mercoledì 14 maggio 2014
martedì 13 maggio 2014
«boko haram»
«…
la presente per pregarla a fare tutto quello che può
affine di allontanare un
altro flagello, e cioè una legge progettata,
per quanto si dice relativa alla
istruzione obbligatoria…»
Pio
IX, Lettera a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870
«…
la libertà di insegnamento è la cosa più empia del mondo…»
Leone
XIII, Libertas, 20 giugno 1870
«…
quella scuola che si chiama per somma ingiuria neutra o laica,
ma che non è altro
che tirannide prepotente di una setta tenebrosa…»
Pio
X, Editae saepe, 26 maggio 1910
Pare
che «boko haram» significhi «no all’educazione occidentale». Se con «educazione
occidentale» s’intende scuola dell’obbligo, istruzione laica e libertà d’insegnamento,
probabilmente «boko haram» è la versione un tantinello esagerata di roba già
vista.
Tutto sommato, un soffio
L’editoriale
che apre l’ultimo numero de Le Scienze (n. 549, maggio 2014 – pag. 7) non
riesce a dissimulare un più che comprensibile entusiasmo dietro un severo richiamo
alla prudenza: quasi contemporaneamente – scrive Marco Cattaneo – in Europa e
negli Stati Uniti prendono avvio due poderosi programmi di ricerca che, pur con
approcci diversi, sono complementari e promettono, anche se non in tempi brevi,
di offrirci la piena conoscenza dei meccanismi cerebrali che generano il
pensiero e la coscienza; potrebbero volerci venti, trenta, cinquant’anni, e l’esito
è tutt’altro che scontato, ma «in realtà – e qui il fervore prende il
sopravvento – è solo questione di tempo».
Qualche
mese fa, su queste pagine, esprimevo analogo concetto, ma senza troppe carinerie: «Verrà
giorno – scrivevo – che la neurologia prenderà a calci in culo la metafisica»,
ma, nell’aggiungere che «fino ad allora dovremo pazientare come l’uomo
pazientava nella scimmia», usavo un «noi» diacronico e diatopico che, anche senza troppa applicazione, è riconoscibilmente un maledetto vizio
d’astrazione. Marco Cattaneo evita un tal genere di infortunio e risolve la
questione facendo cenno a quel «patto tra generazioni che, in fondo, è una
delle peculiarità che ci rende umani». Molto bello, devo dire. Per di più, è
soluzione lessicale che dà al «pazientare» una dimensione lirica, perfino epica.
Le
generazioni – dovremmo usarle come unità di misura per esser fieri del cammino fatto,
dovremmo usarle al posto dei decenni, per riuscire a pazientare meglio, senza lasciarci andare così spesso a tanto scoramento. La specie umana ha
un’età che approssimativamente è di mezzo milione d’anni: calcolando che fino a
poco tempo fa ci si riproduceva intorno ai vent’anni, non siamo vecchi più di
venticinquemila generazioni o giù di lì. Appena cinque o sei generazioni ci separano
da Porta Pia, non più di una trentina dalla scoperta dell’America, poco più di cento
dall’eruzione che seppellì Pompei, e poco più di duecentocinquanta dalla prima
forma di scrittura, in attesa della quale hanno pazientato
ventiquattromilasettecentoedispari generazioni, e senza mugugnare.
Una
o due generazioni, dunque, ci separano dal poter prendere a calci in culo la
metafisica: pazientare
– tutto sommato, un soffio.
Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo / 2
Dopo
aver chiarito la natura dell’ineluttabile che destinava l’Italia a darsi una
legge sul divorzio, sarebbe necessario un secondo paragrafo sui fattori che lo ritardarono.
Essi, tuttavia, sono già tutti noti in sede di analisi storiografica e
sociologica, quasi interamente riconducibili alla peculiarità italiana di avere
in Roma una doppia capitale, sicché possiamo risparmiarci di ripetere quello
che è già stato abbondantemente detto.
Riguardo a questo aspetto occorre rilevare
solo un dato che può tornarci utile a spiegare cosa aprì la via all’ineluttabile,
e qui torna utile quanto abbiamo detto nel primo paragrafo sulle più comuni
reazioni a ciò che si sente ineluttabile e in sintesi descrivere la posizione
delle forze in campo come diversamente convergenti al calcolo che dava per
improcrastinabile una legge sul divorzio anche in Italia: chi vi si opponeva
sapendo che sarebbe stato vano (1) o meno (3) neutralizzava le forze di chi era
disposto a lasciar che accadesse cercando di farsene una ragione (2) o di dare
al testo di legge un tratto mite (4), dacché si realizzava sul piano tattico
una spaccatura all’interno della Dc che consentiva ai partitini laici e al Pci
di convergere sulle proposte avanzate dai socialisti in Commissione
parlamentare, per portare all’esame delle Camere un testo sul quale la Dc fu
costretta a piegarsi per evitare che su quella legge si consumasse una esiziale
crisi di governo. Se è vero, dunque, come ricordava Giuliano Ferrara nel suo
editoriale di lunedì 12 maggio, che sul referendum che vi sarebbe stato di lì a
quattro anni il Pci recalcitrò e fece di tutto, fino a quando fu possibile, per
evitarlo, battendosi poi a malavoglia per il no all’abrogazione della legge, è
altrettanto vero che il suo impegno in Commissione e in Parlamento fu decisivo.
Anche da ciò il titolo di questo post: l’ineluttabile prese corpo il 1°
dicembre 1970, mentre il risultato che uscì dalle urne il 14 maggio non fece
che renderlo visibile. Tanto più visibile in quanto trasversalmente accettato, e
più come presa d’atto dei mutamenti avvenuti nella società italiana che come
ulteriore spinta ad essi.
Erasmo ha postato in questi giorni l’editoriale che
uscì sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974 a firma di Pier Paolo Pasolini e
in quella pagina questi elementi di analisi erano già tutti presenti: l’esito
del referendum poteva aver avuto l’effetto di uno shock solo per chi non aveva
capito che già quattro anni prima, col varo della legge, era stato il Parlamento
a dar voce all’ineluttabile, facendosi specchio del paese, forse proprio perciò
incapace di leggerne la faccia. Basta rileggere gli atti della discussione
parlamentare che portò all’approvazione della legge per cogliervi il segno del
fatale: le argomentazioni a favore non facevano che fotografare la realtà,
quelle contrarie si limitavano al richiamo di una tradizione che già da tempo
era smarrita. Perciò, nel quarantennale del referendum che confermò la legge
sul divorzio, sarebbe necessaria una adeguata revisione storica, che proprio nella
celebrazione dell’evento trova il maggiore impedimento.
Basti pensare al peso
spropositato che si è soliti dare ai radicali, che in realtà si limitarono a
strepitare sull’onda sulla quale erano montati: la Lid (Lega italiana per il
divorzio) aveva nella sua presidenza un solo radicale (Mauro Mellini), il testo
della legge portava i nomi di un socialista e di un liberale, nel comitato
referendario per il no all’abrogazione i radicali erano una sparuta minoranza.
Ma di questo, nel dettaglio, al prossimo paragrafo.
[segue]
lunedì 12 maggio 2014
Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo
Quando
in Italia non era ancora possibile divorziare, si poteva già farlo in
Inghilterra, dal 1871, in Svizzera, dal 1874, in Germania, dal 1875, in
Francia, dal 1884, in Portogallo, dal 1910, in Norvegia e Unione Sovietica, dal
1918, in Svezia e in Grecia, dal 1920, in Islanda, dal 1921, in Danimarca, dal
1922, in Turchia, dal 1926, in Finlandia, dal 1929, in Austria, dal 1938, almeno
da vent’anni anche in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, negli Stati Uniti e in
Messico, almeno da dieci anche in Giappone, in Australia, nella quasi totalità
dei paesi del Sudamerica e dell’Est europeo. Quanto era ineluttabile che prima
o poi anche in Italia dovesse diventare possibile?
Superfluo rilevare che l’ineluttabile
sia tale solo a posteriori, mentre a priori è solo una previsione fatta in base
a un certo calcolo. Possiamo, allora, riformulare la domanda in altri termini:
quanto era azzeccato il calcolo di chi pensava fosse ineluttabile che prima o
poi anche in Italia sarebbe stato possibile divorziare? Favorevole o contrario
che fosse, diremmo avesse visto giusto, e tuttavia la sua non era che una
previsione.
Nel caso non si abbiano obiezioni a quanto fin qui detto, ci è
lecito porre un’altra domanda: quali elementi concorrevano alla base di quel
calcolo? Senza dubbio, e in primo luogo, direi vi fosse il constatare che in
gran parte del mondo qualcosa avesse irrevocabilmente messo in discussione il
principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. In secondo luogo, che
quel qualcosa avesse forza destinata, prima o poi, a rimuovere quel principio anche
dalle legislazioni che ancora lo facevano proprio, tra le quali quella italiana.
Ciò che il calcolo dava come ineluttabile, dunque, era la presa d’atto della
raggiunta insostenibilità di un principio fin lì ritenuto sostenibile: calcolo
che dava ineluttabile l’introduzione del divorzio anche in Italia nella presa d’atto
che, anche se in ritardo rispetto a tanti altri paesi, anche qui era entrato in
crisi quel sistema di valori in cui l’indissolubilità del matrimonio era un
pilastro.
Un ulteriore passo nel tentativo di comprendere quanto potesse
essere evidente questa crisi, almeno a chi, favorevole o contrario all’introduzione del
divorzio anche in Italia, azzeccava il calcolo che sarebbe stato ineluttabile, può essere fatto col constatare che al fondo delle opposte argomentazioni tra i favorevoli e i
contrari v’era una questione già risolta a vantaggio dei primi: con l’introduzione
del matrimonio civile il vincolo tra i coniugi era destinato a perdere il
carattere sacramentale per assumere quello contrattuale, con tutto ciò che era
implicito per le immancabili clausole di scioglimento.
In pratica, si
verificava quel che per altri versi sarebbe accaduto, prima, con l’abrogazione
della norma che dichiarava il cattolicesimo «Religione di Stato» e poi, con la
revisione del Concordato del 1984, con l’assunzione del principio, in molto ancora
inapplicato, che tutte le confessioni religiose godono di eguale considerazione
dallo Stato laico. In ciò diremmo che il calcolo che dava come ineluttabile l’introduzione
del divorzio nell’ordinamento legislativo italiano era basato sull’assunto di
un inevitabile processo di secolarizzazione della società.
Ciò detto, occorre
aver presente che l’umano ha a disposizione una ridotta gamma di reazioni a ciò
che sente ineluttabile ma indesiderato, le più comuni delle quali sono (1) l’opporvisi,
anche se sa che è vano, o (2) il lasciar che accada, cercando di farsene una
ragione: reazioni opposte, ma che prendono le mosse da un eguale risultato del
calcolo d’ineluttabilità. Altre due hanno segno diverso, ma manifestano lo
stesso stato d’animo verso quel che solo a posteriori si rivelerà ineluttabile
nei sensi e nei modi previsti da un opposto risultato del calcolo, e sono (3) l’opporvisi,
ritenendo che l’ineluttabile sia evitabile, e che dunque ineluttabile non abbia
ad essere, o (4) lasciar che accada, tentando di dare all’ineluttabile senso e modo
diversi da quelli prospettati dal più pessimistico dei calcoli.
Tutte queste
reazioni sono rintracciabili alla vigilia del varo della legge n. 898 del 1°
dicembre 1970. Quando quattro anni dopo si andrà al referendum che ne propone l’abrogazione
sono già tutte fuori gioco.
Fu la
sensazione dell’ineluttabilità della secolarizzazione della società italiana a
sospingere verso l’approvazione del disegno di legge presentato in parlamento
dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini: il referendum che sarebbe
seguito di lì a quattro anni si sarebbe limitato a rendere evidente che era
trasversale ai partiti politici e maggioritaria.
Per il clima culturale dell’epoca era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 – e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una particolare società quale fu quella basata su una economia interamente contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a prodotto della società, invece che a norme eterne.
Ma era esplicita anche in chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi. Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato. Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche qui immanentizzata.
Per il clima culturale dell’epoca era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 – e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una particolare società quale fu quella basata su una economia interamente contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a prodotto della società, invece che a norme eterne.
Ma era esplicita anche in chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi. Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato. Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche qui immanentizzata.
[segue]
domenica 11 maggio 2014
[...]
Le
motivazioni della sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum lasciano
poche speranze a qualsiasi legge elettorale con clausole di sbarramento, c’è da
supporre sia solo questione di tempo perché la Consulta dichiari l’incostituzionalità
di quelle attualmente vigenti, ora che finalmente c’è qualcuno a sollevare la questione
dell’illiceità di sacrificare la rappresentatività al Moloch della governabilità, un dio che si è mangiato la democrazia cagando stronzoni demagogici. Un Parlamento
da sempre stracolmo di avvocatoni e di avvocaticchi, tutti debolucci in Diritto
Costituzionale.
sabato 10 maggio 2014
Una miserabile storiella
La
vicenda che si è chiusa con l’arresto di Riccardo Viti è stata gonfiata in modo
vergognoso dai mezzi di informazione e un bravo avvocato non incontrerà alcuna
fatica a sgonfiarla dimostrando che si è trattato di un banale omicidio
colposo. Lì probabilmente assisteremo a un’altra vergognosa montatura dei
media, quella che istigherà all’indignazione per una condanna troppo mite per quello
che si è voluto rappresentare come efferato delitto e che in realtà ha tutti i
connotati dell’infortunio incorso durante un setting di extreme.
Innanzitutto,
la donna non è stata «crocifissa»: le sono stati legati i polsi a un palo
metallico con del nastro adesivo.
Il responsabile della sua morte non è un «serial
killer»: in una mezza dozzina di occasioni si è intrattenuto in pratiche di bondage
e insertion con prostitute consenzienti e, prima dell’incidente che ha causato la
morte di Andreea Cristina Zamfir, non si è macchiato d’altra colpa che l’essere
andato un po’ più in là della prestazione pattuita, peraltro solo in due o tre
occasioni, provocando reazioni di vivace diniego dinanzi alle quali è
regolarmente scappato.
Non è vero che la vittima si prostituisse con
regolarità: lo faceva di tanto in tanto per far fronte alle disagiate
condizioni economiche familiari e per mandare qualche euro ai suoi parenti in
Romania, roba che una libertarian come Annalisa Chirico definirebbe «scambio
intrinsecamente morale» e «sublimazione del godimento della propria indipedenza
privata».
Le indagini che hanno portato a sospettare di Riccardo Viti non hanno
nulla di straordinario: qualche tempo fa una prostituta aveva consentito alle
forze dell’ordine l’identificazione di un cliente che aveva oltrepassato i limiti
preliminarmente stabiliti e un inquirente ne ha rammentato il nome collegandolo
al caso sul quale era impegnata la squadra investigativa di cui faceva parte.
Riccardo Viti, d’altronde,
ha confessato subito, offrendo la massima collaborazione. L’abbondanza delle
tracce che ha lasciato dietro di sé avrebbe probabilmente portato comunque alla
sua identificazione, ma allo stesso tempo sono la più eloquente prova che non
avesse l’intenzione di uccidere e che si tratta di un poveretto al quale è andato
storto il giochino, causando la morte di una poveretta.
L’orrore io lo provo solo
a considerare come i media si siano fiondati su questa miserabile storiella a
mesto fine per costruire l’ennesimo mostro. E a come ci si sia fondato sopra lo
Stato – e dico Stato per evitare noie – allo scopo di lucrare un po’ di
prestigio.
giovedì 8 maggio 2014
La responsabilità delle opinioni / 2
Ci
sono recensioni che si sbrigano in quattro e quattr’otto, e questo è il caso del
volume in cui l’autrice teorizza che «prostituirsi è la sublimazione del
godimento della propria indipendenza privata»: parla per te, ragazza.
La responsabilità delle opinioni
Com’era
possibile scrivere una storia delle paranoie di cui certi uomini politici si
servono per costruire «complotti immaginari al fine di mascherare la realtà [e]
occultare le responsabilità personali» (pag. 9), lasciando fuori quella di quel
«piccolo ma pugnace partito ridotto a setta osannante il capo» (pag. 75) che da
decenni è solito «attribuire al complotto dei media i fallimenti delle sue
iniziative politiche» (pag. 68)? E com’era possibile lasciar fuori l’ultima
paranoia, quella che informa la teoria della trattativa Stato-Mafia, senza
affidare il capitolo a chi nella rassegna stampa che tiene quotidianamente a
Radio Radicale da sempre è il suo più acuto critico? Com’era possibile mettere
insieme le due cose senza incresciosi infortuni? La soluzione pare segnata da
un pochino d’ansia, visto che il volume riporta l’avvertenza in capo (pag. 4) e
in coda (pag. 207), ma i due autori sono persone che sanno il fatto loro.
Ottimo libro, lo consiglio a tutti.
mercoledì 7 maggio 2014
[...]
Ciò
che rende straordinario il video di Emily Letts è la grazia con la quale
straccia tutti i più odiosi luoghi comuni che non di rado affliggono anche chi
non è contrario all’interruzione volontaria di gravidanza: la sofferenza fisica
e quella psichica sono in gran parte proiezioni che la donna è costretta ad assumere
per pagare il pizzo del senso di colpa al moralismo che glielo estorce. Più
efficace di una pila di volumi.
Ancora sul farsi prendere la mano
Torno
su quel «farsi prendere la mano» che è il rischio più serio nell’analizzare un’opera
d’arte e stavolta prendo a esempio il celebre autoritratto di Johann Anton
Gumpp, qui sopra riprodotto nelle due versioni realizzate dall’artista, dicendo
che grazie alla seconda, meno nota e parte di una collezione privata, possiamo destituire
d’ogni solidità ciò che è stato detto, anche da voci peraltro autorevoli, sulla
prima, il tondo che è alla Galleria degli Uffizi di Firenze, conosciutissimo.
In primo luogo, è da smentire ciò che entrambe le versioni mostrano in modo
evidente, e cioè che non si tratta di un autoritratto doppio, ma triplo, perché
l’artista ritrae se stesso anche di spalle, quasi a figura intera, tra i due
ritratti a mezzo busto che sono racchiusi nell’ottagono dello specchio sulla
sinistra e nel rettangolo della tela sulla destra; in molte circostante,
tuttavia, troviamo riproduzioni dell’opera a corredo iconografico di scritti che
trattano il tema del Doppio in letteratura, in filosofia o in psicoanalisi,
senza tenere in alcun conto il fatto che in realtà il dipinto non raddoppia ma
triplica il soggetto. In quanto al resto, non starò a riproporre per esteso le
faticose e affaticanti elucubrazioni che l’opera ha sollecitato in quanti hanno
provato a interpretare le più intime intenzioni dell’artista: dirò solo che la
gran parte d’esse s’appunta sulle diverse direzioni cui volgono i due sguardi nella
versione più nota, e che ci danno prova della loro palese insussistenza all’osservazione
della versione meno nota, perché si può dare per scontato, salvo ulteriori e
ancor più faticose e affaticanti elucubrazioni, che le intenzioni dell’artista
non possono essere state diverse nel proporci in due occasioni la stessa scena.
Possibile che Jean-Luc Nancy (Le regard du portrait – Galilée, 2000) e Omar
Calabrese (L’arte dell’autoritratto – La casa Usher 2010) ignorassero l’esistenza
di una seconda versione del quadro, di fatto è proprio questa che sgonfia le
loro affascinanti ipotesi sulla prima. C’è poi un’altra questione, che non è
affatto marginale: è assai probabile che il tondo sia la seconda versione in
ordine cronologico. Non sarebbe il primo caso in cui un’artista decida il
rifacimento di un’opera ritenuta particolarmente riuscita passando da un
formato più comune ad uno che supponga ne esalti il contenuto, e mai come in
questo caso si può ritenere che così sia stato: basti il considerare che il
gatto e il cane raffigurati in entrambe le versioni trovano collocazione meno
forzata nella tela che nel tondo. Le originali intenzioni dell’artista, allora,
dovrebbero essere individuate nella prima versione, e perciò smentire
ulteriormente ciò su di esse si è elucubrato analizzando la seconda.
martedì 6 maggio 2014
Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce / 2
Al
mio lettore assicuravo che mi sarei precipitato al più presto in libreria per
procurami Vita intellettuale e affettiva
di Benedetto Croce di Giancristiano Desiderio (liberilibri, 2014), allo
scopo di rettificare, nel caso, la pessima impressione che ne avevo ricavato
dall’ampia illustrazione datane dall’autore nel corso della presentazione
andata in onda sulle frequenze di Radio Radicale, lo scorso 29 aprile, e che da
subito non rinunciavo a rappresentare su queste pagine in forma di perplessità.
Ogni promessa è debito e qui oggi ne parlo dopo averlo letto.
Peggio di quanto
pensassi, devo dire. Si tratta di un’umidiccia agiografia scritta da uno che
non fa alcun mistero di essere assai devoto alla figura di Benedetto Croce,
devoto al punto di arrivare a definirlo «il
Socrate italiano» (pag. 20). Il fatto è che tanta devozione non riesce a
tappare nemmeno un decimo dei buchi dai quali, ormai da decenni, il mito di
Benedetto Croce fa acqua, e più di un colabrodo. Il povero Giancristiano
Desiderio si affanna a rammentarci che Antonio Gramsci (pag. 18), Norberto
Bobbio (pag. 18), Rudolf Borchardt (pag. 19) e Karl Popper (pag. 27) concessero
a Benedetto Croce qualche cortesia di circostanza, fa i salti mortali nel
tentativo di convincerci che la fumosità e l’astrusità del suo sistema
filosofico non sia stata penetrata ancora a dovere per trovarci dentro tutto il
ben di Dio che cela al nostro occhio pigro (pagg. 35-38, pagg. 44-47) e si fa
il proverbiale culo quadrato per rendercelo simpatico (pagg. 21-24, pagg.
31-35, pagg. 38-41), il fatto è che, anche liquidando la cattiva fama che ebbe
in vita come frutto di malanimo e invidia, non riesce nel compito che s’era prefisso
e, giunti alla fine del suo volume, Benedetto Croce rimane quello che
conoscevamo: né il suo pensiero ci appare più interessante di quanto ci
apparisse prima, né il suo carattere migliore dell’idea che ci eravamo fatti in
precedenza, né la sua vita ci rivela alcunché di nuovo rispetto a quello che
avevamo appreso da quella mezza dozzina di biografie che abbiamo sugli scaffali.
Anzi, giacché Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce si prefiggeva di
mostrarci soprattutto l’uomo, diremmo che, a voler prendere per buone le
spiegazioni che Giancristiano Desiderio ne dà di certi aspetti, nell’immagine
che ce n’eravamo costruito si creano punti oscuri: liquidando quelle che
vengono definite «dicerie […] utilizzate dai critici di Croce nel tentativo
assai maldestro di screditare l’uomo non riuscendo a buttar giù il filosofo» (pag.
78), e che tuttavia lo illuminavano a meraviglia, anche se poi non era un bel
vedere, si creano zone che il tentativo di riaccreditarlo lasciano in ombra. In
tal senso potremmo dire che il libro ottiene il fine opposto a quello che si
proponeva.
È questo il caso dell’argomento affrontato nel terzo capitolo (pagg.
75-105), quello relativo ad Angelina Zampanelli. [Tralascerò in questa sede
ogni commento sul secondo capitolo, quello relativo all’infanzia e al terremoto
di Casamicciola. Qui Giancristiano Desiderio ripete ciò che ha scritto sul
Corriere del Mezzogiorno nella nota polemica tra Marta Herling, nipote di
Benedetto Croce, e Roberto Saviano, sulla questione delle centomila lire che,
sotto le macerie del terremoto, Pasquale Croce avrebbe raccomandato al figlio
di offrire a chi lo soccorresse: esclude possa essere davvero accaduto – si tratterebbe
dell’ennesima «diceria» – perché il filosofo non riportò mai l’episodio nei
suoi scritti. Sulla questione mi sono già intrattenuto in due o tre post,
qualche anno fa, e non annoierò il lettore ripetendomi. Dirò solo che la «diceria»
fu riportata molte volte mentre Benedetto Croce era ancora in vita, su libri, giornali e riviste, e da lui
non ebbe mai smentita, mentre non si contano le volte che prese carta e penna
per correggere chi su di lui ne avesse detta una non gradita o imprecisa.]
Su quello che Giancristiano Desiderio scrive riguardo alla lunga storia d’amore tra Benedetto Croce e Angelina Zampanelli ho già fatto qualche cenno, visto che a Radio Radicale è proprio su quella che egli si è intrattenuto per più tempo. Qui mi limiterò a smentirlo su ciò che egli nega in più occasioni (pag. 78, pag. 86, pag. 93, pag. 94), cioè che Benedetto Croce l’abbia sposata. E comincio con riprodurre l’estratto per riassunto dell’atto di morte di Angelina Zampanelli rilasciato dal Comune di Raiano (AQ). L’ho trovato in un volume che non è citato nella bibliografia che Giancristiano Desiderio allega in coda al suo lavoro (Gennaro Cesaro, Benedetto Croce in pace, in guerra e in amore, Bastogi 2012 – pag. 103), e certifica ufficialmente che la donna fosse «coniugata con il senatore». Si tratta di un documento che senza dubbio è sfuggito a Giancristiano Desiderio, che infatti riferisce come orario della morte di Angelina Zampanelli le «6,45» (pag. 101), mentre l’atto dell’Ufficio dello Stato Civile recita che è spirata alle «6,15».
Qui penso cada bene un inciso. Un biografo non dovrebbe attingere da fonti qualificate? E quali sono le fonti più qualificate per accertare a che ora sia morta una persona e se fosse coniugata o meno? Non risulta, in questo caso, che il biografo di Benedetto Croce abbia fatto ricerche negli archivi del Comune di Raiano. Ma diamo per scontato che Giancristiano Desiderio fosse a corrente di ciò che Gennaro Cesaro ha ritenuto dimostrabile grazie a un documento ufficiale, e diamo per scontato che abbia deliberatamente deciso di non tenerne conto perché riteneva falso il certificato, e chiediamoci: nello smentire la vulgata che tra Angelina Zampanelli e Benedetto Croce vi fosse un vincolo matrimoniale, non avrebbe avuto il dovere di dimostrare la falsità di quell’atto ufficiale? Niente di tutto questo, tutt’altro: nega che fossero sposati; e non sottovaluta che «per l’epoca» (pag. 94) quella convivenza ponesse Angelina Zampanelli in una situazione estremamente imbarazzante; inoltre riferisce che a lungo ella espresse il desiderio di regolarizzare quell’unione, ma «lui le diceva di correre un po’ troppo» (pag. 86), non che alla cosa dovesse rinunciare; per poi concedere che «da tutti era chiamata e indicata come la moglie del filosofo e lei stessa usava chiudere le sue lettere firmandosi Angelina Croce» (pag. 86). Non è chiaro, insomma, su quali basi Giancristiano Desiderio escluda che si sia celebrato un matrimonio tra i due, anche se solo in prossimità della morte della donna. Cioè, un sospetto ce ne suggerisce la ragione: se erano sposati, si solleverebbe la questione del perché Benedetto Croce, ancorché implicitamente, fosse reticente nel dichiararlo prima, quando la donna era ancora in vita, e dopo, quando ormai era morta. La ragione potrebbe essere una sola: quel matrimonio imbarazzava il filosofo, prima e dopo la morte di Angelina Zampanelli, e il suo biografo è imbarazzato nel darci spiegazione di quell’imbarazzo, anche se non può fare a meno di offrircene i motivi: «lui legato alla sfera dell’alta e ricca borghesia, lei di umili origini contadine» (pag. 84) e nata da una relazione illegittima tra un possidente terriero, ucciso per oscuri moventi «in un agguato con ben diciotto colpi di arma da fuoco» (pag. 84), e una «serva» che lavorava in casa sua; forse non era una ballerina, una sciantosa o una cocotte, Angelina Zampanelli, di fatto l’incontro con Benedetto Croce avvenne nel buffet della stazione ferroviaria di Salerno, e quel buffet era gestito da un suo zio, nulla di meno improbabile che lì lavorasse come cameriera… Un egolatra come Benedetto Croce poteva far sapere al mondo intero che si era sposato con una così? L’amava, l’amava molto, su questo possiamo anche evitare di sollevare dubbi. In ogni caso, accanto al filosofo, ella svolse per venti anni l’attività di segretaria.
Su quello che Giancristiano Desiderio scrive riguardo alla lunga storia d’amore tra Benedetto Croce e Angelina Zampanelli ho già fatto qualche cenno, visto che a Radio Radicale è proprio su quella che egli si è intrattenuto per più tempo. Qui mi limiterò a smentirlo su ciò che egli nega in più occasioni (pag. 78, pag. 86, pag. 93, pag. 94), cioè che Benedetto Croce l’abbia sposata. E comincio con riprodurre l’estratto per riassunto dell’atto di morte di Angelina Zampanelli rilasciato dal Comune di Raiano (AQ). L’ho trovato in un volume che non è citato nella bibliografia che Giancristiano Desiderio allega in coda al suo lavoro (Gennaro Cesaro, Benedetto Croce in pace, in guerra e in amore, Bastogi 2012 – pag. 103), e certifica ufficialmente che la donna fosse «coniugata con il senatore». Si tratta di un documento che senza dubbio è sfuggito a Giancristiano Desiderio, che infatti riferisce come orario della morte di Angelina Zampanelli le «6,45» (pag. 101), mentre l’atto dell’Ufficio dello Stato Civile recita che è spirata alle «6,15».
Qui penso cada bene un inciso. Un biografo non dovrebbe attingere da fonti qualificate? E quali sono le fonti più qualificate per accertare a che ora sia morta una persona e se fosse coniugata o meno? Non risulta, in questo caso, che il biografo di Benedetto Croce abbia fatto ricerche negli archivi del Comune di Raiano. Ma diamo per scontato che Giancristiano Desiderio fosse a corrente di ciò che Gennaro Cesaro ha ritenuto dimostrabile grazie a un documento ufficiale, e diamo per scontato che abbia deliberatamente deciso di non tenerne conto perché riteneva falso il certificato, e chiediamoci: nello smentire la vulgata che tra Angelina Zampanelli e Benedetto Croce vi fosse un vincolo matrimoniale, non avrebbe avuto il dovere di dimostrare la falsità di quell’atto ufficiale? Niente di tutto questo, tutt’altro: nega che fossero sposati; e non sottovaluta che «per l’epoca» (pag. 94) quella convivenza ponesse Angelina Zampanelli in una situazione estremamente imbarazzante; inoltre riferisce che a lungo ella espresse il desiderio di regolarizzare quell’unione, ma «lui le diceva di correre un po’ troppo» (pag. 86), non che alla cosa dovesse rinunciare; per poi concedere che «da tutti era chiamata e indicata come la moglie del filosofo e lei stessa usava chiudere le sue lettere firmandosi Angelina Croce» (pag. 86). Non è chiaro, insomma, su quali basi Giancristiano Desiderio escluda che si sia celebrato un matrimonio tra i due, anche se solo in prossimità della morte della donna. Cioè, un sospetto ce ne suggerisce la ragione: se erano sposati, si solleverebbe la questione del perché Benedetto Croce, ancorché implicitamente, fosse reticente nel dichiararlo prima, quando la donna era ancora in vita, e dopo, quando ormai era morta. La ragione potrebbe essere una sola: quel matrimonio imbarazzava il filosofo, prima e dopo la morte di Angelina Zampanelli, e il suo biografo è imbarazzato nel darci spiegazione di quell’imbarazzo, anche se non può fare a meno di offrircene i motivi: «lui legato alla sfera dell’alta e ricca borghesia, lei di umili origini contadine» (pag. 84) e nata da una relazione illegittima tra un possidente terriero, ucciso per oscuri moventi «in un agguato con ben diciotto colpi di arma da fuoco» (pag. 84), e una «serva» che lavorava in casa sua; forse non era una ballerina, una sciantosa o una cocotte, Angelina Zampanelli, di fatto l’incontro con Benedetto Croce avvenne nel buffet della stazione ferroviaria di Salerno, e quel buffet era gestito da un suo zio, nulla di meno improbabile che lì lavorasse come cameriera… Un egolatra come Benedetto Croce poteva far sapere al mondo intero che si era sposato con una così? L’amava, l’amava molto, su questo possiamo anche evitare di sollevare dubbi. In ogni caso, accanto al filosofo, ella svolse per venti anni l’attività di segretaria.
[segue]
Corrispondenze
Caro
Malvino,
penso
ti faccia piacere leggere questa notizia. A me farebbe piacere leggere un tuo
commento, anche se con il tuo post sull’argomento aveva già detto quasi tutto
quello che c’era di dire.
Cordiali saluti,
Roberto Pinzani
E cosa
vuoi che aggiunga al già detto, caro Roberto? Che la Ru486 possa causare guai
solo quando l’assunzione sia per via
vaginale, e comunque solo in rarissimi casi, ormai lo sanno tutti, e nel caso
di Anna M., come in tutti quelli di interruzione della gravidanza espletata fin
qui in Italia col metodo farmacologico, il protocollo prevedeva l’assunzione
per via orale: la Ru486 era fuori discussione da subito. Come è fuori
discussione, ora, che i cosiddetti pro-life (in realtà sarebbe meglio chiamarli
versus-choice) staranno un po’ di silenzio, giusto il necessario per far
dimenticare le cazzate che hanno sparato per l’occasione, tornando alla carica al minino pretesto cui potranno appigliarsi. Ormai è routine e, a dire il vero, fanno pure tanta tenerezza, poveracci, accanirsi su di loro non sarebbe elegante.
lunedì 5 maggio 2014
Abbiamo l’ennesimo stronzetto
Abbiamo
l’ennesimo stronzetto molto fiero di esserlo, e il piacere di fare la sua conoscenza
lo dobbiamo a Giuliano Ferrara, che lo elegge a suo eroe di giornata (Il
Foglio, 5.5.2014). Si chiama Tal Fortgang, studia alla New Rochelle High School
di New York e, a chi gli raccomanda di sottoporre le sue opinioni al vaglio
critico che possa rivelarle come mere difese di un privilegio, risponde: «Già fatto,
il privilegio è pienamente meritato, perché ho avuto nonno che è stato
perseguitato dai nazisti e babbo che ha sgobbato tanto». Un Lapo Elkann in
sedicesimo, insomma, uno di quelli che nel proprio curriculum vitae mettono i
meriti maturati dalla famiglia nel corso delle ultime tre o quattro
generazioni: il trisavolo ha sofferto tanto, ma è come se a soffrire fosse
stato lui, è sangue dello stesso sangue; il nonno ha fatto tanti
sacrifici, ma è come se li avesse fatti lui, è sangue dello stesso
sangue; il padre ha lavorato notte e giorno, ma è sangue dello sangue e dunque è
più che meritato che a diciott’anni giri in Ferrari. Privilegio di sangue, come
per altri versi, un tempo, era quello del titolo nobiliare, il fatto è che lo stronzetto nato
marchesino lo avverte come un merito proprio e a chiedergliene ragione indica lo
stemma. Superfluo dire che ogni stronzetto del genere trova sempre degli stronzoni
che ne lodano la fierezza, e anche in ciò lucrano ciò che non gli spetta: la
lode, infatti, è alla natura cieca e arrogante del privilegio, non al cretino
che lo rivendica.
[...]
Mi
pare che con l’accaduto a margine di Fiorentina-Napoli si sia in presenza dell’ennesimo
trionfo dell’assurdo, specialità in cui da tempo vantiamo l’eccellenza,
offrendo al mondo l’immagine di un paese di merda, ma merda singolare, bizzarra,
stravagante, perfino affascinante se non ci si è ficcati dentro. Tanta
indignazione, innanzitutto. Perché «con i violenti non si tratta». Il che
sarebbe anche sensato, ma non quando ai violenti hai dato modo di avere tutto il
peso che hanno. È a monte che non si dovrebbe trattare con i violenti, perché a
valle, quando hai consentito loro di poter imporre la loro volontà, trattare è
inevitabile, e cedere può addirittura essere necessario, com’è nel caso di
specie: a sospendere Fiorentina-Napoli quasi certamente si sarebbe visto di
peggio, e a scatenarlo sarebbero stato proprio chi ha avuto modo di imporre la
trattativa accreditandosi a pieno titolo come controparte delle forze
dell’ordine. A monte, invece, non mi pare sia mai stato fatto nulla di serio
per evitare che le tifoserie incubassero violenza, anzi è proprio chi oggi
maggiormente si indigna ad essere responsabile di aver consentito –
scientemente o meno, poco importa – che le curve degli stadi di calcio divenissero
vere e proprie discariche in cui sversare le più disparate forme di delinquenza,
quella contigua o perfino organica alla criminalità organizzata, quella attigua
e in gran parte sovrapponibile ad alcune frange di estremismo politico, quella di
un sottoproletariato che ha cercato emancipazione nel teppismo e quella di
psicopatici cui la fede nei colori di una squadra – fede, così la chiamano – ha
dato status di supporter. Così, chi oggi trova in Genny ’a carogna il più comodo
dei capri espiatori è proprio chi ha fatto del calcio una metafora ubiquitaria.
A lamentarsi che un derby possa degenerare in una guerriglia urbana è proprio
chi ne ha sempre drammatizzato fino all’inverosimile il risultato. Chi si duole
che il calcio sia diventato un mostruoso giro di denaro è proprio chi
maggiormente ha contribuito a conferire aura mitologica a semianalfabeti in
mutandoni. La bestia è stata nutrita proprio da chi oggi ne denuncia la
bestialità. Se gli stadi di calcio sono diventate enclavi in cui è sospesa o
derogata ogni disposizione relativa all’ordine pubblico, la colpa è di chi ha
dato al calcio più spazio di quanto ne meritasse.
domenica 4 maggio 2014
Grazia nel disagio
Giusto
sessant’anni fa, il 3 maggio 1954, Leo Longanesi era a Francoforte e sulle
pagine del suo diario annotava quanto gli era capitato quel mattino, intorno
alle nove, nell’anticamera di un fotografo: una signora in vestaglia, prima, e
poi un grosso signore anziano in pigiama, e poi una giovane ragazza in
accappatoio, e poi ancora una signora zoppa molto in là cogli anni, tutti con
un bicchiere, uno spazzolino da denti e un tubetto di dentifricio in mano,
sortivano via via da una tenda di percalle a fiori, d’un lato, per passare ad
una stanza affianco, l’unico bagno dell’appartamento, che aveva cinque vani e nel
quale vivevano otto persone, fra cui il fotografo. È questi che spiega all’ospite
italiano la situazione: «Certo, siamo fitti come le sardelle, ma possiamo dirci
fortunati: c’è chi sta peggio. La noia più grossa è quella del bagno, al
mattino. Ma ognuno di noi ha il suo turno. L’importante è aver grazia nel disagio».
Erano gli anni in cui la Germania usciva dal baratro in cui era precipitata una
decina d’anni prima, ma il Wirtschaftswunder non faceva ancora sentire i suoi
effetti sulle condizioni di vita dei tedeschi, che in gran parte continuavano a
subire le pesanti conseguenze di una guerra persa, e persa nel peggiore dei
modi. Di lì a poco avrebbe preso il via uno dei più poderosi piani di edilizia
civile mai visti sul continente, ma intanto quello degli alloggi era uno dei
problemi più grossi, e l’appartamento in cui Leo Longanesi era capitato quel
mattino ne era esempio eloquente. Quello che maggiormente lo colpiva era che l’andirivieni
per il bagno non solo era ordinato, ma anche dignitoso, e annotava: «Queste
parole mi restano nell’orecchio per tutto il giorno: grazia nel disagio. Vorrei
che a Roma qualcuno le comprendesse».
Questo,
credo, sia l’unico commento possibile al distillato di risentimento nei confronti
della Germania che sta ubriacando la campagna elettorale in corso: nel
bollitore il Wille zur Macht di Nietzsche, il Neue Ordnung di Hitler, perfino
il Faust di Goethe, e dalla serpentina, goccia a goccia, pura germanofobia.
Dovremmo prendere esempio dai tedeschi, in realtà avremmo dovuto farlo per
tempo, ma non ne abbiamo la tempra, mai avuta. Così, a considerare il degrado
in cui anneghiamo, ci torna utile credere che sia l’effetto delle mire egemoniche
che la Germania non avrebbe mai smesso di coltivare. Ieri coi blindati, oggi
coll’euro: questa è la vulgata che ci è stata offerta dai demagoghi di casa
nostra, e sembra torni comoda, nel disagio, a gente che non ha mai mostrato
alcuna grazia neppure nel benessere.
giovedì 1 maggio 2014
Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce
Giorno
di festa, le librerie sono chiuse, non possiamo precipitarci a comprare l’ultimo
volume di Giancristiano Desiderio (Vita intellettuale e affettiva di Benedetto
Croce – liberilibri, 2014), che Radio Radicale ci raccomanda come imperdibile. Lo
faremo domani, senza meno, anzi arriveremo un quarto d’ora prima dell’apertura
per essere sicuri di potercene assicurare una copia prima che vada esaurito, d’intanto
riflettiamo su quanto l’autore ha detto nel corso della trasmissione, e
trasecoliamo, perché di Benedetto Croce ci eravamo fatti un’idea diversa da
quella che questo libro sembra voglia suggerirci, e noi siamo disposti a
ricrederci: ben venga chi abbia argomenti per dimostrarci che non fosse il
mostro di egolatria che emerge dalle molte e molte testimonianze che nel corso
degli anni abbiamo raccolto qua e là, tutte convergenti nel rafforzare in noi
la convinzione che proprio un grave vizio di anaffettività fosse al fondo della
pomposa artificiosità del suo sistema filosofico. E tuttavia da subito, dal
poco che ci ha detto Giancristiano Desiderio nel corso della trasmissione
radiofonica, qualche perplessità ci assale.
Vero è, infatti, che Angelina
Zampanelli abbia vissuto accanto a Benedetto Croce per vent’anni, ma non
solleva alcun dubbio il fatto che egli abbia deciso di sposarla solo in punto di
morte? Il periodo storico era quello in cui la convivenza more uxorio senza contrarre
vincolo matrimoniale faceva della donna una concubina: tanto amore non riuscì a
trovare modo di risolvere una situazione che avrà arrecato senza meno qualche
imbarazzo alla signora? Si potrebbe obiettare che il filosofo fosse allergico al matrimonio,
se non fosse che a pochi mesi dalla morte di Angelina Zampanelli egli si sposa con
Adele Rossi. E basta leggere la lettera datata 16 febbraio 1914 indirizzata
alla cugina Teresa nella quale le annuncia la decisione per aver modo di capire
chi fosse veramente Benedetto Croce.
Collaboratrice e badante, diremmo. Sposabile, a differenza di Angelina Zampanelli, perché di buona famiglia. Diciamo che sposare Angelina in punto di morte fosse da intendere come il versamento della liquidazione prima di passare a mettersi in casa una nuova governante, con altro tenore di contratto, visto che il datore di lavoro era ormai sotto la cinquantina.
Si dirà, e a ragione, che a quei tempi molti matrimoni, poi anche felici, avevano analoghe basi affettive. Siamo
negli anni, infatti, in cui su un giornale bavarese appare il seguente annuncio
a pagamento: «Impiegato statale di medio livello, cattolico, 43enne, cerca
ragazza cattolica, vergine, che sia brava in cucina, nel cucito e nelle pulizie
domestiche. Gradita la dote, ma non è indispensabile», che avrà buon esito
portando all’altare il padre e la madre di Benedetto XVI, il quale, onorando la
nobiltà dei valori sui quali era fondata la sua famiglia, lamenterà coerentemente, un secolo
dopo, che ormai «si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di
pulsioni istintive».
Bene, tutto bene, così andavano le cose e non possiamo rimproverare a Benedetto Croce di aver avuto in Angelina, prima, e in Adele, dopo, due collaboratrici domestiche. Ma dipingercelo come
uno col cuore grosso quanto Palazzo Filomarino – questo pare voglia farci credere Giancristiano Desiderio – francamente è troppo.
martedì 29 aprile 2014
Cinque o sei cavolate
Stupisce
che a Luigi Manconi possano essere scappate tante cavolate,
tutte in una volta e per giunta così grosse, come quelle che oggi stipavano il suo Clericali e no (Il Foglio, 29.4.2014).
La
più grave: «La teoria della riduzione del
danno […] si nutre anche di un fondamento teologico quale la concezione del
“male minore”». Si tratta di un errore grosso come una casa, perché «di due mali scegliere e perciò compiere il minore
non è lecito, se si tratta di due mali morali ossia di due operazioni che sono
in se stesse violazione della legge morale»: «un male [infatti] non
diventa bene o lecito, perché c’è un altro male più grande, che si potrebbe
scegliere», sicché «la comparazione
con un altro peccato non toglie la malizia del primo» (Dizionario di Teologia Morale – Editrice Studium, 1969). Tanto più
grosso, l’errore, se questo insussistente «fondamento
teologico» viene chiamato a fornire «una
motivazione cristiana nel volere, sia pure solo in casi estremi, la
legalizzazione dell’aborto»: come si può ignorare, infatti, che l’aborto è
sempre «gravemente contrario alla legge
morale» (Catechismo della Chiesa
Cattolica, 2271), anche quando la gravidanza sia frutto di stupro o di
incesto, e perfino se metta a rischio la salute fisica o psichica della gravida?
Luigi Manconi sembra non esserne a conoscenza.
Seconda,
per gravità di errore, l’affermazione che segue ad una considerazione
banalmente ovvia, e cioè che l’«anticlericalismo non equiv[alga] a spirito
antireligioso e anticristiano»: Luigi Manconi aggiunge «bensì al suo esatto
contrario». Ora, è un dato incontestabile che esista un anticlericalismo che «auspica
il rinnovamento all’interno della Chiesa», e che nasce proprio al suo interno, in reazione ad un
clericalismo inteso come «degenerazione dell’esperienza di fede», non di rado proprio grazie all’opera di membri del suo clero: è l’anticlericalismo
tipico dei movimenti di riforma da cui la Chiesa è periodicamente scossa, ma
non è il solo. C’è anticlericalismo, infatti, che non si limita a denunciare le
colpe del clero come manchevolezze del mandato apostolico, ma che contesta lo
stesso mandato, nelle sue forme e nei suoi contenuti: è l’anticlericalismo che
rigetta ogni dimensione trascendente, e che a buon titolo può dirsi «antireligioso
e anticristiano», anche con un certa fierezza, diciamo. Luigi Manconi sembra
non esserne a conoscenza.
Nel
terzo, nel quarto e nel quinto errore, invece, incorre quando affronta una
vicenda che nei giorni scorsi ha conquistato qualche spazio sui media, dopo averlo disperatamente cercato.
Luigi Manconi afferma che fare scioperi della fame e della sete, peraltro a
singhiozzo, possa intendersi come «testimonianza cristiana e, per certi versi,
cristologica». Un cristiano potrebbe considerarla affermazione blasfema, qui
possiamo limitarci a correggerla dicendo che questo tipo di testimonianza sta
al martirio dei cristiani e alla passione di Cristo come l’opistono isterico
sta a quello tetanico. In quanto al fatto che «l’organismo che dimagrisce e
ingrassa, che si ritrae e si espande, che si rattrappisce e si gonfia, che
deperisce e infragilisce e che si riprende e si rafforza, costitui[rebbe] la
più importante manifestazione d[i una] capacità di compassione» come
«rappresentazione autentica del dolore e “teatro della crudeltà” della vita
vera che viene mortificata fino all’annichilimento nei luoghi di privazione
della libertà», vien da chiedersi se per caso Luigi Manconi abbia intenzione di
prenderci per il culo, tanta è
l’enfasi che mette nel farci la perifrasi di una patetica sceneggiata all’ennesima replica. Scrive, infine: «Tutto ciò può apparire a molti insopportabile narcisismo
e monotona reiterazione. E forse lo è». Dove l’errore, il più lieve della serie, sta nel «forse», che è di
troppo.
lunedì 28 aprile 2014
#nessunoescluso
«Lasciate
che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di
ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non
ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?». Chi l’ha detto? No,
vi siete fatti sviare dall’attualità e
avete sbagliato: l’ha detto Massimo D’Alema, poco più di quattro anni fa, chiedeva al cardinal Camillo Ruini una scomunicuccia a Silvio Berlusconi. L’ultimo degli togliattiani, si
sarebbe detto. Ma a torto, perché leccare il culo ai preti, chiamarli in
soccorso dei propri miserabili calcoli, è costume di una razza più che di una
teoria politica. E a quella razza, morti Pannunzio, Rossi e Salvemini, appartengono tutti, #nessunoescluso.
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