In
linea di principio, potrei anche rinunciare alla democrazia in favore
di una forma di governo in cui il potere sia esercitato da un’élite
illuminata, ma è che sul piano pratico vedo ostacoli insormontabili.
Il primo, e il più grosso, sta nel fatto che da un certo punto in
poi potrei smettere di considerarla illuminata, ma allo stesso tempo
non aver alcun diritto di metterne in discussione il potere, il che
di fatto me la trasformerebbe in una dittatura. Infatti, delle due,
una: o è sempre illuminata, e non può smettere d’esserlo (non è
questo, infatti, che legittima il suo potere in alternativa alla
democrazia?), e allora sono io in errore a pensare che non lo sia più
(ma questo non implica che potrei essere stato in errore anche quando
pensavo che lo fosse?); o è realmente possibile che abbia smesso
d’essere illuminata (come è possibile che non lo sia mai stata), e
allora non si capisce che bisogno avrei di rinunciare alla democrazia
che mi consente di poter rivedere il mio giudizio a scadenze
prefissate dopo aver verificato l’operato di chi ho eletto o dopo
aver constatato che si trattava di un giudizio errato in partenza.
È
che «élite» significa – appunto – «eletta», «scelta», ma
il nodo del problema sta nel «da chi», perché, se su quanto sia
illuminata, e per ciò legittimata ad esercitare il potere, devono
esprimersi quanti in un sistema democratico sono periodicamente
chiamati a scegliersi dei rappresentanti, tra élite e rappresentanza
scompare ogni differenza, così come smette di esserci alternativa
tra due forme di governo che in realtà sono una sola. Si dovrebbe, altrimenti, dar ragione a chi afferma che una democrazia regge
solo se riesce a esprimere un’élite illuminata, che però si dà a
intendere non possa sortire da un voto. Chi lo afferma, infatti, fa
chiara distinzione tra élite ed eletti dal popolo, anche se ammette
possano esserci aree di sovrapposizione e coincidenza tra i due
insiemi in quelle personalità che riescano ad ottenere un rinnovato
mandato elettivo per un lungo periodo. È tuttavia evidente che, se a
esprimersi su quanto sia illuminata una cerchia di personalità cui
si voglia affidare l’esercizio del potere devono essere chiamati
tutti, la qualità in oggetto sarà semplicemente conferita da un
consenso maggioritario, che non potrà mai avere peso assoluto, né tanto
meno oggettivo: l’élite sarà illuminata del tanto che le sarà
riconosciuto dalla maggioranza degli aventi diritto al voto e per la
sola durata del mandato, ma allora che senso avrà considerare
alternative due forme di governo che in realtà sono una sola?
Sì,
confesso, fin qui ho giocato un poco a fare il finto tonto. In realtà
so bene che, per definizione (ancorché all’etimo piaccia far
confusione), un’élite illuminata non può sortire da un voto
popolare: «da chi» dovrebbe essere «scelta», dunque? E
soprattutto: come dovrebbe essere legittimata a esercitare il potere?
Io qui credo che non ci sia altra soluzione: un’élite illuminata
non può nascere che da un processo d’intercooptazione tra soggetti
che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga superiori a
quelle medie, come conoscenze e capacità a un alto grado
d’eccellenza; non può altrimenti essere legittimata a esercitare
il potere, dunque, che autolegittimandosi; né può altrimenti
arrivare a esercitarlo se non indipendentemente dal consenso di chi
in un sistema democratico sceglie i propri rappresentanti, nel senso
che un eventuale consenso popolare potrà facilitarle il fine, con
ciò dandole un mandato che si tradurrà in un’investitura
d’autorità in tutto coincidente ad un’attribuzione di
autorevolezza, ma non precluderglielo, perché c’è da supporre che
i mezzi a sua disposizione siano in grado di raggiungerlo comunque,
ancorché il buonsenso possa poi consigliare di non renderne
manifesto il conseguimento (l’élite illuminata potrebbe decidere
sia più opportuno esercitare il potere senza darlo da vedere, semmai
condizionando le decisioni di chi il potere lo detiene solo
formalmente per averne avuto investitura per suffragio universale).
Finto
tonto anche qui? Sì, un pochino, ma era per mettere in evidenza la
sostanziale coincidenza tra élite illuminata e oligarchia, dove non
è affatto escluso che, nel prendere in mano il potere e
nell’esercitarlo, entrambe possano godere del consenso popolare
(almeno nella sua espressione maggioritaria, foss’anche nella forma
di un’acquiescenza passiva) o della soggezione di chi il popolo ha
scelto come suo rappresentante: finto tonto per alzare il velo
d’ipocrisia e di mistificazione che sta nell’affermare
l’impossibilità di una democrazia senza un’élite illuminata a
correggerne gli errori, che sarebbero tutti nel volere degli
elettori.
Ci sono due modi per dirlo, e per entrambi ricorrerò a
degli esempi.
Il primo è rozzo, ma assai efficace, quasi a prendere
dal bignamino la teoria di Robert Michels: «Una
oligarchia bene organizzata somiglia ad una democrazia possibile»
(Giuliano Ferrara, Il Foglio, 22.5.2008).
Il secondo è un po’ più
articolato, e forse anche perciò meno efficace, perché, quando c’è
da affermare un principio sostanzialmente antidemocratico,
l’articolazione finisce sempre per essere d’impaccio. Si tratta
del rimprovero a chi ha «scarsa
consapevolezza del fenomeno democratico quale organizzazione elitaria
del potere. Dalla Gloriosa rivoluzione fino ai moti liberali
dell’Ottocento, la strada per la democrazia è stata la strada per
l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque
separasse l’élite dal volgo, i capaci dagli incapaci a governare.
Le teorie e gli istituti democratici sono nati e si sono sviluppati
al servizio di una teoria oligarchica della democrazia che
consentisse una legittimazione nuova rispetto al potere assoluto del
re, una legittimazione popolare sì, ma per un governo estraneo e
riparato dai governati. Nella schizofrenia del continuo appello alla
sovranità popolare e alle forme di democrazia diretta e partecipata
e, d’altro lato, della contestuale delusione per le sue scelte,
pensiamo che il busillis sia nelle soluzioni istituzionali che
razionalizzino il principio maggioritario: voto sì ma non su tutto,
e persino voto sì ma non per tutti. Ma il punto è molto più
delicato dell’ingegneria istituzionale: democrazia non vuol dire
necessariamente appello assoluto alla sovranità popolare, come
troppo spesso si sente dire da alcuni partiti e movimenti politici e
da una certa classe intellettuale, quando le torna comodo. Al
contrario, la fortuna della democrazia si è avuta con l’erigersi
del voto a illusione politica e col rafforzamento di una teoria del
potere e della sovranità diversa dall’assolutismo ma comunque
elitaria, che identificasse nella oligarchia degli eletti la
legittimazione ad agire e al tempo stesso la garanzia dei talenti. Se
questa è la democrazia, è democratico anche un sistema, come quello
italiano, dove su certi argomenti il popolo non può esprimersi, o un
regime che non fa della trasparenza e della volontà popolare il
feticcio del potere legittimo. Se questa precisazione non ci piace,
non ci resta che accettare sempre la volontà popolare, anche quando
si esprime come non vorremmo» (Serena Sileoni, sempre su Il Foglio
[dove sennò?], 5.7.2016). Che poi sarebbe stare al gioco anche quando se ne perde una tornata.
Ecco,
direi di essere arrivato al punto cui mi proponevo di arrivare con
questo intervento. Dobbiamo concepire la democrazia come
«legittimazione
popolare» di un «governo estraneo e riparato dai governati»?
Dobbiamo credere che la democrazia possa reggere solo sull’assunto
che il voto sia «illusione politica»? Dobbiamo ritenere che una
«sovranità diversa dall’assolutismo» sia possibile, ma solo se
«comunque elitaria», consistente in una «oligarchia degli eletti»,
che già sarebbe tanto, visto che darsi per illuminata può pure
essere un’élite
religiosa o militare?
Già, perché ancora non abbiamo chiarito a chi
spetterebbe darle la certificazione di «illuminata». Si trattasse
di un’élite
teocratica, sarebbe tutto facile, e invece chi sostiene che una
democrazia è possibile solo a maquillage di un’oligarchia
professa molto spesso un credo laico, anche se poi altrettanto spesso
si tratta di una laicità che s’appoggia
al «veluti si Deus daretur». Sarebbe tutto facile anche con
un’élite
militare – anche troppo facile, direi, basterebbe contare i bernoccoli invece che le schede che escono dalle urne – ma dopo Julius Evola
nessuno più contempla l’ipotesi.
Illuminata, allora, sì, ma certificata tale da chi, se a darle tale
certificazione a mezzo di elezioni significherebbe renderla un po’
meno élite?
Non se ne esce: abbiamo detto che un’élite
illuminata non può nascere che da un processo d’intercooptazione
tra soggetti che si riconoscano a vicenda qualità di gran lunga
superiori a quelle medie? È evidente allora che solo in tale
contesto può darsi legittimità a definire superiori certe qualità.
In sostanza, non può essere che un’élite
illuminata a potersi dire illuminata. Non funziona col pazzo che dice
di essere Napoleone, ma con l’élite
illuminata occorre funzioni.
Trattandosi
di élite illuminata, non c’è dubbio che i criteri di cooptazione
per entrare a farne parte sarebbero ineccepibili. Non c’è dubbio,
per esempio, che l’entrare a farne parte non potrebbe mai essere
motivato unicamente dall’esser figlio di chi già ne fa parte, ma
da meriti incontestabili. D’altronde, chi mai potrebbe contestarli,
questi presunti meriti, se non chi già ne faccia parte? E dunque:
chi mi può assicurare che tra i membri di questa élite non si
finisca per trovare un seppur tacito accordo del tipo «se chiudi un
occhio su mio figlio, io poi ne chiudo uno sul tuo»? I figli so’
piezze ’e
core, si sa. Qui in Italia, poi, più che mai. Non c’è
il rischio che quest’élite
mi diventi anche dinastica?
Basta
fare il finto tonto, sta stufando pure me: la sovranità, o
appartiene al popolo o non gli appartiene. Deve esercitarla nelle
forme e nei limiti prefissati dalla Costituzione che si dà, ma non
possiamo dire gli appartenga solo per modo di dire. Sennò è del
tutto naturale che si senta preso per il culo. E preso per il culo
oggi, preso per il culo domani, finisce che s’incazza
e dà il peggio di sé. Allora sì che, come dice la Sileoni, diventa
«volgo», ma diciamo che diventa difficile capire quanto già lo fosse di
suo e quanto lo sia diventato per incazzatura. Che lo diventi potrà
rafforzare in qualcuno la convinzione che un’élite
illuminata sia cosa estremamente necessaria, ma è evidente che
quella messa in discussione dal «volgo» non fosse tanto illuminata
da riuscire a conservare il potere che fino a un certo punto ha
esercitato senza trovare ostacoli. Illuminata fino a un certo punto,
diciamo, ma poi non più. Le dinastie decadono, diciamo. E se proprio
è necessario che sia un’élite
a dare anima a una democrazia, ogni tanto un ricambio non guasta. Se
al «volgo» spetta solo il ruolo di spettatore, ben venga ogni tanto
una guerra per bande. Non si capisce, però, perché non debba
vincere il migliore, e cioè l’oligarchia
che meglio riesca a darsi faccia «volgare». Le elezioni dovevano
servire unicamente a dare legittimazione a un’oligarchia?
Bene, siete serviti.