Mi
pare che Mattarella si sia rimesso alquanto impropriamente
all’esempio
che, a suo parere, Einaudi avrebbe inteso porre a precedente, per
giunta con effetto vincolante sui suoi successori, riguardo al
corretto intendimento dell’art.
92 della Costituzione («Il
Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei
ministri e, su proposta di questo, i ministri»).
Intervenendo nel corso della cerimonia
che celebrava l’inizio
del settennato einaudiano al Quirinale, infatti, ha detto: «Cercando
sempre leale sintonia con il Governo e con il Parlamento, Luigi
Einaudi si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo
ufficio ogni volta che lo ritenne necessario. [1]
Fu
il caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio
dei ministri dopo le elezioni del 1953, nomina per la quale non
ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo
parlamentare, quello della Democrazia Cristiana. Fu un passaggio di
un esecutivo di pochi mesi, guidato dall’ex
ministro del Tesoro, Giuseppe Pella, e che portò al chiarimento
politico con la formazione della maggioranza tripartita che governò
con Mario Scelba fino alla scadenza del settennato di Luigi Einaudi.
[2]
Tale è l’importanza
che attribuiva al tema della scelta dei ministri dal volerne fare
oggetto di una nota verbale da lui letta il 12 gennaio 1954
nell’incontro
con i presidenti dei gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana,
Aldo Moro e Stanislao Ceschi, dopo le dimissioni del Governo Pella. E
scrisse in quella nota: “Dovere
del Presidente della Repubblica è evitare si pongano precedenti
grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al
suo successore, immuni da qualsiasi incrinatura, le facoltà che la
Costituzione gli attribuisce”»
(Dogliani,
12.5.2018).
I numeri che tra parentesi qui ho inserito nel testo
stanno a titolo dei due problemi sollevati dall’interpretazione
del 2° capo dell’art.
92 della Costituzione in relazione al significato che si voglia
attribuire a quel «nomina»,
che infatti, riguardo
ai poteri del Presidente della Repubblica, può significare, in senso
estensivo, «decide»,
«sceglie»,
«designa»,
mentre, in senso restrittivo, può assumere valenza esclusivamente
formale, procedurale, rituale, di mera vidima. Qui non ci
impancheremo a costituzionalisti nel tentativo di cogliere il più
genuino senso che i redattori della Carta abbiano inteso dare a quel
«nomina»,
limitandoci a contestare la lettura che Mattarella ha fatto degli
avvenimenti descritti in [1] e della nota verbale di Einaudi così
come offertaci in [2]. Si tratta in entrambi i casi di letture che ci
paiono a dir poco assai forzate. Tanto forzate da farci sospettare
che anche qui si sia voluto cadere nel malvezzo di piegare agli
impellenti bisogni del momento la realtà di fatti ormai smarriti
dalla memoria dei più. Dimostrazione ne è che all’intervento
del Capo dello Stato non è seguita alcuna critica. Sarà stato per
il rispetto dovutogli, che tuttavia non può sopravanzare quello
impone la realtà delle cose. Se il dotto studioso di Diritto
costituzionale si fosse limitato a darci il suo pregiato parere su
quel «nomina»,
staremmo qui con mento sul petto e col cappello in mano a ruminare i
suoi argomenti, grati del lume offertoci sulla questione. Fatto sta
che in questo caso ad argomento si è portato solo un precedente, per
giunta interpretato in modo assai poco convincente.
Sul
«caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio
dei ministri dopo le elezioni del 1953, nomina per la quale
[Einaudi]
non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale
gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana»,
occorre rammentare quali fossero gli estremi del quadro politico
all’indomani
delle elezioni del 1953. Da quelle elezioni la Dc uscì fortemente
penalizzata (dal 48,5% del 18 aprile 1948, infatti, scese al 40,1%),
e in favore del fronte delle destre (il Msi dal 2% al 5,8%, il Pnm di
Lauro dal 2,8% al 6,9%). A questa sconfitta reagì cercando di
spezzare quel fronte, tentando, da un lato, però invano, di mettere
fuori legge il Msi e, dall’altro,
con successo, di guadagnarsi la benevolenza di Lauro con sostanziose
agevolazioni per la sua flotta, fino ad ottenere la scissione del
Pnm, col conseguente suo indebolimento. Regista delle operazioni
miranti a blandire i monarchici, in attesa di dividerli, fu l’ala
conservatrice della Dc (De Gasperi, Scelba, Pella, Piccioni), che di
lì a poco sarebbe stata liquidata da quella facente capo a Fanfani
con la costruzione del caso Montesi.
Nell’agosto
del 1953 Einaudi non dà in prima battuta l’incarico
a Pella, ma a De Gasperi, che però non trova i numeri in
Parlamento: il Pnm, che inizialmente aveva annunciato l’astensione,
gli nega il suo appoggio, alzandone il prezzo, che a Lauro sarà
invece assicurato da Pella. Quando Einaudi, dunque, «non
ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo
parlamentare, quello della Democrazia Cristiana»,
nel dare l’incarico
ad Alcide De Gasperi, non operò affatto una scelta arbitraria,
limitandosi semplicemente a prendere atto che in Parlamento non ci
fossero
i numeri per la nascita di un Governo a sua guida.
Ma forse c’è
una ragione assai più banale per spiegare perché a Mattarella possa
sembrare che l’incarico
a Pella fosse più saggio di un incarico a De Gasperi, con ciò
illustrando esemplarmente la natura delle prerogative che il
Quirinale avrebbe sulla formazione di un Governo: è che nella
compagine governativa che a capo aveva Pella figurava anche suo
padre, Bernardo Mattarella, assente in quella prospettata da De
Gasperi. Nell’affrontare
la questione posta in [2] vedremo la reale natura di quello che
Mattarella definisce «chiarimento
politico»,
ma già qui pare chiaro che in esso Einaudi non v’ebbe
altra funzione che quella notarile: prendere atto che Lauro avrebbe
dato appoggio a un Governo Pella, ma non a un Governo De Gasperi.
Non
è corretto, poi, affermare, che la scelta di Einaudi sia stata
saggia in funzione di una stabilità che sarebbe nei fini affidati
alla funzione di chi siede al Quirinale: il Governo Pella durò solo
cinque mesi, e vedremo che Einaudi non fu certo in grado di farlo
durare di più.
Venendo al tema relativo alla nomina dei ministri e
al potere di veto che il Presidente della Repubblica avrebbe su
questo o quel nome nella lista sottopostagli da chi egli ha
incaricato di formare un Governo, occorre dire che Mattarella
stravolge i termini della questione posta con la nota verbale di
Einaudi, della quale infatti cita solo una frase che in nulla
chiarisce quali siano le «facoltà»
che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato, dando però ad
intendere che siano decisive nella composizione della compagine
governativa. Il fatto è che, se questo è nei fatti (vedasi il caso
di Previti, che Scalfaro spostò dalla Giustizia alla Difesa), non è
certo la nota verbale di Einaudi a porsi come precedente: Mattarella
avrebbe avuto buon diritto ad appellarsi ad una pratica ormai assunta
come consuetudine, e con qualche sovrappiù di ipocrisia definita
«moral
suasion»,
ma sembra aver preferito trovarne una radice dove – vedremo – non
ve ne traccia alcuna.
Il 12 gennaio 1954, data in cui Einaudi recita
la sua nota verbale a Moro e Ceschi, il Governo Pella è già
insediato da quattro mesi. Il Presidente del Consiglio annuncia un
rimpasto di Governo per rinforzarne la tenuta a fronte delle
richieste che vengono dagli alleati (Pli, Pnm) e tra i nomi nuovi che
propone, all’Agricoltura,
v’è
Aldisio, un parlamentare siciliano che, guarda caso, è padrino di
battesimo del Mattarella cui oggi sembra assai saggia la scelta di
Einaudi di favorire il Pella che fece ministro il suo papà a fronte
delle sordide manovre di Fanfani miranti a farlo cadere. Sta di fatto
che alla corrente della Dc che sta prendere la guida del partito il
rimpasto non piace e pone il suo veto, minacciando di far cadere il
Governo. Pella capisce che ha i giorni contati, va da Einaudi ad
annunciargli le sue dimissioni, ma questi, preso atto di quanto sta
accadendo, gli propone di ripresentarsi alle Camere col rimpasto che
ha approntato. Qui Pella rifiuta, ed Einaudi si rassegna.
Dove
sarebbe illustrato, in questo caso, il potere di veto che la
Costituzione assegnerebbe al Presidente della Repubblica sui nomi
sottopostigli da chi egli ha incaricato di formare un Governo? In
quella nota verbale v’è
piuttosto il senso più adeguato che può darsi a quel «nomina»,
ma a Mattarella deve essere sfuggito: «È
ovvio […] che la persona ufficiata od incaricata della formazione
del Consiglio dei Ministri senta tutti quei parlamentari che a lui
parrà più opportuno; ne ascolti i consigli, i consensi, i rifiuti,
apprezzile considerazioni che in merito gli sono esposte e ne tenga
il conto migliore nell’adempimento
dell’incarico ricevuto. Nessun limite può essere posto ai pareri,
ai consensi, alle esclusive, ai rifiuti che, nelle more della
formazione del Gabinetto, potranno venir fuori. Tutto sarà oggetto
di meditazione da parte della persona incaricata; ed ogni voce,
passando attraverso lui, confluirà a determinare le proposte che
egli presenterà al Presidente della Repubblica; le quali proposte,
passate attraverso quel crogiuolo, saranno, come vuole la
Costituzione, diventate le sue
proposte» (Luigi Einaudi, Lo scrittoio del Presidente, Giulio Einaudi Editore 1956 - pag. 33).
Qui
va sottolineato che, nel testo, «sue»
è in corsivo, a far chiaro che «nomina»,
almeno per Einaudi, vuol significare tutt’altro
che «decide»,
«sceglie»,
«designa».
Per Scalfaro, forse, sì. Per Einaudi, certamente, no.