sbagliata». È
questo che «impedisce [a Michele Serra, ma anche a Massimo
Cacciari, come Michele Serra ritiene di poterci assicurare] di
essere antirenziano pur avendo, con Renzi, quasi zero in comune».
«Quasi», perché «il papà
di Renzi è la sinistra depressa» e
«la mamma della Boschi è la bicamerale». Insomma,
«c’è una ineluttabilità, nel renzismo, che da un lato
sgomenta, dall’altro chiede di compiersi per il semplice fatto che
più niente di davvero significativo si è compiuto, a sinistra, dopo
gli anni costituenti e quelli dell’avanzata operaia. Dal riflusso
in poi (dunque dai primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso
di esistere se non come reazione stizzita al presente».
Anche
qui sembra evidente una patente incongruità
tra premessa («quasi zero in
comune [con
Renzi]»)
e conclusione («la
sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che
quella cosa possa essere sbagliata»),
ma non faremo lo stesso errore di segnalarla come infortunio logico:
se nella sinistra dei Serra e dei Cacciari non è più la logica a
spiegare atteggiamenti e a motivare scelte, tutta l’attenzione
deve essere spostata a
quel «“clic”
psicologico» che
inibisce in conclusione ciò che in premessa parrebbe non aver ragione
di essere inibito. Siamo autorizzati – direi di più: siamo
obbligati – a spiegarci atteggiamenti e scelte di quella sinistra
non renziana che più o meno obtorto
collo
a Renzi finisce per dir sempre sì – quella che «se
l’avesse
fatto Berlusconi, saremmo tutti in piazza a manifestare»
– come manifestazioni cliniche di un vero e proprio disturbo
dell’adattamento
con evidenti segni di una sofferente capacità di giudizio. In
pratica, di una nevrosi.
«In
Renzi –
scrive Michele Serra – vedo
la nemesi della sinistra italiana: non esisterebbe, non si
spiegherebbe, se non alla luce della verbosa e presuntuosa impotenza
che lo ha preceduto e soprattutto lo ha generato».
Se è corretto attribuire a «nemesi»
il significato di punizione riparatrice, saremmo dinanzi a un Renzi
che la sinistra non renziana avverte come necessaria espiazione del
peccato di impotenza. Sul piano politico troverebbe sintomo
nell’inibizione
a un giudizio di merito su quello che Renzi fa, perché sarebbe pur
sempre qualcosa rispetto al niente di cui è stata capace la sinistra
negli ultimi trenta o quarant’anni,
ma allo stesso tempo troverebbe prognosi infausta per tutto ciò che
la sinistra ha inteso rappresentare fino a quando ne ha avuto gli
strumenti culturali. In tal senso, la sua sostanziale acquiescenza
alle tante decisioni politiche prese da Renzi che hanno segnato una
drammatica rottura rispetto alla tradizione culturale della sinistra
italiana andrebbe letta come ammissione di un fallimento strategico,
non tattico. La sinistra non renziana che vede nel renzismo il
Purgatorio necessario per mondarsi dalle proprie colpe è in realtà
già all’Inferno: non è chiaro quanto ne sia cosciente, ma di
fatto ammette che non le è possibile governare il paese attirando a
sé il Centro, ma solo facendosene attirare, per diventare in esso
irriconoscibile, pena l’esserne espulsa. Il Partito della Nazione è
già nei fatti: prim’ancora che nei maneggi con i verdiniani e i
cosentiniani, è tutto esplicito nel «“clic”
psicologico» di
Massimo Cacciari e di Michele Serra.
Patapaf
«La direttrice di Raitre martedì scorso ha convocato costumiste e
truccatrici. Perché è soprattutto alle donne della Terza rete che è
rivolto il nuovo codice sul modo corretto di vestirsi e truccarsi.
Niente più abiti fascianti, niente tubini, rigorosamente banditi
quelli di colore nero. Sono troppo sexy per la tv di Stato. Per
quanto riguarda gli uomini c’è poco da obiettare, completo
classico (gessato e non) con camicia e cravatta di buon gusto. Ma le
donne devono prestare più attenzione. Anche ai dettagli. Sugli
orecchini la Bignardi è stata lapidaria: al bando quelli vistosi.
Bandito anche il tacco 12. Pure sul trucco non si può uscire dal
seminato. L’ordine della Bignardi è perentorio: “Trucco
leggero”. Nessuna licenza, neanche se la richiede la conduttrice.
Il dress code è severo: camicetta sobria (consigliati i “colori
tenui”), scollature minime (al massimo si può far prendere aria al
collo), gonna o pantalone e tacco rigorosamente basso»
(Il
Messaggero,
27.5.2016).
Per chi si è lasciato scappare un velenoso sospettuccio alla sua nomina, patapaf, arriva uno schiaffo morale: questa donna incide sul costume.
Per chi si è lasciato scappare un velenoso sospettuccio alla sua nomina, patapaf, arriva uno schiaffo morale: questa donna incide sul costume.
venerdì 27 maggio 2016
Cacciari e il male minore
Sembra
che Cacciari non riesca a immaginare altre ragioni di dissenso alla
riforma costituzionale voluta dal governo Renzi se
non quella di chi in passato ha invano tentato di farne una: «Chi
ha fallito si ribella», dice nell’intervista
concessa a Mauro (la Repubblica,
27.5.2016), e nel novero dei perdenti – aggiunge – «ci
sono anch’io»,
riandando a quando, «con Marramao,
Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, [...] ragionavamo sulla
necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza
scettro, come dicevamo allora, perché […] pensavamo fosse venuto
il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema
democratico».
Sente di aver fallito, Cacciari, ma non si
ribella: dice che voterà Sì, anche se si tratta di «una
riforma maldestra».
Sarebbe ingiusto liquidare questo atteggiamento come mera premura di
esibirsi intellettualmente onesto a differenza di quanti ieri
tentavano una riforma costituzionale, però senza riuscirvi, e oggi
sarebbero contrari a quella voluta dal governo Renzi, che invece è
riuscito a farla approvare dal Parlamento, solo perché invidiosi del
successo mancato a loro. Non è però altrettanto ingiusto negare ad
essi, e più in generale a chiunque sia contrario a questa riforma,
che d’altronde
lo stesso Cacciari non ha difficoltà a definire «maldestra»,
altre ragioni che non siano solo così meschine? Se è «maldestra»,
devono esservene. Sì, ma manca «la
presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur
sapendo che ce n’era bisogno».
Sembra di capire che, in presenza di questa presa d’atto,
sarebbe legittimo ritenere che quella voluta dal governo Renzi sia
una pessima riforma costituzionale, e dunque votare No, ma allora
come è possibile che Cacciari, cui questa presa d’atto
non manca, voterà Sì, anche se non gli sfugge il rischio di una
«concentrazione oligarchica del
potere» che
essa favorirebbe?
Saremo ingenui, ma almeno dai filosofi ci
aspetteremmo un buon uso della logica. Ammetti che la tal riforma
favorisca una «concentrazione
oligarchica del potere»:
se vuoi tale concentrazione, voti a favore della riforma; se non la
vuoi, voti contro; se non la vuoi, ma voti Sì, un problemino c’è.
Problemino secondario, parrebbe, perché «il
vero problema
– dice Cacciari – non è una
riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui
sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una
facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale,
correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e
la riforma passerebbe tranquillamente».
Può darsi, ma, proprio mentre l’intervista
a Cacciari andava in pagina, dal Giappone, dov’è
per il G7, Renzi ripeteva: «L’Italicum
non si discute».
È lo stesso Renzi che sul referendum di ottobre continua a ripetere
di volersi giocare la permanenza al governo, e addirittura il
continuare a fare politica. A Cacciari non è sfuggito, anzi,
parrebbe che sia proprio questo, in fondo, a motivare il suo Sì al
referendum di ottobre, anche se è l’argomentazione
a lasciare perplessi: «Ormai non
possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata –
dice – e si gioca tutta su di lui, da
una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo
chiesti cosa succede dopo? [...] Renzi va da Mattarella, chiede le
elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e
lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con
quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col
proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una
lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che
vogliamo? [...] C’è una teoria della cosa, si chiama il “male
minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica
italiana, non di Aristotele».
Anche qui possiamo concedere a Cacciari di avere naso più
dell’Oracolo
di Delfi, ma ci vuole Aristotele per capire che una lacerazione della
società italiana di fatto già c’è
tra chi vuole e chi non vuole una «concentrazione
oligarchica del potere»,
e che a causarla è proprio chi la vuole? Il male minore sarebbe
dargliela per evitare la lacerazione?
mercoledì 25 maggio 2016
Altro non riesco a spiaccicare
Temo
di non poter mantenere la promessa fatta al geometra Gaetano
Barbella, «studioso
eclettico
dotato
di singolari capacità intuitive che, unite ad una considerevole
abilità dell’uso
di “riga e compasso”, fanno di lui un singolare ricercatore»
(così
nella scheda biografica a corredo del suo saggio su Caravaggio,
il geometra degli infiniti mondi di Giordano Bruno,
che ha graziosamente voluto sottoporre alla mia attenzione,
attribuendomi molto immeritatamente un’autorevolezza
di cui manco mi sogno di lambire lo zoccolo):
in
un momento in cui l’animo
mi traboccava di soddisfazione per il felice esito di una macumba
alla quale lavoravo da due anni, gli avevo promesso di esprimergli
ampio e documentato parere sulla tesi da lui esposta in quelle pagine
(centoquattordici), ma confesso che, pur avendole lette col massimo
scrupolo, non ho parole neppure per azzardare una
peraltro assai malcerta impressione.
È che il Barbella è certo di leggere in alcuni quadri del Merisi
certe linee che a me paiono tendersi tra punti scelti assai
arbitrariamente e, dall’incrocio
di esse, certi quadrati, certi rettangoli, e altre più complesse
figure geometriche, che non ho ben capito come starebbero a summa del
pensiero di Giordano Bruno, di per se stesso già abbastanza oscuro,
non meno oscuro a vederselo chiarito grazie a un «codice
segreto»,
che tale resta. A chi ha contestato a Marco Bona Castellotti l’aver
ipotizzato una relazione tra la pittura del Caravaggio e la filosofia
di Giordano Bruno senza portare uno straccio di argomento – è per quel post che sono stato chiamato a esprimere un parere – «l’estrapolazione
di peculiari “invisibili geometrie”»,
sulle quali il Barbella è certo che il pittore abbia costruito i suoi soggetti per dar
corpo alle cosmografie del filosofo, pare qualcosa più di niente, ma
assai meno che qualcosa. E altro non riesco a spiaccicare.
[...]
«My
whole life I’ve been a fraud. I’m not exaggerating.
Pretty much
all I’ve ever done all the time is try to create
a certain
impression of me in other people.
Mostly to be liked or admired. It’s
a little more complicated than that,
maybe. But when you come right
down to it it’s to be liked, loved.
Admired, approved of,
applauded, whatever. You get the idea»
David
Foster Wallace,
Good
Old Neon
(2004)
giovedì 19 maggio 2016
Ora una rivoluzione sta per cominciare
Non
sarei troppo severo. I mezzi sono poco sorvegliati, ma il fine della
comunicazione politica non è tradita.
martedì 17 maggio 2016
[...]
In
un dibattito politico quasi sempre urlato, spesso degradato a rissa,
ormai da troppo tempo intollerabilmente intossicato dal ricorso
pressoché costante a pratiche di mistificazione e di impostura, una
voce che ci invita a ragionare, ad affrontare una questione armati
solo di buon senso, non può restare inascoltata. In questo caso,
poi, si tratta di una voce che chi sa apprezzare la sempre più rara
virtù dell’onestà
intellettuale non può non considerare amica, dunque porgiamo orecchio.
L’invito
di Massimo Bordin – chi lo conosce potrà tranquillamente chiudere
un occhio sul fatto che il suo invito parta dalle pagine del quotidiano più schifosamente renziano – è a far uso del solo buon senso per discutere di
quella che a molti è parsa esplicita intenzione di Matteo Renzi –
ora da lui risolutamente negata: gli sarebbe stata disonestamente
attribuita dai suoi avversari – di trasformare il referendum di
ottobre in un plebiscito sulla sua persona.
Questione interessante di
là dal caso che la solleva, perché attiene al più generale tema
della comunicazione in ambito politico. Qui, in sostanza, ci troveremmo di fronte
a un clamoroso misunderstanding. Ne sarebbe stato fatto oggetto
proprio l’uomo
politico che da tanti è considerato il più abile comunicatore
attualmente sulla piazza, sicché tertium non datur: o a Matteo Renzi
è stata disonestamente attribuita un’intenzione
che davvero non aveva, e allora c’è
da denunciare un odioso complotto ai suoi danni, o quanto ha detto in numerose occasioni rendeva chiara ed inequivocabile l’intenzione che gli è stata attribuita, e allora c’è
da segnalare la ritirata strategica di uno sbruffone, bugiardo
matricolato, spudorato quaquaraquà.
Prima di passare all’analisi
degli argomenti che portano Massimo Bordin a concludere che «se
perdo, vado a casa»
non intendesse affatto snaturare il senso del referendum sulla
riforma costituzionale, ma solo «anticipa[re]
una
conseguenza logica del voto di ottobre»
nel caso di una vittoria dei no, c’è
tuttavia da segnalare un motivo di perplessità riguardo al metodo
che egli ci propone: che significa «con
mente sgombra da sovrastrutture teoriche»?
Per «sovrastruttura
teorica»
dobbiamo
intendere quanto pretende di conferire sostanza veritativa a un
principio meramente assertivo, come quando l’espressione
è usata nei commentari di Diritto per richiamare a
un’interpretazione più consona allo spirito che alla lettera della
norma,
o invece parliamo della costruzione ideologica che impone alla realtà
l’astrazione
dei modelli analogici da cui procede, come accade nella più comune
violazione del metodo scientifico? Tutto sommato, è problema
marginale, forse il richiamo è solo a non vedere necessaria
confliggenza tra senso comune e buon senso. Continua a perplimere, ma passiamo al testo, sennò ci impantaniamo.
«Proviamo
a immaginare –
propone Massimo Bordin – che
il referendum di ottobre si concluda con una inequivocabile sconfitta
della riforma voluta dal governo. Cosa succederebbe?»,
si chiede.
«Di
sicuro l’opposizione chiederebbe con un certo vigore che il
governo, sconfitto su una questione certo non marginale, levasse il
campo. Non ci sarebbe obbligo, secondo Costituzione, ma visto che già
oggi non passa giorno senza che qualche esponente autorevole della
minoranza parlamentare intimi a Renzi di dimettersi, sarebbe a dir
poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si sentisse
dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non restate
al governo”. Non si capisce allora perché sia così grave che
Renzi abbia anticipato una conseguenza logica del voto di ottobre».
È qui che il dover dare per scontato che Massimo Bordin sia in buona
fede – mi è impossibile fare altrimenti – mi costringe alla sorpresa del constatare che il suo celebrato
acume non riesca a cogliere la differenza tra il dover far fronte
alle conseguenze di una sconfitta, come sarebbe la bocciatura di una
riforma sulla quale Matteo Renzi ha più volte detto di volersi giocare la
faccia, fra le quali vi sarebbe senza dubbio una richiesta di
dimissioni da parte delle opposizioni – dimissioni di cui comunque
non ci sarebbe obbligo – e il fare di questa eventualità una vera
e propria posta in gioco nel lanciare una sfida. Il dover dare per
scontato che Massimo Bordin sia in buona fede mi costringe alla
sorpresa nel leggere che tale sfida sarebbe già tutta implicita
dell’impossibilità
che si realizzi il caso «a
dir poco singolare che, sconfessato dal popolo, il governo si
sentisse dire dall’opposizione: “Avete perso ma guai a voi se non
restate al governo”».
Da che mondo è mondo, quand’è
che un governo è tenuto a ritenere fondate le richieste delle
opposizioni, se queste sono al di fuori delle condizioni poste dalla
Costituzione? È legittimo che, anche al di fuori di tali condizioni,
le opposizioni dicano «se
perdi, vai a casa»,
ma dire «se
perdo, vado a casa» da
Presidente del Consiglio cambia inevitabilmente il senso della
partita.
È il caso che si ebbe con le Amministrative del 2000:
nessuno obbligava Massimo D’Alema
a lasciare Palazzo Chigi dopo la batosta presa dal suo partito, ma
prima del voto aveva ripetutamente legato la sopravvivenza del
governo da lui presieduto al risultato di quelle elezioni,
personalizzandone il significato. Forse non ne aveva neppure voglia, ma accadde che un giornalista gli gettò il guanto e lo sventurato raccolse la sfida. È probabile che, dopo quella
batosta, le opposizioni avrebbero comunque chiesto le sue dimissioni,
ma, se non le avesse messe nel piatto, chi avrebbe potuto pretenderle
come atto dovuto?
Se è vero, d’altronde,
che Matteo Renzi è legittimamente alla guida del governo – non ha
mai avuto tale investitura dall’esito
di elezioni politiche, ma la Costituzione non la rende necessaria per
andare a Palazzo Chigi – non è altrettanto vero che ha più volte
preteso che tale investitura gli sarebbe stata conferita dal
risultato delle Europee del 2014? È errato affermare che ci troviamo
di fronte a un tizio per il quale la Costituzione a volte è tutta
letterale e a volte è tutta materiale? Nega, oggi, di aver voluto,
fino a ieri, fare del referendum di ottobre un plebiscito sulla sua
persona, ma è evidente che questo sia dovuto solo al timore di aver
caricato la sfida di un peso che non è più sicuro di poter reggere.
Nel voler legare il risultato del referendum di ottobre alla sua
permanenza al governo vi era la convinzione che le urne gli
assicurassero l’approvazione
della sua riforma costituzionale per scongiurare una crisi dagli
sviluppi incerti e dalle conseguenze potenzialmente gravissime, prima fra tutte la tremendissima ingovernabilità, che oggi fa più paura dell’anarchia: era un
modo per dire che a lui non c’erano
alternative credibili, ma adesso, con i guai giudiziari in cui
annaspa il suo partito, sente di non poterlo più dire. E dunque, sì,
non ha mai detto testualmente «dopo
di me, il diluvio»,
ma l’ha
abbondantemente dato a credere, in ciò sostenuto anche da chi non
gli ha risparmiato critiche: meno peggio di Berlusconi, meno peggio
di Grillo, meno peggio di Salvini – così, più o meno, si
argomentava – e altri in giro non ce n’è,
dunque teniamocelo. Ma comincia a farsi strada, seppur molto
lentamente, troppo lentamente, che in realtà, peggio di lui,
nessuno. Matteo Renzi lo ha capito:
«Personalizzare
lo scontro non è il mio obiettivo...»,
dice; con una faccia tosta che ormai non ci stupisce più, aggiunge:
«...
ma quello del fronte del No».
Quale buon senso, quale logica, quale mente sgombra da sovrastrutture
teoriche può tollerare questa patente menzogna?
Manderei a cagare
chiunque provasse a dimostrarmi che Matteo Renzi non avesse
intenzione di personalizzare il referendum di ottobre, ma qui,
forzandomi a quella signorilità tutta eufemismo ed ironia che è la
sua cifra inconfondibile, a Massimo Bordin mi limito a dire:
direttore, ma sa che non mi ha convinto?
lunedì 16 maggio 2016
Era meglio Berlusconi (cit.)
Capisce
di aver sbagliato, ma figuriamoci se può permettersi di ammetterlo,
e allora cerca di cambiare le carte in tavola: «Personalizzare
lo scontro non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del No» (*).
Con la faccia di culo che si ritrova, vedrete, non avrà alcuna
difficoltà a fare anche di più: se i sondaggi metteranno male, finirà col dire che, per evitare
che il referendum di ottobre si trasformi in un plebiscito sulla
sua persona, è disposto a fare un sacrificio, a tornare indietro sui
suoi passi: se la sua riforma costituzionale sarà bocciata, non
lascerà Palazzo Chigi, non lascerà la segreteria del Pd, non
lascerà la politica. Pressappoco dirà: «Avevo detto che ci mettevo
la faccia e che in caso di sconfitta ne avrei tratto le dovute
conseguenze, me ne sarei andato a casa, ma con amarezza sono
costretto a prendere atto che un’assunzione
di responsabilità è
stata volgarmente strumentalizzata dai miei avversari, dunque,
comunque vada, resto. Però sono sicuro di stravincere, anzi, pardon,
sono sicuro che stravincerà l’Italia
che vuol cambiare». E allora il referendum lo vincerà davvero.
Povia sarà un mentecatto, ma ha ragione: era meglio Berlusconi.
La maschera è caduta
Oltre
a quella torva, che è la più nota, c’è
una forma bonaria della velleità totalitaria, tanto bonaria che del totalitarismo mostra solo l’anelito, peraltro mitigato in aspirazione alla concordia, alla convergenza, alla grande intesa. Qui, l’annientamento
degli avversari è perseguita per assorbimento, previa aggregazione dichiarata indispensabile a fronte di cogenti istanze
emergenziali, non importa quanto reali o fittizie, in vista di
quell’unità
nazionale che è l’eufemismo dell’equivalenza
tra nazione, stato e partito.
Sotto diverse maschere, la via italiana
al socialismo del Pci ebbe proprio questa forma, e perciò sembrò sempre avere un volto umano: con Togliatti,
prima, con Berlinguer, dopo, ma anche con Occhetto, con D’Alema,
con Veltroni, con Bersani, quando dunque il Pci già aveva cambiato
pelle, e in quella prendeva a cambiare il resto, l’obiettivo
rimaneva quello di aggregare, per assorbirle, le tradizioni politiche
che avevano dato vita – sorvoliamo con quale risultato – alla Dc e al Psi: quella della dottrina sociale della Chiesa e quella del riformismo. Obiettivo che col Pd possiamo
dire sia parzialmente riuscito nel metodo, ma completamente fallito
nel merito, visto che, a otto anni dalla sua fondazione, il partito –
mi auguro che in quanto sto per affermare si sappia leggere l’ellissi
– è assai più democristiano che comunista, assai più craxiano che amendoliano o ingraiano.
Nulla di scandaloso,
quindi, nel fatto che i pochi sopravvissuti della vecchia dirigenza
del Pci di Togliatti e di Berlinguer siano tutti renziani: nel merito
non ha importanza quale sia il risultato, sta di fatto che Renzi
sembra dare successo al metodo, e allora si capisce perché
Napolitano lo coccoli, si capisce perché, dopo il risultato riscosso
alle Europee, Reichlin lo abbia designato a segretario di un Partito
della Nazione (l’Unità,
29.5.2014). E tuttavia il golem plasmato con tanto amore sembra
rischiare la stessa fine di quello creato da rabbi Yehudah Loew ben Bezalel:
di energia ne ha tanta, ma non sa controllarla a dovere, dando cenno
a pericolose pulsioni autodistruttive.
Si può comprendere, allora, l’angustia
di Napolitano: «Renzi
non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale [al
referendum di ottobre]»
(Corriere
della Sera,
3.5.2016). Si può comprendere la preoccupazione di Reichlin, che
oggi, in una lettera indirizzata a Mario Calabresi, scrive: «Non
mi piace il modo come si sta discutendo della riforma
costituzionale... Io
non voglio una crisi di governo al buio... Considero una sciagura
questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti
contrapposti...» (la
Repubblica,
16.5.2016). C’è
da capirlo: ha più di 90 anni, più di 70 ne ha spesi sognando il megapartitone dell’unità nazionale e, ora che la creatura ha preso forma, la vede messa a repentaglio dal suo mostrare la vera faccia, tutt’altro che bonaria.
«La
“rottamazione” era in una certa misura necessaria – scrive – ma si è
creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo
di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo”
né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le
condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un
nuovo compromesso sociale». Troppo tardi, forse. La maschera è caduta. Dietro il Partito della Nazione si è scorto il partito-stato, l’indomita tentazione di trasformare il consenso in egemonia.
domenica 15 maggio 2016
«Invertire la tendenza»
Sul
rapporto tra sviluppo economico e crescita demografica si è detto di
tutto e il contrario di tutto, ma è fuor di dubbio che da almeno un
secolo a questa parte continuino a nascere più bambini proprio dove
più si muore di fame; fuor di dubbio è che nei paesi a più alto
reddito pro capite siano proprio le famiglie più povere ad avere il
maggior numero di figli; fuor di dubbio è che il calo della natalità
sia un dato costante in tutti i paesi economicamente emergenti, che
da sommersi figliavano assai più.
Troppo poco per affermare che lo
sviluppo economico deprima la crescita demografica, troppo
poco perfino per mettere definitivamente a tacere chi vorrebbe sia indiscutibile che invece la stimoli, ma pensare che un bonus di 160 euro per
il primo figlio, e di 240 per il secondo, possa «invertire la
tendenza» del calo della natalità, costante ormai da decenni
qui in Italia, non è follia? Cifre che a stento coprono la spesa per
quattro mesi di pannolini, ma Beatrice Lorenzin è convinta che
«rappresentino un sostegno serio»
a scongiurare quella che definisce «un’apocalisse»
(la
Repubblica, 15.5.2016).
Degna rappresentante di questo governo, non a caso 160 e 240 sono
multipli di 80, il numero magico col quale Matteo Renzi è solito
ipnotizzare i polli.
Aggiornamento Pare non se ne faccia nulla, non c’è copertura finanziaria per scongiurare l’apocalisse.
Aggiornamento Pare non se ne faccia nulla, non c’è copertura finanziaria per scongiurare l’apocalisse.
sabato 14 maggio 2016
Due domande
Con
lo stralcio della stepchild adoption dal ddl Cirinnà, l’11
maggio 2016 è giunta a definita approvazione del Parlamento una
legge che, pur non contemplando per uno dei due
partner di un’unione civile la possibilità di adottare il figlio dell’altro,
specifica che, riguardo a tale eventualità, «resta
fermo quanto previsto e consentito in materia di adozioni dalle norme
vigenti»
(art.
3).
Il rimando è alla legge n. 184 del 4 maggio 1983, che, al
co. 1 dell’art.
7, dice che «l’adozione
è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di
adottabilità»,
rimandando ai seguenti (artt.
8-21),
per chiarire quali siano i casi in cui un minore possa essere
considerato adottabile. Il co. 1 dell’art.
44 della stessa legge dice che comunque «i
minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le
condizioni di cui al co. 1 dell’art.
7»:
possono essere adottati, ad esempio, «dal
coniuge, nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo
dell’altro
coniuge»,
ma anche «da
persone unite al minore da preesistente rapporto stabile e duraturo»,
con esplicita specifica che «l’adozione
è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato».
Ora, l’art.
12 delle Preleggi dice che «nell’applicare
la legge
non
si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e
dalla intenzione del legislatore».
In tal senso, la legge n.
184 del 4 maggio 1983 non si presta ad ambiguità interpretative di
sorta: un’unione
civile è condizione entro la quale il figlio di uno dei due partner
è adottabile dall’altro.
Né si presta a dubbio alcuno l’intenzione
del legislatore nel rimando ad essa, che è contenuto nel testo della
legge che regola le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Ciò
premesso, siano consentite due domande:
(1) dove sarebbe la
«creatività»
di una sentenza che consente a un minore
di essere adottato dal partner del proprio genitore?
(2) quanta cacca
c’è
nella testa di chi afferma che «in
tema di stepchild adoption fino a oggi la giurisprudenza ha dato
delle interpretazioni creative»?
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