«Che
diciamo?», chiede Il Foglio. Diciamo, con Massimo
Gandolfini, che «il sesso non è il
piacere sessuale, ma la procreazione»:
lo pensano i cattolici, perché non lasciarlo pensare pure ai
musulmani? Certo, l’infibulazione
è soluzione barbara, ma sarà che la
repressione basata sull’instillazione del senso di colpa non
convince l’islam.
Come dargli torto? A lasciare il clitoride dov’è,
limitandosi a spalancare le porte dell’inferno
a chi gode per godere, s’è
visto a cosa s’è
ridotto l’occidente
giudaico-cristiano, o no? Si prenda «il
declino demografico italiano [che
sullo stesso numero de Il
Foglio (pagg.
II e III) è]
spiegato in 12 slide»:
avessimo adottato l’infibulazione
per tempo, le curve di quei grafici avrebbero tutt’altro
andamento. Il
Foglio
mangia Machiavelli a colazione, a pranzo e a cena, e poi dobbiamo
spiegargli noi come dev’essere trattato il vulgo perché obbedisca
ai voleri del Principe? «Che
diciamo?».
Diciamo che la violenza fisica dà risultati più affidabili di
quanto ne dia quella psicologica, e che l’amputazione
è sempre più sicura dell’inibizione.
Diciamo, soprattutto, che non si può vantare alcun primato
antropologico su chi pratica l’infibulazione,
avendo in eguale considerazione il piacere sessuale.
martedì 9 febbraio 2016
lunedì 8 febbraio 2016
[...]
Libertà
di coscienza solo sulla stepchild adoption, precisa Beppe Grillo,
continuando a dichiarare il falso riguardo al fatto che nella
consultazione online del 24 ottobre 2014 non si facesse cenno ad
essa, per giunta ricorrendo ad arzigogoli speciosi e truffaldini nel
tentativo di difendersi dalle critiche di chi gliel’ha rinfacciato.
Resta da capire, tuttavia, perché a un parlamentare del M5S possa
essere concessa libertà di coscienza sull’art. 5 del ddl Cirinnà,
ma non sul resto: chi stabilisce che sia legittimo negarla sull’art.
1? Il riconoscimento delle unioni civili non era nel programma col
quale il M5S si è presentato alle Politiche del 2013, dunque era
possibile candidarsi nelle sue liste senza che alcun impegno, neppure
implicito, fosse sottoscritto in loro favore: chi in coscienza allora
le sentisse inammissibili poteva candidarsi in piena tranquillità.
Se bastava una consultazione online a poter pretendere che, una volta
eletto, si mettesse la coscienza sotto i piedi, cosa impedisce che
un’altra ne venga indetta perché sotto i piedi se la metta pure
chi sente inammissibile la stepchild adoption? Più in generale, chi decide nel M5S fino a che punto è lecito coartare la coscienza?
Prometeo sappia
La riflessione di Marco
Fulvio Barozzi (Popinga) merita di essere qui riportata integralmente: «Se
ancor oggi sono moltissimi coloro che credono agli oroscopi o alla
guarigione per intervento soprannaturale, se l’esposizione del
cadavere mummificato di un “santo” attira folle adoranti, se le
diffidenze fideistiche contro i vaccini stanno aumentando
pericolosamente l’incidenza di morbi infettivi ritenuti ormai
sconfitti, il compito dell’educazione e divulgazione scientifica è
ancora assai difficile e, per certi versi, può apparire senza
speranza: nuove false credenze si affiancano a quelle antiche o ne
prendono il posto, quasi a significare un bisogno innato di
spiegazioni semplici e mitiche, perché il metodo scientifico
richiede impegno e ragionamento, e l’uomo comune preferisce la
meraviglia del mistero a quella della scoperta. L’impero
dell’audience e della tiratura queste cose le sa bene, e affianca
alla ricerca del profitto un livellamento verso il basso della sua
offerta, che si fa sensazionalistica e superficiale, quando non
deliberatamente menzognera. Le
scoperte della scienza e le realizzazioni della tecnica hanno
cambiato e cambiano sempre di più la vita dell’uomo, ma c’è
bisogno che al fatto dell’innovazione si affianchi la spiegazione
del come e del perché, altrimenti anch’essa diventa oggetto di
quella manipolazione mitologica su cui campano ciarlatani,
professionisti della fuffa e della religione, Dulcamara delle
staminali e profeti di una nuova era che assomiglia tanto a un
Medioevo culturale. Il
problema dell’educazione scientifica è principalmente questo:
richiede un minimo di ragionamento, di basi culturali fondamentali,
di capacità di distinguere cause ed effetti. Insomma richiede
fatica. Possiamo cercare di ridurre questa fatica, ma non possiamo
eliminarla. Possiamo schierare tutte le nostre armi pedagogiche e
tutti gli effetti speciali della multimedialità, ma dobbiamo essere
consci che, per la maggior parte delle persone, la fatica è oramai
un disvalore» (*).
Sottoscrivo, ma tutto questo non vale solo per il sapere scientifico: storia, letteratura, musica, arti figurative seguono la stessa sorte. Occorre prendere atto che divulgare è dare perle ai porci, e in fondo lo è sempre stato. Non dico sia inutile, dico che è da folli attendersi risultati pari allo sforzo. Insomma, Prometeo sappia che ha da rimetterci il fegato.
Sottoscrivo, ma tutto questo non vale solo per il sapere scientifico: storia, letteratura, musica, arti figurative seguono la stessa sorte. Occorre prendere atto che divulgare è dare perle ai porci, e in fondo lo è sempre stato. Non dico sia inutile, dico che è da folli attendersi risultati pari allo sforzo. Insomma, Prometeo sappia che ha da rimetterci il fegato.
sabato 6 febbraio 2016
Date tempo al tempo
Martedì
28 ottobre 2014, dalle 10.00 alle 19.00, si tenne la consultazione
online degli iscritti al M5S sulla mozione a firma del senatore
Alberto Airola avente a oggetto il riconoscimento delle unioni civili, che proprio in quelle settimane si apprestava all’avvio dell’iter parlamentare.
Falso, come oggi
afferma Beppe Grillo, che allora la stepchild adoption non fosse in
questione: «Se
credete che sia sacrosanto concedere dei diritti alle coppie di fatto
– recitava il testo della mozione – votate
sì. Se credete che dovremmo avere il matrimonio egualitario vi
consiglio di votare sì lo stesso, perché questo sarà il primo
passo per riconoscere comunque dei diritti alle coppie etero e gay»,
e qui si precisava: «Tenete
presente che il testo sulle unioni garantisce molto le coppie al pari
del matrimonio, salvo adozioni ex novo per le coppie omosessuali».
Anche riguardo alla stepchild adoption, dunque, si chiedeva un parere
su quanto poi avrebbe coerentemente preso forma nel ddl Cirinnà.
Il risultato della
votazione fu favorevole nella misura dell’84,5%
al riconoscimento della unioni civili, comprese quelle tra persone
dello stesso sesso, e alla possibilità che una delle due potesse
adottare un figlio dell’altra:
superfluo dire che questo impegnava tutti i parlamentari del M5S, in
forza del vincolo di mandato, caposaldo statutario del movimento,
sull’esito
della consultazione, che sarebbe stata del tutto inutile laddove si
fosse ritenuto legittimo che ciascuno esprimesse il proprio voto in
piena libertà di coscienza.
Inammissibile meno di un anno e mezzo fa, oggi la libertà di coscienza è benevolmente concessa ai parlamentari del M5S da un Beppe Grillo che evidentemente ne dispone a piacimento, a dispetto della smania di disimpegno dichiarata in dozzine di interviste.
Neanche all’ultimo dei fessi è consentito stupirsi di questo dietrofront: quando perde la sua forza propulsiva, la paranoia avvizzisce in tatticismo. Date tempo al tempo, non dovrebbe mancare ancora troppo: non riuscirete più a distinguere Di Maio da Capezzone.
[...]
C’è
un bel po’ di gente che ha interesse a incrinare i rapporti tra Roma e Il Cairo
dopo che la scoperta del
più grande giacimento di gas nel Mediterraneo da parte dell’Eni
ha dato avvio a un considerevole rafforzamento degli accordi di
partnership economica tra Italia e Egitto. Sulla morte di Giulio
Regeni potrebbe essere estremamente difficile arrivare alla verità.
venerdì 5 febbraio 2016
Non si può escludere che
Il
professor Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di
Pediatria, corre subito a precisare di essere stato frainteso. Aveva
detto: «Non
si può escludere che convivere con due genitori dello stesso sesso
non abbia ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e
relazionale nell’età evolutiva».
Ora
spiega che questo «non
significa affermare che due soggetti omosessuali non
possano garantire a un bambino affettività e
standard educativi in linea con uno sviluppo normale».
A rigor di logica si dovrebbe ritenere superflua questa precisazione,
già tutta implicita nella formula scelta per la sua sortita: «non
si può escludere che non»,
infatti, è cosa ben diversa da «è
certo che»,
«è
altamente probabile che»,
«c’è
il ragionevole sospetto che»,
ecc.
Se
non è chiaro, mi si consenta un esempio. Mettiamo caso dicessi
(ipotesi del terzo tipo): «Non
si può escludere che la formula “non
si può escludere che” sia stata la scelta un po’ furbetta, ma
intellettualmente assai disonesta, per offrire a quanti sono contrari
alla stepchild adoption un argomento che sembrasse vestire i panni
d’una qualche autorevolezza, ma in modo che questa non potesse
essere messa in discussione nel merito, come d’altronde sarebbe
possibile, e in forza di opinioni assai più autorevoli, peraltro
assai meglio argomentate».
Ho detto che l’uso di quella formula è stato un volgare trucchetto
per attribuire valore scientifico a un becero pregiudizio senza poi
dover essere chiamato a risponderne sul piano scientifico? Manco per
niente. Anzi, formalmente nemmeno l’ho insinuato. Di più: avendo
usato anch’io la stessa formula, neanche potrei essere accusato di
averne avuto l’intenzione.
Ma
alla precisazione il professor Giovanni Corsello ha voluto aggiungere
– bontà sua – le ragioni che l’hanno portato a sortire in
questione: «Ciò
che è rischioso –
ha detto – è
un dibattito teso a promuovere situazioni simili come assolutamente
fisiologiche. Si voleva semplicemente sottolineare che su questioni
di tale complessità, che implicano valutazioni fortemente
individualizzate, sarebbe meglio evitare scelte determinate da norme
di legge vincolanti, procedendo con equilibrio e competenza sulla
base delle peculiarità di ogni situazione per garantire al meglio la
tutela dell’interesse
del bambino».
Se
le parole non sono vento per dar aria alla bocca, il professor
Giovanni Corsello ha ritenuto necessario intervenire per segnalare il
rischio che «situazioni
simili»
passino per «assolutamente
fisiologiche» in forza di
«norme di legge vincolanti».
È evidente che egli ritenga non lo siano sempre, e su questo come è
possibile dargli torto? D’altronde
questo è assicurato a un bambino allevato da una coppia
eterogenitoriale, e per la sola ragione del fatto che si tratti di
una coppia eterogenitoriale? No di certo, né che si tratti in
entrambi i casi di genitori biologici, né se il genitore biologico è
uno solo dei due, né se entrambi sono genitori adottivi. Allo stato,
e in tutti e tre i casi, si dà per scontato che sussistano le
condizioni «assolutamente
fisiologiche»,
salvo il doverle escluderle, con quanto ne consegue per l’affido
del bambino a un’altra
coppia. Ma perché con coppie di persone dello stesso sesso dovremmo
adottare misure inverse? Cosa solleva la coppia eterogenitoriale
dall’onere
della prova che invece dovrebbe essere imposta, caso per caso, alla coppia
omogenitoriale? In altri termini, quale sarebbe il fattore che
assicura una maggiore probabilità di condizioni «fisiologiche»
nella prima rispetto alla seconda? È una supposta patologia della
condizione omosessuale a sostenere questa inferenza?
Si
tratta di domande alle quali chiunque può rispondere attingendo al
bagaglio dei propri pregiudizi per potersi trovare concordi
all’impostazione
data dal professor Giovanni Corsello, sta di fatto che il professor
Giovanni Corsello interviene del dibattito come pediatra, anzi, come
presidente della Società Italiana di Pediatria, unendo così
all’autorità
dell’uomo
di scienze il prestigio di una carica significativamente
rappresentativa. Può, dunque, intervenire, ma rispondendo del peso
che le sue affermazioni pretendono di avere. Il problema è che da
uomo di scienze non ha nulla al quale appendere le proprie
affermazioni: gli studi scientifici sullo sviluppo psichico e
relazionale dei bambini allevati da coppie omogenitoriali non
rivelano alcuna significativa differenza rispetto a quello dei
bambini allevati da coppie eterogenitoriali. Non meno grave che se
avesse detto: «Non
si può escludere che i vaccini provochino l’autismo»,
cosa che gli sarebbe costata cara. Non si può escludere, invece, che
la sua uscita sull’omogenitorialità
gli tornerà assai utile. Né si può escludere che quello fosse il
calcolo.
martedì 2 febbraio 2016
[...]
Sul
fronte opposto a chi invano chiede un’amnistia,
Marco
Travaglio, che invano teme ne venga prima o poi concessa una,
commette lo stesso errore: sostiene che il Messaggio alle Camere di
Giorgio Napolitano avesse come fine quello di sollecitare il
Parlamento proprio in quel senso. Entrambi i fronti, per opposte
ragioni, entrambe facilmente intuibili, sembrano voler ignorare che
in quel testo il ricorso a provvedimenti di clemenza
era indicato solo come uno dei possibili rimedi al sovraffollamento
carcerario, per giunta messo in fondo all’elenco,
dopo «l’introduzione
di meccanismi di probation»,
«la
previsione di pene limitative della libertà personale ma non
carcerarie»,
«la
riduzione dell’area applicativa della custodia cautelare in
carcere»,
«lo sforzo
diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena
inflitta in Italia nei loro Paesi di origine»,
«l’attenuazione
degli effetti della recidiva»,
«un’incisiva
depenalizzazione»,
«un nuovo
impulso al Piano Carceri».
In quanto ai provvedimenti di clemenza, ne era rimarcato il carattere
di «straordinarietà»,
con la raccomandazione di accompagnarli a
«vere e proprie riforme strutturali», senza sottovalutare
«il
pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da
parte di condannati scarcerati».
Ad una lettura non di comodo del suo Messaggio alle Camere ce n’è
ancora per dire che Giorgio Napolitano chiedeva al Parlamento
un’amnistia,
e solo quella?
Ernesto Galli della Loggia si chiede
Ernesto
Galli della Loggia si chiede perché solo oggi gli omosessuali
rivendicano il diritto di sposarsi e di allevare dei figli: «Come
mai la rivendicazione di un tale diritto in precedenza non era mai
venuta in mente a nessuno? Gli omosessuali non sentivano, forse, ieri
il bisogno di sposarsi e di avere figli?»;
giacché gli sembra che tale diritto sia rivendicato in nome dei
principi che informano la democrazia liberale, chiede: «La
democrazia non era abbastanza liberale? Non eravamo abbastanza
democratici, o che?». Domande
retoriche, ovviamente, perché ha già tutte le risposte: «L’ascesa
del matrimonio gay nel cielo dei diritti non deriva da alcun
principio inerente alla democrazia liberale. È solo il frutto della
specifica evoluzione storica della nostra società, della sua
progressiva secolarizzazione individualistica, e della conseguente
volontà delle maggioranze parlamentari che in essa si formano».
Solo a questo punto – e siamo ormai a metà del suo editoriale –
comprendiamo dove vuole andare a parare: intende sostenere che i veri
diritti umani precedono l’uomo,
sono inscritti nella sua natura ab
initio, e che l’evoluzione
storica si limita a scoprirli, riconoscendoli in quanto tali quando
sono tali, ma pure quando non lo sono. Potremmo anche concederglielo,
ma poi a chi spetta dire l’ultima
parola sulla genuinità di un diritto di cui ieri nessuno avvertiva
la necessità e di cui oggi si chiede il riconoscimento?
Siamo
in Alabama, nei primi anni Sessanta, e c’è
chi chiede la legalizzazione dei matrimoni misti: chi decide se si
tratta di un diritto o di un capriccio? Chi decide se la società
abbia o non abbia a trarre danno dal riconoscere a una donna bianca
il diritto di sposare un uomo di colore? E a entrambi sarà giusto
concedere il diritto di mettere al mondo dei figli che poi dovranno
sopportare il peso di essere dei mulatti? L’attenzione
non dovrebbe essere spostata sui diritti del bambino? Siamo sicuri
che autorizzare i matrimoni misti non causi sofferenza a un povero
bambino che si sentirà diverso sia dai bambini bianchi sia dai
bambini neri? Possiamo, in nome dell’amore,
dar vita a famiglie tanto bizzarre? Che fare? Lasciar decidere al
Congresso? Sottoporre il dilemma alla Supreme Court? Sì, vabbè,
’sti cazzi: «Basta
la volontà di una maggioranza, di una qualunque maggioranza
parlamentare, per autorizzare una pratica sociale, per stabilire
qualunque diritto, anche negli ambiti più cruciali riguardo il
profilo storico-antropologico di una collettività?».
Poi, «nella storia di tutte le
Corti non si contano i casi in cui il riconoscimento di un diritto a
lungo rifiutato è stato poi ammesso»,
insomma, chi potrà mai assicurarci che poi non finiscano per
consentire la celebrazione di matrimoni misti solo in base ad
un’interpretazione
eccessivamente estensiva della «pari
dignità sociale»?
Cazzarola,
il rischio è grosso. Lasciamo tutto com’è,
via, aspettiamo che tra una sessantina d’anni
Ernesto Galli della Loggia ci dica dalle pagine del Corriere della
Sera se quello che s’è
scovato in Alabama è un vero diritto o un frivolo capriccio. Ché
poi si sa come si inizia e non si sa come va a finire: oggi permetti a un
nero di sposare una bianca e domani lo slippery
slope te ne fa rotolare uno fino alla Casa Bianca.
lunedì 1 febbraio 2016
Non ci si può aspettare una risposta accettabile
Qualche
settimana fa ho riportato su queste pagine una frase tratta dalle
conversazioni di don Luigi Giussani con Robi Ronza raccolte da Jaka
Book in un volume dato alle stampe nel 1987: «La
realtà del rapporto uomo-donna –
diceva il pretino – trova compimento
nell’esperienza
coniugale e ha sostanziale funzione di arricchire di figli la
Chiesa». Se a darci il
raccapriccio, qui, è il fine ascritto alla procreazione, perché
giocoforza evoca lo
sprone a figliare per far più forte la Patria, che è tratto comune
di ogni regime totalitario, a darcelo riguardo al modo in cui
andrebbe correttamente inteso il mezzo è il
passaggio tratto dall’intervento
tenuto da Massimo Gandolfini alla kermesse del Circo Massimo qui
sopra riportato, che il tono categoricamente assertivo non basta a
rendere meno grottesco di un «non
lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio».
Dinanzi alle affermazioni di Giussani e di Gandolfini, che in
combinato disposto ci danno una
sintetica ma esaustiva sinossi della dottrina morale della Chiesa su
quanto attiene a sesso, procreazione, matrimonio e famiglia, mettere
al mondo un figlio per mero capriccio acquista un’enorme
dignità, ancor più se a fronte di ostacoli che richiedano l’impiego
di pratiche contro natura, mentre il coito ad esclusivo fine
edonistico, ludico o ricreativo libera il sesso dall’avvilente
giogo che lo riduce a una pratica del tutto impersonale, da officiare come una liturgia.
Questo, ovviamente, laddove si voglia rigettare la dimensione creaturale dalla quale a un maschio e a una
femmina non resti altro che elevare lode al Dio di Giussani e di
Gandolfini. E se appunto è questa la scelta di un cittadino
italiano? Resta ancora nella libertà di un individuo rigettare il magistero della Chiesa o è d’obbligo recepirlo? Se è il nucleo dottrinario che sta nelle affermazioni di Giussani e di Gandolfini a dare fondamento al modello antropologico cristiano, perché le
leggi di uno stato non confessionale dovrebbero recepirlo
disconoscendo il valore di famiglia, con tutto quanto ne consegue,
alle unioni che esprimono un modello alternativo? Non ci si può
aspettare una risposta accettabile: come sempre quando si viene alla resa dei conti coi prepotenti, la soluzione è nello scontro, costi quel che deve costare.
sabato 30 gennaio 2016
Si mandi in pagina
«Quale
esiste nelle nostre società, la famiglia coniugale non è
l’espressione
di un bisogno universale, né è inscritta nelle radici della natura
umana: è una soluzione intermedia, uno dei possibili stati
d’equilibrio
tra formule che ad essa si oppongono, e che altre società hanno
effettivamente accettato».
Chi sarà mai ’sta
bestia che osa mettere in discussione la trascendenza della famiglia tradizionale? È presto detto: si tratta di Claude
Lévi-Strauss.
Se stamane avete letto Il
Foglio,
sono certo che vi chiederete se per caso non si tratti di un omonimo
del Lévi-Strauss cui Antonio
Gurrado ha attribuito la «formidabile arringa in favore della “famiglia
naturale”» che ha pensato di poter cavare da La famiglia (ne Lo guardo la lontano, il Saggiatore 2010).
No, si tratta dello stesso Lévi-Strauss.
Un po’
manipolato, diciamo, ma questo non dovrebbe far troppo scandalo, in
fondo stiamo parlando di un articolo pubblicato su Il
Foglio,
per giunta a firma di chi qualche tempo fa provò a rifilarci un
«Voltaire
cattolico» (Lindau,
2013), e poco mancava
che «écrasez
l’infâme»
diventasse
il motto da apporre sotto la statua della Vergine
che col piede schiaccia il Serpente,
tutto a partire da un «grazie
a Dio, sono buon cattolico»
palesemente ironico (Proscritto al Trattato sulla tolleranza).
Stavolta?
Una robina senza troppe pretese: Gurrado dà valore di domanda
retorica a una domanda che non l’ha
per niente. «Se
l’universalità della famiglia non è effetto di una legge
naturale, come si spiega che la si trova dappertutto?»:
isolandola da ciò che viene prima e ciò che viene dopo, nel testo,
torna buona ad attribuire a Lévi-Strauss esattamente il contrario di
quanto afferma; e comunque, come vedremo, per «famiglia»
non si intende affatto «famiglia
tradizionale»
(intesa come relativa alla tradizione dell’occidente
cristiano).
Già
l’assunto
di partenza tende a scoraggiare ogni tentazione a postulare un
modello ideale cui la natura tenderebbe per sua intrinseca tendenza:
«Sarebbe
un errore addentrarci nello studio della famiglia con spirito
dogmatico».
E infatti: «Quando
si ripercorra l’immenso
repertorio delle società umane su cui abbiamo informazioni, tutto
quello che si può dire è che la famiglia coniugale vi è
frequentissima, e che, dove essa sembra mancare, si tratta in
generale di società molto evolute, e non, come ci si sarebbe potuto
aspettare, delle più rudimentali e semplici. Peraltro, tipi di
famiglie non coniugali esistono; e basta questo per convincerci che
la famiglia coniugale non proviene da una necessità universale».
Come si può fare di Lévi-Strauss un testimonial per il Family Day?
Impossibile. Impossibile da usare per spacciare la «famiglia
tradizionale»
come modello superiore. Impossibile da usare per sostenere la tesi
che i modelli alternativi ad essa siano «contronatura».
Ma impossibile da usare pure per dimostrare che il principio
coniugale possa necessariamente realizzarsi tra persone di sesso
diverso. Ed ecco, allora, che dopo un ampio ventaglio di modelli
familiari quanto mai distanti dalla «famiglia
tradizionale»,
si arriva a ciò che consiglia di tenere Lévi-Strauss a debita
distanza dal Circo Massimo: «Per
quanto strani ci appaiano, questi matrimoni tengono ancora conto
della differenza dei sessi, che ai nostri occhi è la condizione
essenziale (per quanto le rivendicazioni degli omosessuali comincino
a contestarla) per la fondazione di una famiglia. Ma in Africa donne
d’alto
rango avevano spesso il diritto di sposare altre donne, ingravidate
da amanti autorizzati; la nobildonna diventava “padre”
legale dei figli».
Ma Gurrado non si limita a questo: scrive che per Lévi-Strauss la famiglia è «fenomeno praticamente universale» (anche qui lasciando intendere che per «famiglia» sia da intendersi «famiglia tradizionale») per sostenere che debba necessariamente ritenersi fondata «sull’unione più o meno duratura, ma socialmente approvata, di due individui di sesso diverso che fondano una convivenza, procreano e allevano figli». Bene, questa definizione è solo quella che Lévi-Strauss pone in antitesi a quella di una «famiglia quale si osserva nelle società moderne» come «fenomeno relativamente recente, frutto di un’evoluzione lunga e lenta», per dire che in entrambi i casi si tratta di «posizioni estreme» che «peccano per semplicismo».
Ma Gurrado non si limita a questo: scrive che per Lévi-Strauss la famiglia è «fenomeno praticamente universale» (anche qui lasciando intendere che per «famiglia» sia da intendersi «famiglia tradizionale») per sostenere che debba necessariamente ritenersi fondata «sull’unione più o meno duratura, ma socialmente approvata, di due individui di sesso diverso che fondano una convivenza, procreano e allevano figli». Bene, questa definizione è solo quella che Lévi-Strauss pone in antitesi a quella di una «famiglia quale si osserva nelle società moderne» come «fenomeno relativamente recente, frutto di un’evoluzione lunga e lenta», per dire che in entrambi i casi si tratta di «posizioni estreme» che «peccano per semplicismo».
Sì, vabbè, ma chi volete che vada a controllare cosa davvero abbia scritto Lévi-Strauss? Si mandi in pagina.
[Si ringrazia Urzidil per la revisione.]
[Si ringrazia Urzidil per la revisione.]
giovedì 28 gennaio 2016
[...]
Il
trapezista, il lanciatore di coltelli, la contorsionista, ovviamente
l’elefante, e poi lo sputafuoco,
la scimmietta che sa far di conto, l’illusionista...
Numeri che da vent’anni
strappano l’applauso
a grandi e piccini, ma è quello dei pagliacci ad essere da sempre il
top del barnum fogliante.
Oggi, ad esempio, c’era
davvero da pisciarsi addosso allo sketch d’un
bagonghi seduto sulle spalle di un gigante del conservatorismo: «I
fautori delle nozze gay e delle unioni civili – strillava
schizzando lacrime da due tubicini collegati a una pompetta – sono
animati dagli stessi principi cardine che avevano spinto all’azione
più o meno sanguinaria i loro precursori – i giacobini – che al
posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore».
Numero spassosissimo, senza dubbio, ma si poteva anche far
meglio col richiamo alla comune radice di «culattone» e
«sanculotto».
Un punto a favore del marmo
Sul
caso delle statue impacchettate per non turbare l’ospite
in turbante, penso sia utile segnalare il confronto avutosi ieri, a
L’aria che tira, tra Alessandro Giuli e Matteo
Colaninno: mentre il primo definiva inescusabile la
premura nei confronti della sessuofobia che è di tutti i
fanatismi religiosi, e molto appropriatamente rammentava la furia
iconoclasta dei primi cristiani contro i nudi dell’arte
pagana, sebbene ancor più appropriato sarebbe stato rammentare i
braghettoni di Daniele da Volterra ai nudi del Giudizio Universale,
il secondo respingeva la contestazione – anche abbastanza
infastidito, occorre dire – esortando a porre l’attenzione
sul fatto che fosse in gioco una partita da 17 miliardi di dollari, e
che dunque nessuna premura fosse da ritenere eccessiva, con ciò
lasciando nel retrogusto della sua affermazione un che di
tremontiano, qualcosa del tipo «fossero
saltati gli accordi, ce mangiavamo du’
zinne de marmo?».
Lo
scambio avveniva poco prima che da Palazzo Chigi fosse licenziata la
nota ufficiale che declinava ogni responsabilità dell’accaduto,
scaricandola sugli addetti al Cerimoniale di Stato, che di lì a poco
l’avrebbero rimpallata agli uffici del Consiglio dei Ministri. Quella di Colaninno, in sostanza, sarebbe in
breve diventata una cazzuta excusatio non petita in nome e per conto
di un esecutivo che presto avrebbe mostrato di non avere alcuna intenzione di
sottoscriverla. Riaprendo la vecchia polemica rinascimentale su quale materiale abbia il primato nel rendere al meglio una figura, un punto a favore del marmo (del Museo Capitolino) sul bronzo (della faccia di Colaninno).
martedì 26 gennaio 2016
Fatte le debite proporzioni
Quali
differenze ci siano tra l’Iran
e la Città del Vaticano, lo so di mio, non c’è
bisogno che me le rammentiate, fatto sta che in entrambi i casi siamo
dinanzi a quella che tecnicamente è una teocrazia. Sì, la forma di
governo non è affatto simile, ma è perché l’Iran
è una repubblica presidenziale e la Città del Vaticano è una
monarchia assoluta, ma in fondo, via, in entrambi i casi il potere
politico sta in mano ad una autorità religiosa. Anche qui con
qualche differenza? Senza dubbio. In Iran, infatti, almeno
formalmente, il legislativo e l’esecutivo
spettano ad organi eletti dal popolo, anche se poi è la Guida
Suprema, oggi rappresentata dall’ayatollah
Khamenei, ad avere su di essi il pieno controllo; nella Città del
Vaticano, invece, fanculo all’ipocrisia,
al Papa è data
«potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla
Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente».
Non mi
sfuggono neppure altre due o tre differenze, che pure sono di grande
importanza. In primo luogo, l’Iran
è una teocrazia dal 1979, anno in cui la rivoluzione islamica portò
al potere incontrastato dell’autorità
religiosa, allora rappresentata dall’ayatollah
Khomeini, sulla vita di oltre 77.000.000 di abitanti, mentre il
processo che ha portato all’unità
d’Italia
ha tolto allo Stato Pontificio un bel po’
di territorio, relegandone la sovranità in meno di mezzo chilometro
quadrato, abitato da meno di 1.000 anime (ammesso e non concesso che
ogni cittadino della Città del Vaticano ne possegga una). Del tutto
comprensibile, dunque, e questo è solo un esempio, che le forze armate iraniane contino 945.000
unità, mentre il papa ha solo 110 guardie svizzere.
In secondo, in
terzo e in quarto luogo, non mi sfugge neppure quanto consegue dalla disparità di
quello che potremmo definire – lato sensu – il potere temporale in
capo all’una e all’altra autorità
religiosa, che è enorme in Iran, dove la Guida Suprema se lo
tiene bello stretto, cosa di cui il Papa non si è dimostrato capace,
facendo, seppure a gran fatica, di necessità virtù l’esserselo fatto strappare. Quando (e se) questo accadrà anche in Iran, probabilmente avremo una replica di quanto è accaduto in Italia, quasi certamente rispettando la sequenza: raffiche di scomuniche, non expedit, poi expedit, e via con un cordiale concordato.
In sintesi,
potremmo dire che l’Iran
è una teocrazia in ottima salute, e perciò ganza e spaccona, mentre quella
del Papa è una teocrazia un po’
sfigata, che un tempo non era poi da meno nello sbarazzarsi di pervertiti
e apostati, nemici esterni e oppositori interni, ma di quel passato
conserva ormai solo una struggente e inconfessabile nostalgia, pudicamente
trattenuta in un assai ben compresso «vorrei ma non posso».
È per questo
che, fatte le debite proporzioni, se si bacia la mano al Papa, si può
tranquillamente stringerla a Rouhani.
Ridotta veramente male, non c’è che dire
Quando
Camillo Ruini esortò i cattolici italiani a disertare la
chiamata referendaria del 12 e 13 giugno 2005, il calcolo – poi
rivelatosi azzeccato – era che il quorum non fosse raggiunto e che
la legge n. 40 del 19 febbraio 2004 non fosse abrogata. Per quanto
sottoposta a limiti così pesanti da renderla un percorso ad
ostacoli, la fecondazione assistita non era tuttavia vietata da
quella legge, che infatti all’art.
1 recita: «Al
fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti
dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso
alla procreazione medicalmente assistita»,
venendo così a confliggere in modo irricomponibile col dettato che definisce «moralmente
inaccettabile»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2377)
il ricorso a qualsiasi tecnica di inseminazione artificiale. Sembrò
che la Cei si spendesse in difesa di un principio, mentre in realtà
lo sacrificava con grande disinvoltura, per uscire vincitrice da una
prova di forza che era tutta politica. Se, infatti, «vi
sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché
la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male
morale»
(ibidem,
1761) – e in questa fattispecie cade il ricorso a pratiche
procreative diverse da quelle naturali – la politica è pratica di
compromesso che non di rado costringe il principio entro i limiti del
possibile.
Così
accade con le unioni civili: tutte le dichiarazioni che in questi
giorni sono licenziate dai vari gradi della gerarchia ecclesiastica,
e che per la gran parte dei commentatori sono il legittimo esercizio
del magistero sulle coscienze dei fedeli, sono in grave difetto –
soprattutto omissivo, ma non solo – rispetto a quanto la dottrina
morale cattolica afferma come inderogabile. Nella difesa del
matrimonio, ad esempio, viene costantemente trascurato il richiamo al
fatto che «non
può sussistere un
valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso
sacramento»
(Codice
di Diritto Canonico,
can. 1055 § 2): in sostanza, il matrimonio civile non è «offesa
alla dignità del matrimonio» meno
di quanto lo siano tutte le forme di «libera
unione»,
degradate a «concubinato»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2390). Sembrano lontani i tempi in cui monsignor Pietro Fiordelli,
vescovo di Prato, bollava come «pubblici
concubini»
Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, sposatisi in municipio con rito
civile:
«Questo
gesto di aperto, sprezzante ripudio della religione –
scriveva sul giornale diocesano – è
motivo di immenso dolore per i sacerdoti e per i fedeli. Il
matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è
matrimonio, ma soltanto l’inizio di uno scandaloso concubinato».
Nessun prete si azzarderebbe a ripeterlo, oggi, ma nulla sul piano
dottrinario e canonico è mutato da allora: se non è sacramento, il
matrimonio non è vero matrimonio.
Ma
il compromesso non si limita ad evitare di porre il distinguo tra
matrimonio celebrato con rito religioso e quello celebrato con rito
civile: purché sia fermo il punto che nessuna forma giuridica possa
(e dunque debba) essere attribuita al legame tra due persone che
abbiano lo stesso sesso, le gerarchie ecclesiastiche sono già da
tempo indulgenti sulle unioni di fatto tra un uomo e una donna,
omettendo la condanna morale a quanti «rifiutano
di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica
l’intimità
sessuale» e
con ciò «distruggono
l’idea
stessa di famiglia»
(Catechismo
della Chiesa Cattolica,
2390), ed evitando ogni rampogna pubblica a chi abbia rapporti sessuali prematrimoniali, che restano grave offesa al VI comandamento, al pari – esattamente al pari – della masturbazione e dello stupro. Anche qui il principio è sacrificato a una partita tutta
politica, che impone, se non l’abbandono,
almeno un significativo disimpegno su una questione sempre meno
difendibile, per concentrare tutte le forze su quella che sembra
offrire qualche possibilità di successo. Anche qui, come nel caso
della condanna del matrimonio con rito civile negli anni Cinquanta, a
quei tempi celebrato in rarissimi casi, la scelta è quella di
battersi contro modelli socialmente minoritari, nella convinzione che
possano restar tali stigmatizzandoli come deleteri, consci del fatto
che il riconoscimento pubblico e giuridico di ogni modello
alternativo a quello cattolico (così d’altronde
era accaduto per il matrimonio con rito civile, contemplato dal
Codice Civile del 1942) lo rende, prima o poi, socialmente accettato.
In fondo è l’ammissione
che la legge umana fotte sempre quella divina, e che quest’ultima
non può più contare sull’autoevidenza
della sua superiorità, tutt’al più su qualche cattodem, su Gasparri, su Quagliariello. Ridotta veramente male, non c’è che dire.
lunedì 25 gennaio 2016
Un contributo
Julián
Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione,
scrive una lunga lettera al direttore del Corriere
della Sera,
che domenica 24 gennaio la manda in pagina titolandola Diritti
tradizionali e valori fondanti.
«Dopo
mesi di discussioni intorno alle unioni civili
– scrive il successore di don Luigi Giussani – il
disegno di legge Cirinnà approda in Parlamento,
scatenando una nuova manifestazione di piazza, anzi due, una a favore
e una contraria. Chi sostiene il progetto reclama il riconoscimento
di nuovi diritti; chi vi si oppone lo fa per difendere diritti
tradizionali».
È un incipit che fa pensare ad una riproposta degli pseudoargomenti
cari a chi si oppone al disegno di legge, perché è evidente che i
«diritti
tradizionali» non
sono affatto messi in discussione dai «nuovi
diritti»
(neppure il matrimonio tra due persone dello stesso sesso toglierebbe
valore a quello tra maschio e femmina, non si capisce quale sia
l’attacco
che gli sarebbe sferrato dal riconoscimento delle unioni civili), e
tuttavia qualcosa lascia intuire che nelle intenzioni vi sia
dell’altro,
perché la posizione che chi scrive si ritaglia sembra voler essere
terza rispetto a quella dei contendenti in campo, e di ciò pare
esservi conferma nella preoccupazione che viene espressa nel
successivo capoverso, dove lo scontro tra favorevoli e contrari al
ddl Cirinnà è detto foriero di «fratture
sociali e conflitti politici che sembrano insanabili».
«Sembrano
insanabili»,
dunque non è detto lo siano davvero: vuoi vedere – ti chiedi –
che questa terza posizione di Carrón
ha in sé il rimedio per sanarli? Se non sei prevenuto verso Cl, non
puoi far altro che continuare a leggere. E sbagli – meglio
chiarirlo subito – perché Carrón non offre soluzione: si limita a
dire che l’oggetto
del contendere è un falso problema (vedremo quale sia, a suo dire,
quello vero), e che dunque non ha senso stare a litigare.
Si ha la
sensazione che Carrón voglia interporsi tra i due litiganti perché
smettano di darsele, e invece non si tarda a scoprire che
l’intenzione
è quella di bloccarne uno, fingendo di abbracciarlo con affettuosa
premura, perché l’altro
possa menarlo meglio.
Ecco allora «la
testimonianza, in cui mi sono imbattuto di recente, di un
omosessuale, che si occupa di moda, ha un bel lavoro e una relazione
con un compagno. A una coppia di amici incontrati per caso confida
che non è felice e dice loro: “È
come se mi mancasse qualcosa, è come se vivessi la mia vita a
partire da una reazione, da una difesa. Ciò mi rende inquieto”.
Inquieto,
come tutti. Tutti tendiamo continuamente a ridurre il
nostro desiderio a una immagine creata da noi, perché così pensiamo
di avere la soluzione a portata di mano. Ma l’uomo reale non si
accontenterà mai. Anzi, il prezzo da pagare è molto alto: soffocare
dietro le sbarre della prigione che ci si è costruiti.
L’insoddisfazione può essere risanata con l’approvazione di una
legge? Tanti credono di sì. Questo spiega la lotta accanita per
approvarla. D’altra parte, chi ritiene che questo mini le basi
della società si oppone spesso con lo stesso accanimento, senza
riuscire a sfidare minimamente, anzi, alimentando, la posizione che
combatte».
In
soldoni, Carrón cerca di scoraggiare chi si batte in favore del ddl
Cirinnà cercando di fargli capire che quand’anche
ottenesse di vedersi riconosciuta dallo Stato l’unione
col proprio compagno – ma che dico, ammesso pure gli si consentisse
di sposarlo – non avrebbe certo trovato la serenità, come
d’altronde non è detto che un eterosessuale riesca necessariamente
a trovarla nel matrimonio.
È chiaro che la ricerca della serenità sia un lavoraccio che spetti a ciascun essere umano, omosessuale o eterosessuale che sia, ma non dovrebbe essere altrettanto chiaro che a
entrambi debbano essere date le stesse possibilità? Quando entrambi ritengono di poterla trovare nel riconoscimento da parte dello
Stato dell’unione con chi amano, negarla a uno e concederla
all’altro non pone qualche problemino?
Chissà quanto
intenzionalmente, a Carrón
sfugge il problemino: «Solo
Cristo, come avvenimento presente nella vita delle persone, è in
grado di liberare l’uomo dalla sua riduzione e di fargli desiderare
e sperimentare quella pienezza per cui è fatto. “Sarebbe
bello vivere il lavoro e i rapporti come li vivete tu e tua moglie”.
Senza una simile esperienza di liberazione, qualunque risposta
cosiddetta “concreta”
sarà sempre insufficiente. Ciascuno di noi ne ha prova diretta nella
sua vita».
Bene, ma questo basta a liquidare come superflua la richiesta di
parità di trattamento da parte dello Stato? In sostanza, sì, o
almeno così parrebbe, perché quale sarebbe il «contributo
che
ciascuno di noi cristiani è chiamato ad offrire al
dibattito in corso»?
Prima di copiarlo dal Corriere
della Sera
per incollarlo qui, via, cercate di indovinare quale possa essere, ’sto contributo.
Non riuscite a immaginarlo? Eccolo: «Noi
sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere
umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’Ecce homo
di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona,
salva».
Come so’
brutti ’sti
lupi che ululano nelle piazze per il riconoscimento di un diritto
che, quand’anche
fosse riconosciuto, sarebbe sempre insufficiente a dar loro l’agognata pienezza. Orsù, prendessero esempio dal Gesù flagellato e coronato di spine, che non
recrimina.
domenica 24 gennaio 2016
Niente di nuovo
Quanto
le cronache ci hanno fin qui rivelato degli ingegni e dei maneggi di
Tiziano Renzi e di Pier Luigi Boschi basta e avanza, ben oltre ogni
ulteriore ed eventuale istruttoria, per ridarceli come esemplari
carotaggi di quella provincia italiana che da sempre vanta come sua
massima virtù, non di rado con compiaciuta fierezza, quel familismo
di stampo clanico che va dall’arrangiarsi
al fottere alla grande, nell’instancabile
tessitura di reciproci favori in microsistemi di potere che spesso
non esorbitano dalla cinta di un paesello di poche migliaia d’anime,
ma che quasi sempre sono prima o poi costretti a tentare di allargare gli ambiti
in cui sono gemmati come forme degradate della gens, della casata,
della consorteria corporativa, per arrivare ad assumere quelle del
consorzio, del cartello, della loggia, della cosca, più spesso per
resistere agli attacchi della concorrenza, con ciò trovandone
ragione nell’istinto
di sopravvivenza, che per smaniosa insaziabilità.
Nell’incoazione
il fine sta tutto nell’agiatezza
economica e nella rispettabilità sociale, nell’assumere un ruolo
di rilievo nella comunità locale, nel coltivare le amicizie giuste, nell’appuntarsi al petto un titolo, nel saper essere alla bisogna cliens o patronus, con capillare
conoscenza del territorio, accorta scelta delle frequentazioni,
accorta costruzione del profilo pubblico, costante presenza nei
momenti che rinsaldano i vincoli sociali attorno a valori ampiamente
condivisi, meglio se incarnati con la disinvoltura che promuove
il cognome a quell’antonomasia che va a incastonarsi a meraviglia nell’aneddotica da tavolata.
Al maneggione di provincia non
basterebbe altro, ma con quanto ha messo in gioco di energie, con
quanto ne ha lucrato in quella particolare forma esperienza che sta
nel sapere come gira il mondo, è inevitabile che in seconda o al
massimo in terza generazione gli scappi la mutazione sul cromosoma
giusto e metta al mondo un figlio che trasfiguri l’arte di aprire e
chiudere scatole cinesi nei giochi di prestigio di una manovra di
stabilità o la concessione del mutuo in cambio di un trattamento di
favore su una compravendita nella sapiente gestione di una
maggioranza parlamentare.
Fanfani, La Pira, Gelli... Quante cazzate.
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi non hanno avuto altri maestri che i loro
babbi, che per tempo li
hanno costruiti nel modo che poi, per botta di culo, si sarebbe rivelato utile.
Quando babbo si becca sette condanne tra cause civili e del lavoro
per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro
irregolare e roba simile, non hai bisogno di ispirarti alla Thatcher
per il tuo modello di flessibilità. Né hai l’angoscia della copertura finanziaria per il cadeaux elettorale, quando è babbo che ti ha fatto andare alla Ruota della Fortuna ed è a babbo che hai consegnato i soldi della vincita per diventare socio dell’azienda di famiglia: è così che il denaro nasce dal niente.
Quando
babbo fa slalom alla grande tra una turbativa d’asta
e un riciclaggio, a che ti serve la lezione del trasformismo dell’età giolittiana per trattare con Verdini e farti dare i voti che ti
mancano in Parlamento? Basta un leggero fondotinta che a tutti sembrerà acqua e sapone, e
via. Dai, ridillo: «Mio padre è una persona perbene», puoi metterci tutta l’innocenza di una Vergine da presepio vivente, tanto a certificarlo c’è tanto d’archiviazione del consulente del governo di cui sei membro.
No, niente di nuovo in questi fenomeni spacciati per prototipi
di una nuova razza: sono i figli di una
provincia che continua a produrre mascalzoni indorati di decoro,
furbastri che spacciano lo scilinguagnolo per dialettica, parvenu che
spendono la loro vita tra commercialisti e avvocati, la domenica a
messa e il lunedì a spremere occasioni dalla Gazzetta Ufficiale. La reputazione d’essere dei dritti come bussola e sestante, la raccolta dei proverbi
come orizzonte esistenziale, l’orologio di marca come feticcio.
venerdì 22 gennaio 2016
Corrispondenze
Ti
risulta, come a me pare, che l’accentuazione di Dio come amore,
fino a dire che l’essenza stessa di Dio è amore, sia una questione
relativamente recente. Voglio dire, so bene che una teologia
dell’amore è presente, almeno in nuce, già negli scritti
giovannei, e che tutta la faccenda dell’amor dei è uno dei cardini
della mistica cristiana e della teologia che ne deriva.
Però
mi pare che nei scoli scorsi si ponesse più l’accento su quelle
che potremmo chiamare le “qualità oggettive” di Dio: perfezione,
giustizia, onnipotenza, eternità e così via, e che si facesse
riferimento al suo essere summum bonum più che alla sua
amorevolezza. Insomma, la concezione metafisica era ben salda e la
centralità di Dio era affermata dall’ordine stesso dell’esistente.
Mi pare che di recente, a seguito del crollo dell’edificio
metafisico della creazione e alla sua sostituzione con una
spiegazione scientifica dell’universo, la Chiesa sia passata, nei
fatti anche se non nella dottrina ufficiale, a un generico deismo per
quanto riguarda la creazione (un Dio che dà il la al Big Bang, non
certo uno che presiede attivamente alla conservazione dell’essere),
per costruire un rapporto con il divino che si gioca tutto sulla
devozione e sul sentimento, non potendo più fondarsi su una
necessità ontologica.
Ora,
se la mia ricostruzione ha un senso (e ti prego di corroborarla o
smentirla), mi pare che ci si trovi di fronte a una bella strettoia:
se l’universo resta comunque una creazione divina, ne possiamo
ammirare senz’altro la perfezione (e mi pare che una certa
inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il
principio della finalità), ma che non trabocca certo di amore. La
natura si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una
narrazione dell’amore divino: un Dio la cui essenza sia l’amore
potrebbe, nella sua onnipotenza, aver creato qualcosa di diverso
dalla catena alimentare.
Insomma,
la mia è un’ipotesi, anzi, un abbozzo di ipotesi: porre l’accento
tutto sull’amore è un modo per tenere in piedi la devozione
uscendo dalle costrizioni della metafisica, ma è solo un modo per
mettere la polvere sotto il tappeto, visto che comunque l’edifico
metafisico, per quanto lo si nasconda, deve sempre reggere tutto. Se
pensi che la cosa abbia un senso, e se hai qualche riscontro, ti
prego di farmelo sapere.
Nane
Cantatore
Una
religione che postula l’ipostasi
di Dio è giocoforza sottoposta a un inesorabile processo di
immanentizzazione: non per attacco esterno, ma per erosione interna.
Quando poi pretende che Fede e Ragione debbano andare a braccetto, è
inevitabile che il dogma si metaforizzi e la dottrina si riduca a
precettistica: dal greco al latino, il Logos di Giovanni diventa
Verbum, e segue il destino della Parola, che nel tempo subisce
l’ineluttabile
trasformazione cui è soggetta per le sue declinazioni e
coniugazioni. Il fenomeno che tu descrivi, insomma, era già tutto
nel cristianesimo nel momento in cui incontrava l’ellenismo,
e la tua ipotesi è anche la mia, d’altra
parte mi pare di averla anche illustrata in molte occasioni. Due soli
rilievi rispetto a quanto mi scrivi: a) non mi pare che «una certa
inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il
principio della finalità»: direi che questo accada solo col
travisamento della teoria di Darwin, in special modo col suo
travisamento strumentale ad opera di chi sostiene la tesi del Disegno
intelligente; b) «la natura [che] si presta molto più a una
descrizione hobbesiana che a una narrazione dell’amore
divino» scioglie la sua contraddizione nella costruzione di una
cosmogonia in cui peccato originario e libero arbitrio danno
soluzione a ogni teodicea. Infine, e a cornice del tutto, il collasso
dei sistemi metafisici (non solo di quello cristiano), che sposta il
fuoco della dottrina morale dalla conquista della vita eterna alla
ricetta dell’anodino
quotidiano.
Ti abbraccio,
L.
Sul
punto b) non credo che la soluzione possa ricondursi al libero
arbitrio: la questione che vorrei proporre a un ipotetico apologeta
del Deus sive amor sarebbe proprio quella della sofferenza pura che
pervade il creato, anche al di fuori del libero arbitrio. Per
sviluppare la questione: il problema è che, se l’essenza
di Dio è amore, come diceva l’emerito
BXVI, se l’amore
non è attributo ma appunto essenza, allora la creazione, in quanto
manifestazione di questa essenza, dovrebbe essa stessa essere
amorevole, e a questo punto vorrei capire in che modo si spiega una
natura fatta di predatori, di violenza e di sofferenza: perché il
leone non giace con l’agnello,
se nessuno dei due ha libero arbitrio? La faccenda regge abbastanza
bene con la concezione classica, per esempio la quarta e la quinta
via di Tommaso (gradi di perfezione e finalità), ma regge proprio
perché qui si tratta di un’architettura
razionale e non di un atto di amore e basta, che dovrebbe produrre
semmai un mondo di minipony e cucciolotti, non certo di zanzare e
squali.
N.
Sbaglio
o stai chiedendomi di vestire i panni di un “apologeta
del Deus sive amor”?
Non ho alcuna difficoltà: il copione è di una semplicità estrema.
Il creato è pervaso dalla sofferenza come conseguenza del peccato
che l’uomo
ha liberamente scelto. Sì, mi dirai, ma il leone non giace con
l’agnello.
Qui, da copione, sorrido paternamente e ti invito a non considerare
l’uomo
e l’animale
sullo stesso piano, e ti rimando al Libro della Genesi. Tu,
ovviamente, ti incazzi un pochino e mi dici, sì, ma i bambini? Non
sono innocenti, i bambini? Rischiando un cazzotto in faccia, io ti
rispondo che il peccato originario si eredita al momento della
nascita, e che le sofferenze di quanti ti sembrano innocenti – qui
calco un po’
su “sembrano”
– sono parte essenziale di un progetto del quale non ci è dato
sapere il fine, ma sulla cui bontà comunque non è dato sollevare
dubbi, anzi, sarà proprio nel discioglimento
di questo mistero che vi sarà la ricompensa per chi avrà voluto
considerarlo divina provvidenza. E qui che cazzo potrai mai
rispondermi? Ogni idea di amore che porterai a obiezione non sarà
mai commensurabile a quella del sommo bene che è Dio. No, caro Nane,
non c’è verso: la fede è un labirinto di specchi, e dall’esterno
si capisce che non c’è
via d’uscita, mentre all’interno sei sempre in così buona
compagnia che della via d’uscita neanche sai che fartene.
L.
Concordo
in pieno sulla generale insensatezza della fede, ma ho qualche dubbio
che il copione ben noto, che tu hai così efficacemente recitato, sia
oggi non dico sostenibile (ché non lo è mai stato), ma praticabile.
Quello
che salta agli occhi è che tutta la fregnaccia del Deus sive amor
dovrebbe servire a trascendere in qualche maniera la classica
architettura metafisica in un mondo che ha una concezione
dell’universo
difficilmente sostenibile, anche rispetto al suo target, a partire
dal resoconto di Genesi, e che fatica un po’
a immaginare che miliardi di galassie esistano solo perché la
signora Pina capisca l’amore
divino e porti i nipotini al Family day.
Insomma,
tu mi riporti alla spiega classica del libero arbitrio, che è presa
pari pari anche dalla catechesi di sempre; a me sembra che la menata
dell’amore
come essenza di Dio renda ancora più difficile tutta la faccenda,
che dovrebbe invece semplificare.
N.
Sono
pienamente concorde, tranne nelle conclusioni: rende più difficile
la cosa a me e a te, ma la cosa non è stata costruita così com’è
per me e per te: serve a chi in passato aveva il dogma (tutto intero:
modo e topos) e oggi ne ha solo ciò che del contenuto non è
diventato del tutto inservibile alla mitopoietica di un Dio
immanentizzato, a una catechesi che ormai si è quasi del tutto
psicologizzata, a una dottrina indistinguibile da un vademecum, a una
teologia perennemente ondivaga tra mera glossa e licenza eretica.
Dell’inferno
si parla pochissimo, di Satana quasi soltanto per mantenere il punto,
e della Trinità quasi per niente. Mai tanto poco come in questi
ultimi decenni si è parlato del destino transmondano dell’anima,
la sua salvezza si è ridotta alla conquista della serenità, mentre
il timor di Dio s’è
esaurito nel senso di colpa. Vedi? Sono lamentele sovrapponibili a
quelle che i cattolici più oltranzisti scaricano nei loro
claustrofobici forum, e infatti il loro è l’unico
cattolicesimo che resiste. Ormai serve a ben poco decostruire
l’edificio:
è già decostruito.
L.
Sì,
certo, a prendere sul serio la Chiesa siamo rimasti solo noialtri
atei, e i conservatori più oltranzisti, nei cui confronti condivido
la tua simpatia. Ormai è chiaro che tutta la vecchia baracca è
un’accozzaglia
di sentimentalismo condito da una spiritualità che se fosse un po’
più accentuata sarebbe quasi new age, di consigli della nonna e di
abitudini e tic identitari, inglobato nella più grande ONG di
servizi sociali al mondo, che come ogni ONG si specializza
nell’opacità
dei bilanci e nella veemenza dell’azione
lobbystica. Da questo punto di vista il buon Bergoglio, che ogni
giorno somiglia di più a Giovanni Rana, è il testimonial perfetto.
Però,
visto che le ubbie teologiche sono un passatempo innocuo, un po’
come i cruciverba o la filatelia, mi diverto ancora a vedere come si
inventino toppe che peggiorano il buco: la vecchia teodicea riusciva
in qualche maniera a venire a capo del problema del male nella
creazione, o per lo meno a fare ammuina in modo passabile, ma tutta
questa faccenda dell’amore
come essenza mi pare che finisca per porre in modo inedito il
problema della forma
del
creato, che è evidentemente inconciliabile.
N.
Un tempo la baracca produceva rompicapo sfiziosi, ora ’sta manica di assistenti sociali del cazzo è capace solo di sofismi fessi. Ancora con Ratzinger riuscivi ad arrabbiarti, ora è noia senza fine. D’istinto, per riflesso condizionato, ti verrebbe di commentare ogni uscita di Bergoglio, ma, appena ci metti mano, ti senti più cretino di quanto lui si sforza di essere. Caro Nane, è finita un’epoca:
L.
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