L’Italia
dei Valori è a congresso e domani voterà per scegliere il segretario nazionale
tra cinque candidati (Ignazio Messina, Niccolò Rinaldi, Antonio Borghesi, Matteo Castellarin e Nicola Scalera). Sarà eletto Ignazio Messina, Antonio Di Pietro l’ha
deciso fin da un mese fa.
domenica 30 giugno 2013
sabato 29 giugno 2013
Abbandoniamoci all’istinto
D’istinto
siamo portati a rigettare affermazioni fatte da individui che consideriamo repellenti.
Accade per risparmiarci la fatica di verificare ogni volta se ci sia la stretta
associazione tra chi parla e ciò che dice, dopo averla riscontrata in un numero
più o meno consistente di occasioni. È umano, ma è sbagliato. Per meglio dire,
si tratta di un errore argomentativo: quello detto «ad hominem». Bene, vedo che
si commette questo errore con ciò che Mario Adinolfi ha scritto in Perché sono contrario al matrimonio gay (*): nessuno si accolla la fatica di leggere il post, di rilevare le innumerevoli fallacies di cui è infarcito (ricorso all’autorità, ricorso alla tradizione, ricorso a una credenza,
ricorso alle conseguenze di una credenza, ricorso alla pratica comune, ricorso all’emozione, ricorso alla petizione di principio, ricorso alla nitidezza fuorviante, ricorso all’analogia del pendio scivoloso, ecc.), nessuno prova a dimostrare in modo circostanziato perché sia una merda. Niente, lo si dà per scontato: ciò che ha scritto viene rigettato perché è una merda a priori, e questo onestamente è sommamente ingiusto. Ecco perché mi sento in obbligo di mettere da parte per un istante le Noctes Atticae di Aulo Gellio, nelle quali stasera mi ero rifugiato per evitare
l’ennesimo Santoro sul caso Ruby, nel tentativo di dimostrare che, nel caso, merda sì, ma solo a posteriori. E dunque...
«Con la
sentenza della Corte Suprema Usa (per carità, è solo un primo passo, ma la
pallina ormai è su un piano inclinato) il matrimonio gay, già sdoganato in
mezza Europa, si appresta a diventare tema di dibattito anche in Italia e prima
o poi legge. Mi rendo conto dell’impopolarità della mia posizione, in
particolare a sinistra dove comunque ricordo la linea del Pd è contrario al
matrimonio omosessuale e a favore delle unioni civili “alla tedesca” (linea su
cui concordo in pieno), ma io sono stato sempre e resto contrario alle nozze
gay. Provo a riassumere il perché in cinque rapidi motivi».
Sorvoliamo
sulla forma sgangherata data al secondo periodo, limitiamoci a considerare
quella che in premessa sembra avere la pretesa di chiarire la posizione
politico-culturale di chi prende la parola, dandole un valore di coerenza che dovrebbe bastare a renderla qualificata se comparata a quella del Pd, che invece darebbe prova di incoerenza. Si tratta di un tentativo di slittamento dei piani di contesto, col quale Mario Adinolfi prova ad accreditarsi come fedele a posizioni che il Pd avrebbe abbandonato o sarebbe in procinto di abbandonare: fa affidamento sulla capacità di lasciar credere che tra le ragioni per le quali è uscito dal Pd ci sarebbe anche il mutato atteggiamento del partito sul matrimonio gay. In pratica, sarebbe il Pd ad essersi spostato, lasciandolo fuori, saldo sulle sue posizioni, che così acquisterebbero un sovrappiù di valore: prim’ancora di esporle e argomentarle, Mario Adinolfi ci chiede un anticipo di favore, che gli sarebbe dovuto perché resiste al gorgo del mainstream che ha inghiottito il Pd. E qui si ha un ulteriore tentativo di slittamento dei piani contesto:
l’opposizione al matrimonio gay è suggerita come posizione anticonformista. Cosa aggiunga o cosa tolga forza ad una affermazione se conforme o no all’opinione corrente, non è dato comprenderlo. Cosa aggiunga o cosa tolga solidità agli argomenti coi quali si intende supportarla se la si è sostenuta da sempre mentre altri la abbandonavano, men che meno. Si può solo ipotizzare che con questo post Mario Adinolfi stia provando a rientrare nel Pd grazie all’interessamento di chi nel partito rimane contrario al matrimonio gay.
«1. Per
me il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna, questo è stato per
millenni. Dal matrimonio derivano diritti e doveri. La battaglia per il
matrimonio omosessuale non è una battaglia per una parolina (chiamarla “matrimonio”
o “pippo” cosa cambierebbe?) è la battaglia per i diritti che ne conseguono. I
tre fondamentali temi di controversia sono il diritto “a formarsi una famiglia”,
il diritto di successione e il diritto alla reversibilità della pensione. Sono
due diritti che io contesto possano essere riconosciuti fuori dal matrimonio
tra un uomo e una donna».
Anche qui sarà il caso di sorvolare sulla forma, che peraltro rende problematica la comprensione di quali siano i
«due diritti»
contestati sui «tre» indicati, anche se al fine di rilevare la fragilità dell’impianto argomentativo costituisce dato irrilevante (tuttavia da quanto segue si ricava che «due» sia un refuso). Quello che appare ben chiaro, invece, è il ricorso alla tradizione come fonte di autorità dirimente senza appello. Si potrebbe fare altrettanto in difesa della schiavitù, se non fosse stata già abolita in gran parte del mondo. D’altronde, chi si batteva contro la sua abolizione dava enorme peso al fatto che «questo è stato per millenni». Ma il cortocircuito logico sta altrove: da un lato, infatti, si afferma che la questione non è meramente nominalistica («non è una battaglia per una parolina») e, dall’altro, come vedremo al punto 2, sembra che essa stia tutta nel nome da dare al
«vincolo»
che viene a crearsi in un
«rapporto “stabile”» tra due individui che abbiano lo stesso sesso («Se
rompiamo la sacralità del vincolo matrimoniale tra uomo e donna, ogni rapporto “stabile”
potrà alla lunga trasformarsi in matrimonio»). È come se per la radice pater- che in patrimonio si sollevasse obiezione al diritto di possedere un bene materiale se esercitato da una donna: si tratta di paradosso, ma, come vedremo, è proprio ciò che Mario Adinolfi ritiene legittimo per la radice mater- che sta in matrimonio.
«2. Se
il matrimonio è solo un timbro pubblico sul proprio amore e “davanti all’amore
lo Stato non può imporre a nessuno come comportarsi”, al momento dovessimo
ammettere la rottura del principio sacro per millenni che il matrimonio è l’unione
tra un uomo e una donna, perché limitarci a rendere legale e matrimoniale solo
il rapporto tra due donne o due uomini? Perché non accettare che ci si possa
amare in tre? O in quattro? Se un bambino riceve amore uguale a quello di una
madre e di un padre da due papà, perché non da quattro? O da tre papà e una
mamma? O dal papà che ama tanto il proprio cane e vuole che la sua famiglia sia
composta dal papà, dal cane e dal bambino ottenuto da una madre surrogata? Il
cane dimostra tanto affetto verso il bimbo, quasi gli somiglia. Se rompiamo la
sacralità del vincolo matrimoniale tra uomo e donna, ogni rapporto “stabile” potrà
alla lunga trasformarsi in matrimonio, sarà un diritto incontestabile. Con
conseguenze inimmaginabili».
Qui comincia a venir meno la motivazione all’analisi del testo, perché comincia a farsi forte il sospetto che si voglia sollevare obiezione al matrimonio gay assimilandolo a tutto ciò che non sia matrimonio tra un uomo e una donna. Sul piano logico è operazione legittima solo dopo aver assunto che l’unico vincolo degno di essere considerato matrimoniale sia quello tra due persone di sesso differente. In altri termini, è come se per sollevare obiezione al diritto di sciopero bastasse porre la domanda retorica: «Ti par bello che i ciliegi smettano di fiorire in primavera?». A chi la ponesse, basterebbe di rimando chiedere: «Scusa, ma che cazzo c’entra?». Poi, avendo tanta pazienza, si potrebbe anche perder tempo a spiegare la differenza tra un lavoratore e un albero da frutta. Così con Mario Adinolfi, spiegandogli la differenza tra genere e numero, e facendogli presente che un cane non ha capacità giuridica.
«3. Se
due uomini possono sposarsi ne deriva il pieno diritto a “formarsi una
famiglia”. Senza limitarsi al diritto all’adozione, no, quello è il meno.
I precedenti ci dicono che il diritto a figliare forzando la natura sarà
pienamente tutelato. Il caso più noto è quello di Elton John e di suo “marito”
David. Sono decine di migliaia già i casi similari. Elton e David vogliono un
figlio. La natura pone un limite a questo loro bisogno, come è noto. Ma Elton e
David vogliono, fortissimamente vogliono. Sono sposati e ora come tutte le
coppie vogliono un figlio. Allora affittano (Dio mio, faccio fatica persino a
scriverlo) l’utero di una donna, mescolano il loro sperma e con quel mix la
ingravidano, nasce il piccolo Zac che appena nato istintivamente viene posato
sul ventre della madre e naturalmente cerca il suo seno. Zac viene però
immediatamente staccato a forza da quel suo rifugio naturale e consegnato ai “genitori”.
Il bimbo per un anno intero non fa altro che piangere, Elton se ne lamenta
graziosamente in qualche intervista e racconta che per placarlo faceva “tirare”
il latte al seno della madre naturale per allattarlo poi con il biberon. Io l’ho
trovata una storia agghiacciante, una violenza terribile fatta al più debole
tra gli umani, il neonato. La moda imperante considera tutto questo invece
molto glamour».
Qui, francamente, si è fortemente tentati di essere indulgenti con l’errore argomentativo «ad hominem», perché dinanzi a un così palese tentativo di spostare la discussione dal matrimonio gay al diritto di allevare prole da parte di una coppia gay, e dal
diritto di allevare prole da parte di una coppia gay alla possibilità di affittare un utero, e dalla possibilità di affittare un utero al far piangere un bambino, e dal far piangere un bambino all’agghiacciare Mario Adinolfi, e dal suo agghiacciarsi a quello di chi dovrebbe agghiacciarsi all’idea che due gay possano sposarsi, c’è solo da chiedersi chi possa mai fottersene di sentirsi intellettualmente a posto nel dargli della merda solo se a posteriori. Lasciamo perdere, via, abbandoniamoci all’istinto.
venerdì 28 giugno 2013
Il mito
Pare che la signora Ferrara, parlando del marito,
abbia detto: «Legge Travaglio, lo fa sempre. Quando lo insulta, serve a far
crescere il mito di Giuliano» (La Zanzara - Radio24, 28.6.2013). Ora, io non so come immaginate voi la scenetta
domestica, io la immagino così. Ferrara seduto sulla tazza del cesso con Il
Fatto Quotidiano in mano, tre quarti di natica che strabordano di qua, tre
quarti dell’altra natica che strabordano di là, tazzina di caffè appoggiata sul
bordo del bidet, pacchetto di sigarette e accendino appoggiate sul lavandino: «Selma,
Travaglio m’insulta pure oggi». E Selma: «Bene, tesoro, così ti cresce il mito». Non so
voi, a me viene una tristezza, ma una tristezza…
Presto!
S’era
diffusa voce che tre francescani fossero stati decapitati in Siria da un gruppo
di feroci jihadisti. Non era vero. Peccato, perché bilanciava a meraviglia la
notizia dell’arresto di monsignor Scarano, fino a ieri funzionario dello Ior,
villone da favola stracolmo di preziose opere d’arte, accusato di truffa,
ricettazione e riciclaggio. Fosse stato vero, fossero stati sei invece che tre,
si sarebbe pareggiato il conto pure con le rivelazioni di don Poggi sul giro di
prostituzione maschile in Vaticano, festini incandescenti con ragazzini rumeni
raccattati alla Stazione Termini, marchette da 400-500 euro e cosacce del
genere. I tre francescani sono vivi, maledizione. Presto, c’è mica qualche
madonnina che pianga sangue o qualche reliquia che risvegli il comatoso?
«Sfogatoi virtuali»
Un box
a pag. 33 de la Repubblica di giovedì 27 giugno mi offre l’occasione di intrattenermi
su una questione che avrei voluto affrontare già da tempo. Questione rilevante,
per un blogger, quella della «fine dei blog», ma, ogni volta che mi accingevo a
trattarla, d’un tratto mi
appariva frivola o comunque a rischio di scivolare, da un lato, nell’autoreferenzialità
e, dall’altro, nel tecnicismo. In buona sostanza, il rischio era quello di
affrontare la questione eludendo il suo aspetto più importante, che a mio
parere è centrale e ineludibile: quello relativo alle ragioni che spingono a
mettere in rete (web) un diario (log). Senza far chiarezza su cosa sia un log,
e quale carattere assuma quando dal taccuino privato passa al web, ogni
discussione sulla blogosfera diventa un ginepraio di fraintendimenti. Un diario
è una raccolta di scritti relativi a cose o fatti che sono in stretta relazione
all’autore: non ha importanza quale sia la natura dei temi trattati, quale sia lo
stile scelto per trattarli o quale sia la frequenza delle pubblicazioni, l’aspetto
peculiare è il carattere personale della scrittura, di là dagli elementi che ne
consentono un giudizio di merito. Cerco di
dirlo meglio: ciò che caratterizza un blog rendendolo differente da una
qualsiasi altra pagina pubblicata online è un io narrante che, anche quando è dissimulato
in un tu o in un noi che sono meri espedienti retorici, fa della scrittura un
momento di intermediazione tra pubblico e privato. Ma forse anche così non è
abbastanza chiaro, e sarà meglio che ricorra a qualche esempio.
Prendiamo
la classifica di BlogBabel e cominciamo a scorrerla. Il blog di Beppe Grillo è
un blog? Assolutamente no: è un’agorà telematica. Il Post o Giornalettismo?
Certamente no: sono giornali online. La ventisettesima ora o Tvblog? Manco per
niente: sono dei magazine. Manteblog e Piovono rane? Sono blog: hanno un io
narrante, la periodizzazione della scrittura risponde a un’esigenza personale,
l’intermediazione tra pubblico e privato ricorre a un metatesto che ha
articolazione diaristica. Arrivo a fine a pagina e tra le prime 100 testate in
classifica non conto più di 20 blog. Se gli altri 80 chiudessero le loro
pubblicazioni, potremmo dire che la blogosfera ha subìto un collasso? A mio
modesto avviso, no.
Se ne
parla da almeno due o tre anni, e il giudizio pressoché unanime è che la crisi
della blogosfera sia in larga misura da imputare ai social network, in primo
luogo a Facebook e a Twitter, che offrirebbero il vantaggio di una più
immediata interattività. Ecco, fin da questo primo dato, d’altronde
incontestabile se avulso da ogni considerazione sul tenore di interattività relativa
al mezzo, a me pare che si commetta l’errore di ascrivere al volume della
blogosfera di qualche anno fa molto di quanto non le appartenesse davvero. In altri
termini, io credo che molti di quelli che erano considerati blog, e formalmente
lo erano, in realtà non lo fossero: erano embrioni di homepage di Facebook o di
Twitter, che aspettavano di venire alla luce. Dirò di più: una discreta quota
di «scrittura da social network» era già presente anche nei blog che almeno formalmente
erano tali, e questo, a mio parere, spiega perché anche i blogger
ancora attivi hanno ridotto più o meno drasticamente la loro produzione, trovando
nella parallela attività sui social network il fisiologico drenaggio di quanto
prima postavano sui propri blog. Mi pare che una conferma sia nella contrazione
del numero dei commenti ai post e dei link che rimandano ad altri post: non
sapevo se si trattasse solo di una mia impressione, ma ne ho trovato riscontro
in qualche studio ampiamente documentato. È che il chiacchiericcio che prima
affollava le pagine dei commenti, non di rado assai sterilmente, si è
trasferito nel suo luogo d’elezione, che è la piazza dei social network, mentre
il link si trasformato in like o in retweet.
A
questa «fine dei blog», insomma, io non credo molto: penso piuttosto che la blogosfera
vada scremandosi della superflua schiuma che ne ingrossava il volume da
sovranatante. Poi, sì, ci sarà pure chi non ha più niente da dire dopo aver detto tutto quello che aveva da dire, ci sarà chi avrà pensato al blog come alla vetrina nella quale esporsi per trovare un acquirente e deluso ha chiuso bottega, ci sarà chi si è sposato, ha fatto figli, ha cominciato a lavorare e non ha più trovato tempo. E tuttavia è indubbio che ci sia ricambio. Qui la blogosfera si contrae, lì si espande.
A parte Di Angelo Acquaro so poco, e quel poco è quanto ho origliato dagli aficionados de la Repubblica, che di solito sono assai teneri con tutte le firme del giornale, ma con lui vedo sono assai duri: se devo esprimere un parere personale sulla base di ciò che leggo nel suo box, è durezza meritata. Angelo Acquaro è superficiale, ha scrittura sciatta, rimastica luoghi comuni, partorisce espressioni di incredibile volgarità come «sfogatoi virtuali», che sono anche al di sotto del livello di una Soncini prima della ripulitina.
mercoledì 26 giugno 2013
La filosofia di Terry De Nicolò è ormai un filone di pensiero
Terry
De Nicolò è un nome che probabilmente non vi dirà niente, ma quasi certamente,
appena farete partire il video qui sotto, rammenterete subito di chi si tratta,
perché l’intervista in esclusiva che concesse due anni fa a L’ultima parola (Raidue,
16.9.2011), e dalla quale è tratto lo stralcio che qui ripropongo, rimane una
delle pagine indimenticabili nella storia della tv italiana.
La signora fu capace di esporre in poche battute il suo sistema filosofico, risultando incisiva e brillante. Si poteva ritenerlo solido o meno, poteva piacere o no, ma era impossibile negare che fosse illustrato con la massima chiarezza. Anche troppa chiarezza, forse. Ecco, volendo proprio trovarci un difetto, potremmo dire che la filosofia di Terry De Nicolò aveva quello di darsi in modo così asciutto da apparire brutale.
Ogni filone di pensiero, tuttavia, ha i suoi epigoni che, pur fedeli ai caposaldi, hanno varietà di stile. Così, se a suo tempo avete rigettato la tesi per come era illustrata da quella escort, oggi potete provare a riconsiderarla con migliore disposizione d’animo per come vi è riproposta da questa “puttana”.
Cita Engels, via, non potete liquidarla come una qualsiasi Terry De Nicolò.
La signora fu capace di esporre in poche battute il suo sistema filosofico, risultando incisiva e brillante. Si poteva ritenerlo solido o meno, poteva piacere o no, ma era impossibile negare che fosse illustrato con la massima chiarezza. Anche troppa chiarezza, forse. Ecco, volendo proprio trovarci un difetto, potremmo dire che la filosofia di Terry De Nicolò aveva quello di darsi in modo così asciutto da apparire brutale.
Ogni filone di pensiero, tuttavia, ha i suoi epigoni che, pur fedeli ai caposaldi, hanno varietà di stile. Così, se a suo tempo avete rigettato la tesi per come era illustrata da quella escort, oggi potete provare a riconsiderarla con migliore disposizione d’animo per come vi è riproposta da questa “puttana”.
Cita Engels, via, non potete liquidarla come una qualsiasi Terry De Nicolò.
martedì 25 giugno 2013
[...]
La
condanna che ieri il Tribunale di Milano ha inflitto a Silvio Berlusconi ci ha
dato modo di trovare conferma di quanto abbiamo scritto su queste pagine
riguardo agli elementi psicopatologici che caratterizzano la relazione tra un leader
carismatico e i suoi gregari. Non che ce ne fosse bisogno, in realtà, ma la
nostra attenzione si era fin qui appuntata su due modelli di relazione che trovano
corrispettivo nelle due forme di leadership carismatica che Otto Kernberg ha ascritto
a due tipologie di disturbo che caratterizza il leader – quello di tipo
narcisistico e quello di tipo paranoideo – e alle quali qui abbiamo accostato
quelle che ci sono parse concordanze patognomonicamente significative nei
quadri clinici offertici da Marco Pannella e da Beppe Grillo. Tuttavia abbiamo
detto: «Non di rado l’esperienza ci offre quadri psicopatologici misti, anzi, è
assai frequente che in uno stesso leader carismatico siano sensibilmente
rappresentati, seppur in varia misura, aspetti narcisistici e aspetti
paranoidei, che in ogni caso trovano espressione strettamente conseguente nei
moduli relazionali che caratterizzano il legame tra leader e seguaci, e quello
tra i membri del gruppo» (Tipologie di leadership carismatica – Malvino, 7.4.2013). Se abbiamo messo in guardia dal ritenere che tali tipologie possano trovare forma pura nella realtà, era perché proprio nei due leader che meglio vestivano le due forme paradigmatiche di psicopatologia di gruppo qui prese in considerazione erano riscontrabili elementi di natura paranoidea in un contesto dalla franca impronta narcisistica e, seppur in minor misura, di natura narcisistica in un contesto di chiaro tenore paranoideo.
Se fin qui abbiamo tenuto Silvio Berlusconi fuori dalla nostra discussione, è perché rappresenta un quadro in cui le due tipologie sono rappresentate in misura pressoché equivalente. Si potrebbe parlare di un eccellente esempio di psicopatologia mista narcisistico-paranoidea, se non fosse che nel profilo clinico del leader, e ancor più nella psicopatologia di gruppo che ne costituisce – insieme – referente e relato, appaiono evidenti altri elementi, che Otto Kernberg ha descritto come «aspetti schizoidi» e «aspetti ossessivi», oltre a quelli studiati da un altro autore, Manfred Kets de Vries, che qui pure è stato citato in diverse occasioni, descritti come «impostura» e «alessitimia». Tenere fuori Silvio Berlusconi dalla nostra riflessione sulla leadership carismatica è stata una scelta di metodo, motivata dalla particolare struttura dell’oggetto, nel quale gli elementi che pensavamo fosse utile isolare si sono sempre offerti, e non smettono di offrirsi, in articolazioni di estrema complessità, e per giunta variabili da momento a momento. Se l’immagine può tornare utile, si potrebbe dire che con Silvio Berlusconi siamo dinanzi al caleidoscopio della psicopatologia della leadership carismatica. E questo spiega, pur nell’ampio spettro dei quadri clinici, la cifra distintiva del psicopatologia di gruppo che è osservabile a carico dei suoi gregari.
In tal senso, le reazioni alla sentenza del Tribunale di Milano potrebbero costituire un capitolo non particolarmente diverso dagli altri che hanno fatto la storia della corte berlusconiana. Stavolta, tuttavia, data la natura dei reati di cui il leader è stato dichiarato colpevole, le implicazioni d’ordine psicologico prima ancora di quelle d’ordine politico che la condanna solleva rendono evidenti nelle esternazioni dei gregari, come mai fin qui, gli elementi psicopatologici che interfacciano quelli del leader. Siamo, insomma, dinanzi a quello che nella pratica clinica è considerato un caso peculiarmente didascalico.
Se fin qui abbiamo tenuto Silvio Berlusconi fuori dalla nostra discussione, è perché rappresenta un quadro in cui le due tipologie sono rappresentate in misura pressoché equivalente. Si potrebbe parlare di un eccellente esempio di psicopatologia mista narcisistico-paranoidea, se non fosse che nel profilo clinico del leader, e ancor più nella psicopatologia di gruppo che ne costituisce – insieme – referente e relato, appaiono evidenti altri elementi, che Otto Kernberg ha descritto come «aspetti schizoidi» e «aspetti ossessivi», oltre a quelli studiati da un altro autore, Manfred Kets de Vries, che qui pure è stato citato in diverse occasioni, descritti come «impostura» e «alessitimia». Tenere fuori Silvio Berlusconi dalla nostra riflessione sulla leadership carismatica è stata una scelta di metodo, motivata dalla particolare struttura dell’oggetto, nel quale gli elementi che pensavamo fosse utile isolare si sono sempre offerti, e non smettono di offrirsi, in articolazioni di estrema complessità, e per giunta variabili da momento a momento. Se l’immagine può tornare utile, si potrebbe dire che con Silvio Berlusconi siamo dinanzi al caleidoscopio della psicopatologia della leadership carismatica. E questo spiega, pur nell’ampio spettro dei quadri clinici, la cifra distintiva del psicopatologia di gruppo che è osservabile a carico dei suoi gregari.
In tal senso, le reazioni alla sentenza del Tribunale di Milano potrebbero costituire un capitolo non particolarmente diverso dagli altri che hanno fatto la storia della corte berlusconiana. Stavolta, tuttavia, data la natura dei reati di cui il leader è stato dichiarato colpevole, le implicazioni d’ordine psicologico prima ancora di quelle d’ordine politico che la condanna solleva rendono evidenti nelle esternazioni dei gregari, come mai fin qui, gli elementi psicopatologici che interfacciano quelli del leader. Siamo, insomma, dinanzi a quello che nella pratica clinica è considerato un caso peculiarmente didascalico.
[segue]
lunedì 24 giugno 2013
[...]
Su La7,
stasera, dopo Otto e mezzo, era in programmazione Papillon. Lodevole l’idea di
cambiare film.
[...]
La
Borsa di Milano chiude con un titolo Mediaset in calo di oltre 5 punti. Come so’
’gnoranti, ’sti mercati! Ma non lo sanno che dal 2004, grazie alla Legge
Frattini, non c’è più alcuna relazione tra Berlusconi e Mediaset?
«Conoscenza superiore»
«In
Rete, come nella realtà, è impossibile essere competenti su tutto, però la Rete
consente a gruppi con conoscenze e interessi simili dislocati nel mondo di
mettersi in contatto e di formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto
in tempi molto brevi, condividendo esperienze e fatti». Bene, direi che Wikipedia
possa offrirsi come un buon esempio di questa «conoscenza superiore», ma
Gianroberto Casaleggio (suo il virgolettato, dall’intervista che ha concesso a
Serena Danna, pubblicata sull’ultimo numero de La Lettura) ritiene impropria la
definizione che Wikipedia dà di «democrazia digitale», e ne dà un’altra che assicura
essere quella giusta. Pazienza, la Rete darà prova della sua «conoscenza
superiore» in altra occasione, stavolta si è fatta cogliere in disaccordo con
Gianroberto Casaleggio.
Ordunque, cos’è la «democrazia digitale»? «La forma di democrazia diretta in cui vengono utilizzate le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle consultazioni popolari», come recita Wikipedia? No, per Gianroberto Casaleggio, «non è relativa soltanto alle consultazioni popolari». E allora sarà il caso di ridefinire il concetto di democrazia diretta. Non è una forma di governo? Nei modi in cui si attua sarà diversa da tutte le altre, ma al pari di ogni forma di governo non ha per fine il governo degli uomini e delle cose? Oltre a quella della consultazione popolare, dunque, quale altra funzione è data alla democrazia digitale? In altri termini: quale altro fine vuole avere di là dal farsi mezzo per superare la democrazia rappresentativa con la diretta e permanente partecipazione popolare al governo della cosa pubblica? Non c’è bisogno di star troppo a spremerci le meningi: «formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto». La creazione di un pensiero unico.
«È una rivoluzione prima culturale che tecnologica, per questo, spesso, non viene capita o viene banalizzata»: si tratta di «un progetto politico» che va al di là dalla «sola soluzione di problemi contingenti». Il fine? «Il cittadino deve diventare istituzione». Come? «Web e realtà sono destinati a fondersi» in una «realtà aumentata» che probabilmente solleverà l’individuo dalla seccatura di avere opinioni personali e dunque potenzialmente erronee: un’«aggregazione di intelligenze a livello planetario» lo trasformerà in un neurone che pulsa in un enorme cervellone. Per chi adora le costruzioni paranoiche, non c’è dubbio, può risultare estremamente eccitante. Certo, occorre fare i conti con la realtà diminuita in cui viviamo, ma «si tratta in ogni caso di un periodo transitorio, nel tempo la maggioranza assoluta degli italiani sarà collegata in Rete», «Internet diventerà come l’aria» e sarà impossibile vivere in apnea.
Sarà che siamo degli inguaribili romanticoni affezionati al nostro caro vecchio «legno storto». Sarà che per le esperienze passate ci caghiamo sotto ogni volta che un tizio ci assicura che si può e si deve piallarlo fino a farlo diventare dritto. Insomma, sarà per quel maledetto verme liberale che ci vive dentro, ma ci chiediamo, come d’altronde se lo chiede pure Gianroberto Casaleggio, se si possa «prevederne gli effetti sulla società». La sua risposta è che «possono essere positivi, ma anche negativi», perché «la Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore». Però si dichiara «fiducioso». Molto incoraggiante, senza dubbio.
A parte È in questa intervista che per la prima volta viene chiesto a Gianroberto Casaleggio quale relazione ci sia tra la sua data di nascita, il 14 agosto 1954, e quella che nel suo video Gaia indica come quella della nascita del governo mondiale, immaginata il 14 agosto 2054. È una domanda che personalmente mi stava molto a cuore, perché sono stato il primo a segnalare la strana coincidenza con un post che ha avuto a tutt’oggi 9.644 accessi diretti. Bene, Gianroberto Casaleggio risponde che si è trattato di «un gioco, come è stato un gioco la creazione del video». E qui occorre rammentare quanto ha scritto il padre della psicoanalisi: «Il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale» (Der Dichter und das Phantasieren, 1908).
Ordunque, cos’è la «democrazia digitale»? «La forma di democrazia diretta in cui vengono utilizzate le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle consultazioni popolari», come recita Wikipedia? No, per Gianroberto Casaleggio, «non è relativa soltanto alle consultazioni popolari». E allora sarà il caso di ridefinire il concetto di democrazia diretta. Non è una forma di governo? Nei modi in cui si attua sarà diversa da tutte le altre, ma al pari di ogni forma di governo non ha per fine il governo degli uomini e delle cose? Oltre a quella della consultazione popolare, dunque, quale altra funzione è data alla democrazia digitale? In altri termini: quale altro fine vuole avere di là dal farsi mezzo per superare la democrazia rappresentativa con la diretta e permanente partecipazione popolare al governo della cosa pubblica? Non c’è bisogno di star troppo a spremerci le meningi: «formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto». La creazione di un pensiero unico.
«È una rivoluzione prima culturale che tecnologica, per questo, spesso, non viene capita o viene banalizzata»: si tratta di «un progetto politico» che va al di là dalla «sola soluzione di problemi contingenti». Il fine? «Il cittadino deve diventare istituzione». Come? «Web e realtà sono destinati a fondersi» in una «realtà aumentata» che probabilmente solleverà l’individuo dalla seccatura di avere opinioni personali e dunque potenzialmente erronee: un’«aggregazione di intelligenze a livello planetario» lo trasformerà in un neurone che pulsa in un enorme cervellone. Per chi adora le costruzioni paranoiche, non c’è dubbio, può risultare estremamente eccitante. Certo, occorre fare i conti con la realtà diminuita in cui viviamo, ma «si tratta in ogni caso di un periodo transitorio, nel tempo la maggioranza assoluta degli italiani sarà collegata in Rete», «Internet diventerà come l’aria» e sarà impossibile vivere in apnea.
Sarà che siamo degli inguaribili romanticoni affezionati al nostro caro vecchio «legno storto». Sarà che per le esperienze passate ci caghiamo sotto ogni volta che un tizio ci assicura che si può e si deve piallarlo fino a farlo diventare dritto. Insomma, sarà per quel maledetto verme liberale che ci vive dentro, ma ci chiediamo, come d’altronde se lo chiede pure Gianroberto Casaleggio, se si possa «prevederne gli effetti sulla società». La sua risposta è che «possono essere positivi, ma anche negativi», perché «la Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore». Però si dichiara «fiducioso». Molto incoraggiante, senza dubbio.
A parte È in questa intervista che per la prima volta viene chiesto a Gianroberto Casaleggio quale relazione ci sia tra la sua data di nascita, il 14 agosto 1954, e quella che nel suo video Gaia indica come quella della nascita del governo mondiale, immaginata il 14 agosto 2054. È una domanda che personalmente mi stava molto a cuore, perché sono stato il primo a segnalare la strana coincidenza con un post che ha avuto a tutt’oggi 9.644 accessi diretti. Bene, Gianroberto Casaleggio risponde che si è trattato di «un gioco, come è stato un gioco la creazione del video». E qui occorre rammentare quanto ha scritto il padre della psicoanalisi: «Il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale» (Der Dichter und das Phantasieren, 1908).
mercoledì 19 giugno 2013
Antipartiti
È stata
un’intervista all’autore (la Repubblica, 26.4.2013) a farmi acquistare Antipartiti (Donzelli, 2013) di
Salvatore Lupo. Non ne sono pentito, perché in fondo si tratta di una svelta storia d’Italia
dal secondo dopoguerra ad oggi, tutto sommato seria e onesta, ma resto un po’
deluso per ciò che mi aspettavo da quanto prometteva il sottotitolo: Il mito
della nuova politica nella storia della repubblica (prima, seconda e terza). In
realtà, nel volume non ho trovato traccia di una tesi sulla mitogenesi, né di una
analisi della mitopoietica. Anzi, a onor del vero, quello della nuova politica appare in queste pagine come conato di vomito che si risolve in rutto. E tuttavia rimane un libro utile – almeno per me lo
è stato – a far forte la convinzione, in chi l’abbia, che gli ultimi sessant’anni di storia
italiana siano stati una galleria di perdenti che non avevano uno straccio di progetto.
L’affresco meriterebbe come titolo: Tragedia del tatticismo.
martedì 18 giugno 2013
[...]
Resto
assai perplesso nell’apprendere che la Cassazione ha confermato la condanna di
un giornalista ritenuto colpevole di essersi fatto «concausa della lesione dell’altrui
onore e reputazione», addebitata a chi intervistava, col rivolgergli domande «allusive,
suggestive e provocatorie», e il fatto che la parte lesa sia un magistrato dà
alla perplessità ragione di un mezzo sospetto. Poi c’è che il giornalista
condannato mi è assai simpatico… Insomma, mi metto alla ricerca di quell’intervista.
L’intenzione è quella di buttar giù un’arringa fuori tempo massimo cercando di
dimostrare che la sentenza è un attentato alla libertà di stampa. Conto, se possibile,
di lasciarmi andare all’allusiva, suggestiva e provocatoria insinuazione che la
sentenza è prova di un’odiosa autodifesa degli interessi della casta dei
magistrati.
Da subito, però, sbatto contro un muro: la data di pubblicazione
dell’intervista (3 novembre 1997) corrisponde a un giorno della settimana (lunedì)
in cui a quei tempi il giornale non era in edicola.
È possibile si tratti di un refuso, ma la cosa strana è che riesco a trovare sul numero del 28 aprile 2003 di quel giornale un estratto della sentenza di condanna nella quale vi è testuale riferimento alla pubblicazione dell’intervista in data
«3.11.97».
Possibile che anche qui ci sia un refuso? Non lo escludo, d’altronde lo è pure quel «n. 44» cui fa riferimento il testo (quello di sabato 1 novembre 1997 è il n. 216 e il n. 217 è quello del martedì successivo). Non ho che da tentare di dare una data certa al refuso: può darsi sia sbagliato
l’anno (può darsi si tratti del 1998 o del 1999), o che sia sbagliato il mese (può darsi che quell’«11» sia un «II»)... Niente, anche valutando le ipotesi meno verosimili, non riesco a trovare l’intervista. Poi, però, rammento che il giornale in questione ha mandato in edicola in tre occasioni (2002, 2006 e 2010) la raccolta integrale delle annate in dvd-rom corredati di un motore di ricerca interno. Effettuo su tutti e tre i dischetti la ricerca per autore (Marcenaro) e per titolo («Borrelli e i suoi amici, giudici e parti in causa, lavano le offese con un mucchio di bigliettoni»). Anche così non riesco a trovare
l’intervista. Provo allora a usare come chiave di ricerca
«Vaccarella»,
«mucchio», «bigliettoni»... Niente,
l’intervista non riesce a saltar fuori da nessuno dei tre dischetti.
Sto per lasciar perdere la ricerca, risolvendomi a due righe di solidarietà al posto della difesa argomentata, quando del tutto casualmente faccio una scoperta che mi lascia interdetto: al dischetto del 2010 mancano degli articoli che sono presenti su quelli del 2002 e del 2006.
In tutti i casi si tratta di articoli sui magistrati della Procura di Milano. Perché sono scomparsi? Non so darmi una risposta certa, e non voglio neppure provare a darmene una. So solo che mi è passata la voglia di esprimere solidarità a Marcenaro e a Il Foglio.
domenica 16 giugno 2013
La scienza della storia
Quello
riprodotto qui sopra è lo schema che riassume i risultati di un sondaggio, «per
nulla scientifico» e dallo «scopo sostanzialmente ludico», che qualche mese fa,
ponendo una domanda «volutamente aperta e ambigua», Ivo Silvestro ha proposto
ai suoi lettori (Che cosa è la scienza - L’estinto, 19.4.2013)
per saggiare il grado di scientificità percepita di quelle discipline
che per convenzione sostanzialmente unanime sul piano pratico, ancorché
altamente problematica su quello teorico, costituiscono l’articolazione del
sapere umano per ambiti di interesse che trovano separazione solo nella artificiale, non di rado artificiosa, fissità dei loro statuti, senza neppure riuscire a conservarla sempre.
Non intendo entrare nel merito delle considerazioni che Ivo Silvestro trae da questi risultati, ma tengo a precisare che in gran parte non le condivido, riservandomi di tornarci sopra in altra occasione per argomentare il mio dissenso relativamente a due o tre affermazioni che ritengo temerarie («dubito fortemente che esista un metodo scientifico», «la filosofia è una scienza», «la medicina non è una scienza», ecc.): qui mi limiterò a considerare i risultati per la sola voce Storia, una di quella che appartengono al gruppo delle «discipline scientifiche ma non troppo» (insieme a Linguistica, Sociologia e Psicologia). Per poco più della metà dei partecipanti al sondaggio, infatti, la Storia è «per nulla scientifica» (20,83%) o «poco scientifica» (31,25%); col 25% di chi la considera «né scientifica, né non scientifica» (che faccio gran fatica a distinguere dal gruppo che per risposta ha dato «poco scientifica») si arriva al 75% di giudizi che le negano scientificità, pienamente riconosciutale solo nel 6,25% dei casi.
Ritengo che questi dati fotografino assai fedelmente l’opinione corrente, almeno qui in Italia. E penso che anche qui siamo dinanzi ad uno dei più deleteri effetti che la filosofia di Benedetto Croce ha causato all’Italia, «un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome» (Armando Massarenti - La Lettura, 25.12.2011). Ma prima di passare a verificare quanto questo valga anche per la storia, cui tanti negano lo statuto di scienza, vorrei precisare:
(1) L’espressione «scientificità percepita» che ho usato all’inizio di questo post non è di Ivo Silvestro, ma mia: penso non tradisca il senso che intendeva dare al suo sondaggio, ma, giacché di qui in poi la userò ancora, è opportuno che chiarisca il senso che qui le darò io, e che in buona sostanza farà riferimento al pregiudizio che trova radice nella teoria che Benedetto Croce espone ne La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893).
(2) Cercherò di evitare ambiguità di termini che possano esser fonte di controversia, e da subito faccio presente che per «scienza» e «storia» varranno esclusivamente le definizioni convenzionalmente date ai lemmi in prima accezione. Così, per «scienza», indicherò esclusivamente quel genere di disciplina fondata sull’osservazione, l’esperienza e il calcolo, e che si pone per oggetto la natura e/o l’essere vivente, avvalendosi di un metodo codificato e di un linguaggio formalizzato; per «storia», invece, farò esclusivo riferimento a quel complesso di azioni umane e di fatti ad essi conseguenti così come ordinate nel corso del tempo. Eviterò, dunque, nel primo caso, di affrontare la questione del metodo scientifico e, nel secondo, di entrare nel merito della natura del nesso causale tra azioni e tra fatti.
(3) Fin da subito mi pare corretto far presente a chi legge questi appunti che essi sono in stretta continuità con la polemica anticrociana più volte ripresa su queste pagine (cfr. Quanto rimane di Benedetto Croce, Un cane morto, Spirito con la minuscola, ecc.) e che in buona sostanza è polemica contro l’idealismo.
All’opera filosofica di Benedetto Croce resta un valore esclusivamente documentario, come uno dei vicoli ciechi in cui si è infilato il pensiero hegeliano. Chi ignori il clima culturale in cui il sistema crociano acquistò autorevolezza non può che rimanere sbalordito, oggi, nel leggere le proposizioni sulle quali regge, e chiedersi come sia stato possibile che tali astruse corbellerie, per oltre mezzo secolo, abbiano goduto dignità di assunto. Nulla rimane in piedi della costruzione crociana, ma i detriti trascinati a valle dall’onda gramsciana che la distrusse sono ancora rinvenibili negli strati profondi del senso comune, e qui e lì affiorano. Così, è molto probabile che, tra quanti affermano che la storia non è disciplina scientifica, siano pochissimi a conoscere la teoria crociana secondo la quale «la storia deve essere arte, perché la scienza è dell’astratto, [mentre al contrario] la storia è, come l’arte, del concreto»: strabuzzerebbero gli occhi dinanzi a una affermazione del genere, ma in buona sostanza si può dire che, pur senza averne coscienza, l’accolgano (basta forzare un poco il lessico crociano, mettendo «mestiere» al posto di «arte», e può essere fatta passare).
Per Benedetto Croce la relazione tra l’azione e la conoscenza del passato sta tutta e solo nel carattere simbolico della narrazione: la storia è Spirito che si fa Idea, e scriverne significa rappresentarla, darle una forma che consenta di identificarla come essenza della Verità. Di qui l’attinenza della storia alla sfera dell’arte, mentre la scienza, che sarebbe fredda astrazione, non può che dare la muta osservazione dello svolgimento dei fatti.
Non intendo entrare nel merito delle considerazioni che Ivo Silvestro trae da questi risultati, ma tengo a precisare che in gran parte non le condivido, riservandomi di tornarci sopra in altra occasione per argomentare il mio dissenso relativamente a due o tre affermazioni che ritengo temerarie («dubito fortemente che esista un metodo scientifico», «la filosofia è una scienza», «la medicina non è una scienza», ecc.): qui mi limiterò a considerare i risultati per la sola voce Storia, una di quella che appartengono al gruppo delle «discipline scientifiche ma non troppo» (insieme a Linguistica, Sociologia e Psicologia). Per poco più della metà dei partecipanti al sondaggio, infatti, la Storia è «per nulla scientifica» (20,83%) o «poco scientifica» (31,25%); col 25% di chi la considera «né scientifica, né non scientifica» (che faccio gran fatica a distinguere dal gruppo che per risposta ha dato «poco scientifica») si arriva al 75% di giudizi che le negano scientificità, pienamente riconosciutale solo nel 6,25% dei casi.
Ritengo che questi dati fotografino assai fedelmente l’opinione corrente, almeno qui in Italia. E penso che anche qui siamo dinanzi ad uno dei più deleteri effetti che la filosofia di Benedetto Croce ha causato all’Italia, «un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome» (Armando Massarenti - La Lettura, 25.12.2011). Ma prima di passare a verificare quanto questo valga anche per la storia, cui tanti negano lo statuto di scienza, vorrei precisare:
(1) L’espressione «scientificità percepita» che ho usato all’inizio di questo post non è di Ivo Silvestro, ma mia: penso non tradisca il senso che intendeva dare al suo sondaggio, ma, giacché di qui in poi la userò ancora, è opportuno che chiarisca il senso che qui le darò io, e che in buona sostanza farà riferimento al pregiudizio che trova radice nella teoria che Benedetto Croce espone ne La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893).
(2) Cercherò di evitare ambiguità di termini che possano esser fonte di controversia, e da subito faccio presente che per «scienza» e «storia» varranno esclusivamente le definizioni convenzionalmente date ai lemmi in prima accezione. Così, per «scienza», indicherò esclusivamente quel genere di disciplina fondata sull’osservazione, l’esperienza e il calcolo, e che si pone per oggetto la natura e/o l’essere vivente, avvalendosi di un metodo codificato e di un linguaggio formalizzato; per «storia», invece, farò esclusivo riferimento a quel complesso di azioni umane e di fatti ad essi conseguenti così come ordinate nel corso del tempo. Eviterò, dunque, nel primo caso, di affrontare la questione del metodo scientifico e, nel secondo, di entrare nel merito della natura del nesso causale tra azioni e tra fatti.
(3) Fin da subito mi pare corretto far presente a chi legge questi appunti che essi sono in stretta continuità con la polemica anticrociana più volte ripresa su queste pagine (cfr. Quanto rimane di Benedetto Croce, Un cane morto, Spirito con la minuscola, ecc.) e che in buona sostanza è polemica contro l’idealismo.
All’opera filosofica di Benedetto Croce resta un valore esclusivamente documentario, come uno dei vicoli ciechi in cui si è infilato il pensiero hegeliano. Chi ignori il clima culturale in cui il sistema crociano acquistò autorevolezza non può che rimanere sbalordito, oggi, nel leggere le proposizioni sulle quali regge, e chiedersi come sia stato possibile che tali astruse corbellerie, per oltre mezzo secolo, abbiano goduto dignità di assunto. Nulla rimane in piedi della costruzione crociana, ma i detriti trascinati a valle dall’onda gramsciana che la distrusse sono ancora rinvenibili negli strati profondi del senso comune, e qui e lì affiorano. Così, è molto probabile che, tra quanti affermano che la storia non è disciplina scientifica, siano pochissimi a conoscere la teoria crociana secondo la quale «la storia deve essere arte, perché la scienza è dell’astratto, [mentre al contrario] la storia è, come l’arte, del concreto»: strabuzzerebbero gli occhi dinanzi a una affermazione del genere, ma in buona sostanza si può dire che, pur senza averne coscienza, l’accolgano (basta forzare un poco il lessico crociano, mettendo «mestiere» al posto di «arte», e può essere fatta passare).
Per Benedetto Croce la relazione tra l’azione e la conoscenza del passato sta tutta e solo nel carattere simbolico della narrazione: la storia è Spirito che si fa Idea, e scriverne significa rappresentarla, darle una forma che consenta di identificarla come essenza della Verità. Di qui l’attinenza della storia alla sfera dell’arte, mentre la scienza, che sarebbe fredda astrazione, non può che dare la muta osservazione dello svolgimento dei fatti.
Ecco, allora, il punto notevole
della questione che oggi ritorna ribaltato nell’opinione prevalente tra i partecipanti al
sondaggio di Ivo Silvestro: Benedetto Croce intende dare una specifica dignità
alla storia e, nel negarle lo statuto di scienza, la eleva; nel negarglielo,
oggi che la scienza si è liberata dal pregiudizio crociano, l’effetto è
contrario.
Non è difficile capire cosa ne consegua: se, per Benedetto Croce, la
sequela dei fatti è mera cronaca e nulla ha a che fare con la storia, che invece
è racconto trasfigurato e intellettualizzato dell’Idea che è ipostasi dello
Spirito, per chi oggi alla storia nega statuto di scienza i fatti stanno a
disposizione dell’interpretazione, e dunque sono variabili mobili di un lavoro
che si riduce a continua revisione. In entrambi i casi siamo dinanzi ad una
concezione della storia come rappresentazione della Verità, ma in Benedetto
Croce non si è ancora rotto il vincolo che fa della realtà l’immanentizzazione
di una trascendenza. Mi pare sia il modo più nefasto di continuare a far danni dopo esser morto e dimenticato.
[segue]
venerdì 14 giugno 2013
giovedì 13 giugno 2013
«Ce ne andremo»
Il
caso esplose per un’affermazione fatta da @ferrarailgrasso nel corso di una
trasmissione diretta da @ementana: «La mafia – aveva detto – è l’essenza della
Sicilia». Il primo fu subito fatto oggetto di commenti assai risentiti, e
qualcuno arrivò agli insulti, che in breve piovvero anche sul secondo, per
averglielo lasciato dire, e per aver preso le sue difese. Mentre @ferrarailgrasso prendeva a gongolare, @ementana lamentava: «Il numero di tizi che si esaltano a
offendere su Twitter è in continua crescita». E aggiungeva: «Calmi, tra poco ce
ne andremo, così v’insulterete tra di voi». E così fu, perché nel rapido
volgere di una mezz’ora decise di dare «un saluto finale a tutti», e qualche
giorno dopo chiuse l’account. Una perdita che lasciò un vuoto enorme, ci sono follower che ancora non sanno darsi pace.
Non mi era chiaro chi fosse il «noi» di quel «ce ne andremo», avevo solo una mezza idea. Non era un plurale majestatis, innanzitutto. E non significava «io e @ferrarailgrasso», d’altronde sarebbe stato fuori luogo esprimersi anche a suo nome per una decisione tutto sommato impegnativa sul piano personale. No, il «noi» significava «noi vip», «noi che, pur avendo occasioni privilegiate per esprimere opinioni e potendo fare a meno di porci il problema se e quanto siano condivise, non ci sottraiamo al confronto con chi vuole interloquire, fosse pure per sollevare obiezioni». Era solo un’ipotesi, ripeto, e non avevo elementi significativi per supportarla. E tuttavia quel «ce ne andremo» non suggeriva un dolente ritrarsi come per la cocente delusione data da una dura prova di immeritata ingratitudine? Mi sembrava di sentirci dentro un «così ingenerosamente ci ripaghi, o volgo, della confidenza che ti abbiamo concesso?».
Il volgo, si sa, è carogna e oggi potrebbe chiedergli coerenza: «Dopo la camionata di merda che ieri sera Giuliano Ferrara ti ha scaricato addosso, lascerai pure la tv? O ti limiterai a non condurre più talk show? O almeno eviterai di invitare Giuliano Ferrara nelle trasmissioni che condurrai di qui in poi?». Sarà carogna, il volgo, ma ha pure poco sale in zucca. D’altronde, in tutte le occasioni che poco più di un mese fa gli furono offerte per spiegare le ragioni della decisione di abbandonare Twitter, Enrico Mentana non disse che non erano stati gli insulti in sé a ferirlo, ma il fatto che in gran parte fossero anonimi? Non era vero, perché la gran parte dei follower che lo avevano fatto oggetto di insolenze e di offese non avevano twittato celandosi dietro un nickname, e comunque già allora non sembrava affatto una spiegazione convincente, perché per risalire al nome e al cognome di chi ti insulta sul web, vere o false che siano le generalità dichiarate, ci vuole poco o niente, basta volerlo. Basta volerlo e puoi bloccarlo.
Adesso, però, nella certezza che quanto è accaduto ieri sera non lo spingerà ad alcuna decisione fatale come quella di un mese fa, è finalmente chiaro cosa intendesse, allora, per anonimato e quale linea marcasse rispetto al volgo: l’anonimo, per Enrico Mentana, non è il tizio del quale non puoi sapere nome e cognome, ma il tizio il cui nome e cognome non hanno alcuna notorietà, il tizio qualsiasi.
Concludendo, quel «tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi», sottintendeva: «ce ne andremo dove gli insulti sono tollerabili perché scambiati tra pari». L’intollerabile è che lo stesso insulto che ti rivolge Giuliano Ferrara ti sia rivolto da uno qualsiasi. E qui, allora, occorre sollevare una questione un po’ più generale.
Ma un vip che twitta (che ha un blog aperto a commenti, che apre una pagina su Facebook, ecc.) – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web?
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato – chissà perché, poi, così spesso dietro un nickname – e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non twitta per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, anche a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.
Ma la conferma che il vip frequenta i social network per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo proprio in Enrico Mentana (Corriere della Sera, 12.5.2013). «Leggersi e scriversi tra amici e colleghi» non gli bastava. Comunicare a «sconosciuti senza volto» gli dava un senso di «solitudine». In Twitter trovava «uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione», che gli ha dato modo di incontrare «tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare». Poi, all’improvviso, ha scoperto che ci sono pure quelli che «lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro», vili che si nascondono dietro «lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie», «minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire», che quasi sempre è un vip, perché, «come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, “in realtà l’insultatore vuole vivere della luce riflessa dell’insultato”».
Tutto vero, probabilmente. Anzi, diciamo che è tutto vero e basta, senza il probabilmente. Diciamo pure che è tutto vero e non è affatto bello. Aggiungiamo pure che chiunque si senta offeso può denunciare l’offesa. Ma il vittimismo, come di chi lamenti un torto che non ferisce la dignità di una persona ma l’autorevolezza di un personaggio, anzi, più la seconda che la prima, ritengo sia altrettanto intollerabile. Chi ha una torre d’avorio vi stia rintanato e si limiti a sguinzagliare i mastini se qualche scostumato lancia i sassi contro le finestre. Se decide di uscire per fare due passi, sappia che a tutela delle offese alla sua persona non ha, né può pretendere, nient’altro che la legge uguale per tutti.
Non mi era chiaro chi fosse il «noi» di quel «ce ne andremo», avevo solo una mezza idea. Non era un plurale majestatis, innanzitutto. E non significava «io e @ferrarailgrasso», d’altronde sarebbe stato fuori luogo esprimersi anche a suo nome per una decisione tutto sommato impegnativa sul piano personale. No, il «noi» significava «noi vip», «noi che, pur avendo occasioni privilegiate per esprimere opinioni e potendo fare a meno di porci il problema se e quanto siano condivise, non ci sottraiamo al confronto con chi vuole interloquire, fosse pure per sollevare obiezioni». Era solo un’ipotesi, ripeto, e non avevo elementi significativi per supportarla. E tuttavia quel «ce ne andremo» non suggeriva un dolente ritrarsi come per la cocente delusione data da una dura prova di immeritata ingratitudine? Mi sembrava di sentirci dentro un «così ingenerosamente ci ripaghi, o volgo, della confidenza che ti abbiamo concesso?».
Il volgo, si sa, è carogna e oggi potrebbe chiedergli coerenza: «Dopo la camionata di merda che ieri sera Giuliano Ferrara ti ha scaricato addosso, lascerai pure la tv? O ti limiterai a non condurre più talk show? O almeno eviterai di invitare Giuliano Ferrara nelle trasmissioni che condurrai di qui in poi?». Sarà carogna, il volgo, ma ha pure poco sale in zucca. D’altronde, in tutte le occasioni che poco più di un mese fa gli furono offerte per spiegare le ragioni della decisione di abbandonare Twitter, Enrico Mentana non disse che non erano stati gli insulti in sé a ferirlo, ma il fatto che in gran parte fossero anonimi? Non era vero, perché la gran parte dei follower che lo avevano fatto oggetto di insolenze e di offese non avevano twittato celandosi dietro un nickname, e comunque già allora non sembrava affatto una spiegazione convincente, perché per risalire al nome e al cognome di chi ti insulta sul web, vere o false che siano le generalità dichiarate, ci vuole poco o niente, basta volerlo. Basta volerlo e puoi bloccarlo.
Adesso, però, nella certezza che quanto è accaduto ieri sera non lo spingerà ad alcuna decisione fatale come quella di un mese fa, è finalmente chiaro cosa intendesse, allora, per anonimato e quale linea marcasse rispetto al volgo: l’anonimo, per Enrico Mentana, non è il tizio del quale non puoi sapere nome e cognome, ma il tizio il cui nome e cognome non hanno alcuna notorietà, il tizio qualsiasi.
Concludendo, quel «tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi», sottintendeva: «ce ne andremo dove gli insulti sono tollerabili perché scambiati tra pari». L’intollerabile è che lo stesso insulto che ti rivolge Giuliano Ferrara ti sia rivolto da uno qualsiasi. E qui, allora, occorre sollevare una questione un po’ più generale.
Ma un vip che twitta (che ha un blog aperto a commenti, che apre una pagina su Facebook, ecc.) – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web?
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato – chissà perché, poi, così spesso dietro un nickname – e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non twitta per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, anche a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.
Ma la conferma che il vip frequenta i social network per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo proprio in Enrico Mentana (Corriere della Sera, 12.5.2013). «Leggersi e scriversi tra amici e colleghi» non gli bastava. Comunicare a «sconosciuti senza volto» gli dava un senso di «solitudine». In Twitter trovava «uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione», che gli ha dato modo di incontrare «tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare». Poi, all’improvviso, ha scoperto che ci sono pure quelli che «lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro», vili che si nascondono dietro «lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie», «minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire», che quasi sempre è un vip, perché, «come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, “in realtà l’insultatore vuole vivere della luce riflessa dell’insultato”».
Tutto vero, probabilmente. Anzi, diciamo che è tutto vero e basta, senza il probabilmente. Diciamo pure che è tutto vero e non è affatto bello. Aggiungiamo pure che chiunque si senta offeso può denunciare l’offesa. Ma il vittimismo, come di chi lamenti un torto che non ferisce la dignità di una persona ma l’autorevolezza di un personaggio, anzi, più la seconda che la prima, ritengo sia altrettanto intollerabile. Chi ha una torre d’avorio vi stia rintanato e si limiti a sguinzagliare i mastini se qualche scostumato lancia i sassi contro le finestre. Se decide di uscire per fare due passi, sappia che a tutela delle offese alla sua persona non ha, né può pretendere, nient’altro che la legge uguale per tutti.
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