Bersagliato
dalle critiche per la sua seconda infelice uscita sulla disoccupazione
giovanile, che tuttavia, come la prima, ha il pregio di rivelarci
quale miserabile ometto sia rincantucciato in quello sproposito di
omone, Giuliano Poletti riesce a fare anche di peggio nel tentativo di
schermirsi: «Il calcetto – dice – era metafora delle relazioni
sociali».
Nulla da correggere, dunque, riguardo all’affermata
priorità delle entrature rispetto ai meriti, che indubbiamente oggi
è realtà di fatto, come d’altronde è dimostrato proprio da chi
non si capisce con quali meriti sieda a capo del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali, visti i risultati della sua azione di
governo: solo l’essere riuscito a tessere una solidissima rete di
relazioni sociali può spiegarlo, e per farsi un’idea di quale genere basta aver letto Falce e carrello
(Bernardo Caprotti, Marsilio 2007), spaccato di un affresco antropologico prima che economico e politico.
Sta di fatto che Giuliano Poletti non si è
affatto limitato a fotografare una realtà di fatto: ben lungi
dal definirla odiosamente iniqua nei confronti di chi fra i suoi
meriti non può vantare quello di essere un maneggione, l’ha
legittimata come la sola possibile. In sostanza ha detto: «Così è:
adeguatevi. Oppure – e qui pare evidente il richiamo a quanto disse
alcuni mesi fa – andatevene all’estero, perché di chi non sa
adeguarsi possiamo fare a meno, anzi, ci infastidisce averlo tra i piedi». E si può capire: uno che pretende sia dato il giusto riconoscimento ai propri meriti, e non coglie l’importanza del lasciarsi dribblare la palla da chi può restituirgli il simpatico gesto atletico con uno splendido voucher, diciamo la verità, che ci sta a fare nel paese dove il servilismo è considerata un’arte? Perché scandalizzarsi, poi? Che c’è di nuovo rispetto allo «sposi un uomo ricco» che Silvio Berlusconi dava in risposta alla precaria che gli chiedeva con quali mezzi potesse aspirare a crearsi una famiglia?
Le chiamano gaffes, direi che invece sono i capisaldi di un vero e proprio
manifesto politico. In tal senso credo che a Matteo Renzi si faccia un grave torto nel rimproverargli di non avere un progetto di società, perché gli uomini e le donne che ha portato al governo, e lui stesso, ne illustrano a dovere uno che è la fedele riproduzione della provincia di cui sono il frutto: figli di intrallatori perennemente attaccati al telefonino, alla Gazzetta Ufficiale, alla pagina dei necrologi, per costruire la trama di affarucoli e scambi di favore, pastette e pacche sulle spalle, simpatie e interessi, a messa la domenica e il lunedì a brigare nello studio del commercialista. Il calcetto – è evidente – sta solo a metafora.