giovedì 3 febbraio 2022
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martedì 1 febbraio 2022
Una premessa
giovedì 9 dicembre 2021
“Molti altri tacciono per evitare conseguenze”
Carlo Lottieri, docente di Filosofia del Diritto, intervistato da Pietro Salvatori per huffingtonpost.it (9.12.2021).
Professore, dunque cosa ci faceva ieri a Torino insieme a Cacciari, Mattei e Agamben?
Da qualche tempo penso che stiamo assistendo a un cambiamento istituzionale, sociale e politico che sta restringendo le libertà individuali in nome di un appello all’emergenza, e ritengo questo che esiga una reazione. Siamo persone che hanno trascorsi diversi e idee anche contrastanti, ma che si trovano d’accordo di fronte all’esigenza di tutelare l’inviolabilità del corpo umano, opponendosi all’isteria alimentata dal potere attuale. Di fronte al Leviatano sanitario serve una coalizione che difenda la libertà di pensiero. Mi piace il fatto che si parli di noi come di “renitenti”, come di coloro che nella Prima guerra mondiale si rifiutavano di uccidere e di morire.
Ma la vostra libertà mette in pericolo la libertà altrui. Rifiutate di uccidere o morire ma aumentate il rischio per chi vi sta attorno. C’è una dimensione collettiva della libertà, non può non tenerne conto.
Non è così. O i diritti fondamentali esistono e sono inviolabili, oppure non esistono per nulla e sono mere concessioni del potere. Né penso difendibile la tesi secondo la quale la scelta di non vaccinarsi comporterebbe un danno per gli altri. Il grande equivoco è che o sosteniamo che vaccini sostanzialmente funzionano, o riteniamo che non funzionano. Se ti vaccini e hai una copertura dal virus, cosa temi dagli altri? Una persona protetta dal vaccino – che ha meno probabilità d’infettarsi e se questo avviene molto spesso non deve affrontare gravi conseguenze – ha davvero poco da temere da un non vaccinato. C’è un brocardo che recita: “De minimis non curat praetor”. Il comportamento di chi non si vaccina non può essere considerato lesivo dei diritti altrui, e infatti in vari Paesi non lo è.
Ma i vaccini sono un argine alle ospedalizzazioni, agli ingressi in terapia intensiva, agli stessi decessi.
Questo non lo discuto. Non siamo contro i vaccini. Chi vuole può tutelarsi con questo strumento e dovrebbe anche avere il diritto di poter scegliere quale tra i molti vaccini disponibili, senza per forza farsi iniettare un farmaco scelto da altri. Mia madre è vaccinata e mia figlia lo è, e mi fa piacere che lo siano.
Lei no?
Io no.
Ma se non è contro i vaccini!
Ho scelto di non vaccinarmi per una questione di principio: etico-giuridica, non sanitaria. Tutti gli anni tengo un corso sull’obbligo politico (cercando di mostrare come sia illegittimo che alcuni uomini dispongano di altri uomini), e sarei stato incoerente se avessi subito chinato la testa: accettando senza la minima reazione la condizione di suddito.
Ma perché suddito, scusi?
Perché quando qualcuno impone qualcosa a qualcun altro, il secondo non è più un uomo libero. E perché c’è stata una scelta politica precisa: quella di puntare solo su una delle varie risposte possibili. Ma la medicina deve essere tarata su persone tra loro molto diverse. In ragione di un ben preciso calcolo politico, ci considerano tutti identici, e in tal modo si sta scivolando verso logiche totalitarie giustificate da quella che viene chiamata “la scienza”. La ricerca scientifica autentica, invece, vive di dibattiti e cresce attraverso autentiche rivoluzioni, come furono quelle di Galileo oppure Einstein, che dissero cose del tutto eretiche rispetto alle opinioni degli altri studiosi in quel momento.
Ma ci sono già almeno 10 vaccini obbligatori per i bambini nel nostro paese, e nessuno ha mai posto di questi problemi.
Non è vero: c’è chi giustamente ha protestato e ha alzato le barricate! È vero che l’Italia ha una storia profondamente illiberale da questo punto di vista. Fra un po’ imporremo pure le trasfusioni ai testimoni di Geova…
Non mi dica che è d’accordo con Agamben quando introduce analogie tra Draghi e il nazismo.
Abbiamo alle spalle cinque secoli di storia dello stato moderno: un’istituzione che non riconosce nulla sopra di sé. Queste cose le dicevano Bodin, Hobbes e Rousseau, non io. Come europei, dobbiamo sapere che abbiamo costantemente nella nostra storia il rischio totalitario: non è un qualcosa venuto dal nulla e che si è esaurito nella Germania degli anni ’30 e ’40.
Dunque mi faccia capire: pensa che oggi ci siano elementi per poter fare dei paralleli con le leggi razziali, o con l’eliminazione dei disabili portata avanti da Hitler…
Penso che siamo in presenza di forme sottilmente totalitarie. Hannah Arendt sostiene che nei regimi totalitari il potere non si limita a comandare, ma punta a conquistare il cuore e la mente dei suoi cittadini. Il vero trionfo del potere non è la passiva obbedienza, ma l’attiva partecipazione. In questo senso il green pass è cruciale, perché chiede un’adesione attiva. D’altra parte, quella libertà di pensiero che storicamente era associata alla tolleranza – qualcosa che sembrava ormai acquisito – è oggi sempre più limitata. Si pensi alla difficoltà di ragionare seriamente sugli eventi avversi. Siamo di fronte a una prospettiva dogmatica e bigotta, che condanna sul piano morale ogni dissenziente.
Non sarà anche lei sostenitore del Great Reset o di questo tipo di tesi complottiste?
Quello che penso è che vi una generale convergenza sul piano ideologico e degli interessi: burocrati, politici, organismi internazionali, imprese, sindacati, chiese e via dicendo convergono in maniera naturale a protezione del nuovo potere. Non c’è quasi più spazio per un’economia libera, così come si restringe la possibilità di un pensiero indipendente e scettico. Non c’è allora bisogno di un disegno, perché ci sono tanti interessi sintonizzati tra loro e c’è una comune visione ideologica nelle élites. Ed è già pronto quel che verrà dopo.
E cosa verrà dopo?
La crisi climatica sarà la nuova emergenza, utile a distruggere ancor più il diritto e le libertà individuali.
Aspetti un attimo, cosa c’entra?
La dissoluzione del diritto troverà una straordinaria opportunità su quel versante, e può già contare su un consenso costruito nel corso di decenni. Perché vede prima che vi fosse un’offerta di pandemia c’era una domanda di pandemia.
Ma che significa una “domanda di pandemia”?
Per i governi e le élite a loro connesse la pandemia è stata una straordinaria opportunità: tanto più che abbiamo visto una società che ha chiesto solo di essere guidata, timorosa di morire di Covid e dominata da un’isteria irrazionale. Dal coprifuoco dopo le 10 di sera alle mascherine all’aperto, abbiamo aderito a misure senza senso.
Mi perdoni: quindi secondo lei da Biden a Putin, da Draghi a Merkel, da Aifa a Ema, sono tutti d’accordo in un grande piano interconnesso per controllarci?
I governi esistono e contano molto, le lobby egualmente, e le élite pure. Poi per fortuna c’è qualche defezione: dalla Svezia alla Florida. Ma noi italiani purtroppo abbiamo fornito lo standard, essendo stati il primo paese occidentale a essere stato colpito. E non è un caso che abbiamo prima dato il fascismo all’Europa e poi per decenni abbiamo avuto il partito comunista più grande dell’intero Occidente.
Volete fare un partito anche voi?
Personalmente penso che sarebbe disastroso. Abbiamo idee molto diverse, anche se siamo uniti in difesa dei diritti fondamentali, della libertà di cura e della difesa del pluralismo. Credo che servirebbe una serie di realtà politiche molto diverse, ma in grado di allearsi. Un comitato chiamato a restaurare il diritto e la libertà di espressione.
Ma libertà d’espressione è garantita. Le vostre tesi sono sui giornali, io la sto intervistando, andate in tv.
In genere sono trappole. Basti dire che siamo definiti “negazionisti”, un termine che nacque per chi negava la Shoah, e che poi usato per il clima. Qualunque cosa pubblichiamo su Fb ci becchiamo una sospensione. C’è un’evidente alleanza tra politica, scienza, finanza, media.
Ma nel regime autoritario che denuncia lei è libero di sostenere queste posizioni!
Quanti come me esprimono queste tesi possono farlo, ma sanno che pagheranno un prezzo. Un mio collega, a Verona, è stato allontanato dopo due minuti in televisione. Molti altri quindi tacciono per evitare conseguenze. A me questo non sembra normale.
venerdì 12 novembre 2021
mercoledì 19 maggio 2021
Povero Zoro!
Non guardo Propaganda live da mesi, dunque ho dovuto recuperare su rivedila7 la puntata andata in onda venerdì 14 maggio, che solo grazie ai commenti di chi seguo su Twitter ho appreso fosse stata disertata da Rula Jebreal, invitata a parlare dell’ennesimo riacutizzarsi del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi, ma non più disposta a farlo dopo aver saputo di essere la sola donna ad essere ospitata in quella puntata. Impegnato com’ero in un delizioso weekend su un’isoletta covid free, però, non ho potuto recuperare la puntata prima di lunedì sera, e qui non metterebbe conto di parlarne, se non fosse che quanto è parso interessante a me, ascoltando il monologo di Diego Bianchi che apriva la serata, non è parso degno di nota a chicchessia.
Ha esordito in questo modo: «È stata una settimana decisamente pesante, impegnativa, sul fronte degli avvenimenti, della storia che si fa, e anche di chi ovviamente cerca in qualche modo, con gli strumenti che ha, di raccontarla. Noi ci siamo preparati per tutta la settimana, come sempre, per questa puntata, e poi, a un certo punto, è successo che, nell’assurdità del momento, oggi la notizia siamo diventati noi, e questa cosa francamente sorprende. Diciamo che a noi piace rincorrere le notizie, scoprire le notizie, dare le notizie: essere la notizia già meno».
Mettendo da parte l’epica che accomuna, nella fatica, «la storia che si fa» e chi la racconta, Propaganda live ha mai dato una notizia? Ne ha mai «scoperta» una? Le «rincorre», questo sì, e, soprattutto, le commenta. Per meglio dire: fa suo il commento che su una data notizia dà il volto noto che è ospitato dalla trasmissione o il tweet scelto nella marea di tweet che l’hanno commentata. Nell’uno e nell’altro caso, come è ovvio, la scelta è legittimamente insindacabile, d’altronde, almeno fino a quando l’ho seguita io, Diego Bianchi ha più volte tenuto a far presente: «Questa trasmissione è mia»; anche in questa occasione, peraltro, ha precisato: «La scelta dei nostri ospiti non è mai neutra. Su questo palco non salgono i politici, per determinati motivi, ma soprattutto non salgono neppure certi pensieri che voi vedete giustamente rappresentati nei talk show».
Una trasmissione, dunque, che, seppure con l’espediente di dar voce a questo e a quello, sostanzialmente esprime una linea editoriale e una linea politica. Fin troppo manifeste, direi, oltre che fortemente motivate, visto l’armamentario messo in campo contro gli avversari, offerti a un pubblico assai fidelizzato come oggetto di esecrazione, differita in feroci prese per il culo, che quasi sempre mirano a farsi tormentoni, per acquistare la viralità del meme.
Una trasmissione propagandistica, dunque, come d’altronde il titolo rivendica, e con fierezza si potrebbe dire, se non fosse che, a suo tempo, quando Gazebo si spostò da Rai3 a La7, la scelta di chiamarla Propaganda live, fu dichiaratamente ironica, a rigettare l’accusa che proprio in quel senso le era stata mossa: «Per non dare ragione a Salvini – disse Diego Bianchi – si fa quello che vuole Salvini». Aveva ragione Matteo Salvini, dunque, ma doveva aspettare quattro anni per vedersela pienamente riconosciuta da un Diego Bianchi senza più alcuna possibilità, e forse neppure voglia, di schermirsi schernendosi. Senza più neppure necessità di farlo, poi, visto che la sua trasmissione ora va in onda da un’emittente privata, e col tempo ha maturato i crediti di cui gode ogni marchettificio culturale del Belpaese, protetto dalla rete di interessi in cui è riuscito a crescere e irrobustirsi.
Quale sia l’area di cui un Diego Bianchi può avere avuto modo, più o meno a buon diritto, di credersi referente, non è un mistero: è quella che, pur con sempre minor consenso in Italia, esprime la ben nota presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra, che proprio a questa sua irrinunciabile presunzione deve le sue più cocenti sconfitte.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.
giovedì 13 maggio 2021
Un’allegoria inservibile
Davide Racca, Descrizione del dispositivo (partic.) * |
«Al condannato viene scritto sul corpo,con l’erpice,
il comandamento che ha infranto»Franz
Kafka, Nella
colonia penale
(1914)
«La
similitudine non è più la forma del sapere,ma
piuttosto l’occasione
dell’errore»Michel
Foucault, Le
parole e le cose (1966)
1. Michel
Foucault apre Surveiller
et punir
(1975) con la descrizione che la Gazzetta
di Amsterdam
del 1° aprile 1757 dà del supplizio subìto pochi giorni prima da
un tal Damiens, parricida: tenaglie gli strappano brani di carne;
nelle ferite così aperte vengono versati piombo, pece e zolfo fusi;
poi è smembrato; i suoi pezzi vengono bruciati; le ceneri sono
sparse al vento.
È
uno degli ultimi supplizi che, nei secoli precedenti, un po’
dappertutto in
Europa, si sono tenuti sulla pubblica piazza: pochi decenni ancora –
dice Foucault – e «il
corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul
viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, [sarà]
scomparso»
da
quella piazza, perché «la
meccanica esemplare della punizione [ha
d’intanto]
muta[to]
i
suoi ingranaggi: la giustizia non si addossa più pubblicamente la
parte di violenza che è legata al proprio esercizio»,
e, «per
effetto di questo nuovo ritegno –
scrive,
dando qui esemplare saggio di cosa sia il «metodo
genealogico» di
cui è debitore a Nietzsche – tutto
un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista
immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani,
psichiatri, psicologi, educatori».
Certo,
ora la pena mostra «meno
crudeltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto,
maggiore “umanità”»,
ma è solo perché, insieme al dispositif
punitif
che la somministra, è mutato «l’oggetto
stesso dell’operazione punitiva»:
«non
è più il corpo, è l’anima» («alla
espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca
in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la
disponibilità»).
Diremmo che ora il comandamento non si accontenta più di sanzionare
la sua violazione, ma vuole essere inciso a fondo in chi l’ha
violato, vuole che il condannato l’abbia
impresso in sé per sempre, che in lui possa essere leggibile a
tutti.
Scorrono
le pagine, si chiude il primo capitolo (Il
corpo del condannato),
si apre il secondo (Lo
splendore dei supplizi),
e il lettore si aspetta che da un istante all’altro,
come allegoria di questo dispositif,
gli si pari innanzi l’Apparat,
la Maschine,
che In
der Strafkolonie
di Franz Kafka uccide il condannato dopo avergli inciso a fondo nella
carne, per dodici lunghe ore, il comandamento che ha violato. Non
accade.
Per
meglio dire: accade, ma a
posteriori.
Accade, cioè, che il racconto di Kafka appaia foucaultiano, per
esempio, a Edson Passetti (Kafka-Foucault, sem medos –
Ateliê Editorial, 2004), a Stefano Marchesoni (Parrhesia e forma-di-vita –
Nóema,
IV-1, 2013), a Micaela Latini (Scrivere la colpa –
Baig
VII,
febbraio 2014), a Davide Racca (Nota al testo per
la
sua traduzione del racconto – Zona Contemporanea, 2015), a Nicolas
Bareït (Reading Kafka after Foucault: “In der Strafkolonie”
–
Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé,
II, 2, 2016), a Gabriella Calcagno (La condanna di avere un corpo – operavivamagazine.org,
6.4.2016), ad Alessandro Baccarin (Colonia penale –
archeologiafilosofica.it,
luglio 2017), e chissà a quanti altri, sfuggiti alla mia peraltro
rapida ricerca, che ha mosso i passi dal constatare che anche in chi
ha più fatto uso della «cassetta
degli attrezzi» di
Foucault qui in Italia – e parlo di Giorgio Agamben – non vi è
alcun cenno a In
der Strafkolonie:
lungo le 1367 pagine che raccolgono la sua produzione (Homo
sacer. Edizione integrale 1995-2015 –
Quodlibet, 2018), Kafka viene citato una dozzina di volte, senza che
mai neppure un cenno richiami il suo racconto.
Come
mai? Non per un rigetto della chiave allegorica come metodo
d’analisi,
evidentemente, perché Agamben la usa spesso, e Kafka non gliene
offre poche: con Der
Prozeß,
con Vor
dem Gesetz,
con Die
Acht Oktavhefte,
perfino con i Briefe
an Milena.
Impensabile, poi, che non abbia letto In
der Strafkolonie
o che, avendolo letto, possa averlo trovato allegoricamente inerte.
Stessa
cosa può dirsi per Foucault, che Didier
Eribon ci dice leggesse Kafka «enthusiastically»,
per giunta in tedesco, accomunato a lui dall’interesse
per «the
same topics, including alienation, institutional power, the
phenomenon of the body, death and authorship, the limitations of
literature and language»
(Michel
Foucault
– Theory
and Society,
XXII, 3, 1993).
Se
poi torniamo a Surveiller
et punir,
dove abbiamo già visto che
il dispositif
punitif
ha una «meccanica»
e degli «ingranaggi»,
troviamo che Foucault insiste pure sulla sua natura «tecnica»,
tiene a sottolineare che ha lo
scopo di essere «marchiante»,
che il procedimento cui dà vita ha una modalità «rituale»,
che
la
sua azione vuole essere «clamorosa»:
non vi è piena corrispondenza con la descrizione che Kafka ci dà
della Maschine?
Dando
per scontato che non si tratti di un atto mancato per rimozione, cosa
rende inservibile a Foucault (e ad Agamben) l’allegoria
kafkiana? Per
cercare una risposta occorre spostare l’attenzione
dalla Maschine
alla vicenda che le si consuma d’attorno.
Ma prima, forse, è il caso di chiarire perché fin qui si è
preferito parlare di allegoria
piuttosto che di metafora.
Entrambe,
infatti, si servono dell’analogia
per dare un’immagine
concreta a un’astrazione,
ma, a differenza della metafora, l’allegoria
concretizza questa immagine su un piano che non è quello del mero
sensibile: l’allegoria
mira ad animare l’analogia,
a darle una struttura razionale, a conferirle movimento in un
contesto narrativo (apologo, favola, mito, parabola), sicché sul
piano dell’argomentazione,
dove è spesa come figura retorica, ovviamente allo scopo di
persuadere, l’allegoria
regge dove la metafora cade. Ma regge se il contesto narrativo le
consente il movimento. Bene, la Maschine
di Kafka regge come metafora, ma come allegoria cade a tre quarti del
racconto, e probabilmente è per questo che Foucault e Agamben
rinunciano ad evocarne l’immagine:
funziona come un dispositif
solo
fino a un certo punto, poi non più.
2. La
Maschine
– ha spiegato l’ufficiale
al
visitatore – «è
un’invenzione
del nostro vecchio comandante. Io ho collaborato ai primi esperimenti
e poi presi parte a tutti i lavori, fino alla fine. Il merito
dell’invenzione,
però, spetta solo a lui. Ha sentito parlare del vecchio comandante?
No? Ebbene, non credo di esagerare, affermando che l’organizzazione
di tutta la colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, cui è
nota la complessa organizzazione della colonia, ci rendemmo conto,
alla sua morte, che il successore, anche con mille nuovi piani in
testa, per parecchi anni non avrebbe potuto cambiare nulla di ciò
che era stato fatto. Le nostre previsioni si sono avverate: il nuovo
comandante ha dovuto riconoscerlo».
L’ufficiale
è, così, garante di una organizzazione di cui la macchina è solo
l’emblema.
Quando infatti il visitatore chiede se il condannato conosca la
condanna, l’ufficiale
risponde: «Inutile
comunicargliela, la conoscerà sul suo stesso corpo»;
e quando gli si chiede: «Ma
saprà almeno che è stato condannato?»,
risponde: «Neppure
questo»;
e ancora, incalzato riguardo a come il condannato abbia avuto modo di
potersi difendere: «Non
ha avuto nessuna possibilità di difendersi»;
e chiarisce: «La
cosa sta così. Nella colonia penale, nonostante la mia giovane età,
svolgo le funzioni di giudice, perché ho sempre collaborato col
vecchio comandante in tutte le questioni disciplinari, e conosco la
macchina meglio di ogni altro. Il principio secondo il quale io
giudico, è questo: la colpevolezza è sempre indubbia. Altri
tribunali non possono seguire a questo principio, perché sono
composti da diverse persone, e sono sottoposti a istanze superiori.
Ciò non avviene qui o almeno non avveniva quando c’era
il vecchio comandante. Quello nuovo ha provato a intervenire nella
mia attività di giudice, ma finora sono riuscito a tenerlo lontano,
e spero di riuscirci anche in seguito».
Il
dispositif
ha
la stessa impenetrabile trama del disegno che nella macchina fa da
guida all’erpice
che incide nella carne del condannato il comandamento che egli ha violato: tanto è intricato il primo, quanto evidente dovrà essere
il secondo, ma c’è
una ratio
che
sostiene la relatio,
ed è quella del potere cieco, ab-soluto,
che fa da primum
movens alla
catena gerarchico-burocratica che lo
amministra. «L’autorità
dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto»,
ci avverte Carl Schmitt (Die
Lage der europäischen Rechtswissenschaft,
1950), ma Max Weber ci fa presente che «l’esercizio
di ogni dominazione, che esiga un’operazione
continua di amministrazione, ha bisogno da un lato dell’azione
umana sottoposta agli ordini di coloro i quali pretendono di essere
investititi del potere legittimo, e, dall’altro,
di disporre, mediante questa subordinazione, [...] di un corpo di
amministratori e dei mezzi materiali per l’amministrazione»
(Politik
als Beruf,
1919). L’ufficiale
incarna appunto questa inderogabile istanza: è Apparat
non
meno di quanto lo sia la macchina. Ma cosa accade nel racconto di
Kafka?
«Il
processo e l’esecuzione
che lei ha l’occasione
di ammirare –
dice
l’ufficiale
al visitatore – non
trovano più, nella nostra colonia, un solo aperto sostenitore. Io
sono il loro unico difensore e insieme l’unico
legatario dell’eredità
del vecchio comandante». Col
nuovo comandante è tutta un’altra
storia, l’ufficiale
ne è cosciente, e sa cosa aspettarsi. «Ieri
le ero vicino, quando il comandante la invitò. Sentii le parole
d’invito.
Conosco il comandante, capii subito a cosa mirava. Benché abbia
autorità sufficiente per agire contro di me, ancora non ha avuto il
coraggio di farlo. Vuole invece sottopormi al suo giudizio, al
giudizio di un illustre straniero. Il calcolo è sottile: lei si
trova nell’isola
da due giorni, non conosceva il vecchio comandante né il suo modo di
pensare; ragiona secondo i princìpi europei, magari è un deciso
avversario della pena di morte in generale e di simili esecuzioni
meccaniche in particolare [...] Considerato tutto questo, pensa il
comandante, è molto probabile che lei non approvi il mio
procedimento. E se non l’approva,
continua a pensare il comandante, non passerà la cosa sotto
silenzio, perché lei è un uomo che ha il coraggio delle sue
opinioni. Ha visto e imparato a rispettare i costumi di molti popoli,
non si esprimerà contro questo procedimento con la violenza di cui
darebbe prova nel suo Paese: ma il comandante non chiede tanto. Basta
lasciarsi andare una parola di sfuggita. Non è necessario che
risponda alle sue convinzioni, basta che sembri favorire la sua tesi.
Sono sicuro che l’interrogherà
ricorrendo ad ogni astuzia. [...] Lei dirà, mettiamo: “Da noi la
procedura è diversa”, oppure: “Da noi si usa interrogare
l’accusato,
prima di condannarlo”, oppure: “Da noi ci sono altre pene oltre a
quella di morte”, oppure: “Da noi le torture sono esistite solo
nel medioevo”. Considerazioni, ai suoi occhi, tanto rispondenti a
verità quanto naturali, considerazioni inoffensive, che non toccano
il mio sistema. Ma come le interpreterà il comandante? Mi sembra di
vederlo, il buon comandante, respingere la sedia e correre al balcone
[...], mi sembra di sentire la sua voce: “Un grande esploratore
dell’Occidente,
incaricato di studiare l’ordinamento
giudiziario dei vari paesi, ha detto un momento fa che i nostri
provvedimenti giudiziari sono inumani. In seguito al giudizio di una
tale personalità non mi è più possibile, naturalmente, tollerare
questa procedura. Da oggi in avanti ordino...”. [...] Arrivati a
questo punto, le chiedo: mi appoggi nei confronti del comandante!».
L’appoggio
che l’ufficiale chiede al visitatore è in apparenza anodino, ma in
realtà mira a depotenziare la funzione di pretesto che il visitatore
può dare al comandante: «Io
non le chiedo di mentire, nemmeno per idea. Basta che lei risponda
con poche parole, per esempio: “Sì, ho visto l’esecuzione”,
oppure: “Sì, ho ascoltato tutte le spiegazioni”. Solo questo,
niente di più».
Ma il visitatore si dichiara indisponibile: «Sono
un avversario di questa procedura. Prima ancora che lei mi provasse
la sua fiducia, fiducia di cui non abuserò in nessun caso, mi ero
chiesto se avevo diritto di intervenire contro questa procedura, e se
il mio intervento aveva una probabilità, sia pur minima, di
successo. Non avevo dubbi sulla persona alla quale dovevo prima
rivolgermi: era il comandante, naturalmente. Lei mi ha solo
confermato nel mio convincimento, ma, ripeto, ero deciso in
precedenza: l’onestà
delle sue idee mi tocca, anche se non può distogliermi dal mio
proposito. [...] Dirò al comandante il mio pensiero sulla procedura,
non in una riunione, ma a quattr’occhi»,
con ciò sottintendendo: eviterò che ciò che penso possa essere
usato contro la procedura (offrendomi al comandante come pretesto per abolire ciò che fin qui non ha voluto abolire pur avendone il potere); ma eviterò anche che ciò che
penso possa essere usato in
favore
di essa (facendo in modo che la mia indifferenza costituisca un
ulteriore freno).
È
qui che la possibile allegoria implode, con una delle improvvise e sconvolgenti torsioni che Kafka imprime così spesso alla sua narrazione: l’ufficiale
grazia il condannato e, dopo aver riprogrammato il comandamento che
l’erpice
dovrà incidere (stavolta è «Sii
giusto»), si stende sul lettino della macchina e le dà avvio. Ma qui,
all’implosione
dell’allegoria
corrisponde l’esplosione
della macchina, dalla quale quasi subito schizzano fuori ad una ad una le ruote
degli ingranaggi, fino a quando «l’erpice
si alzò di fianco, con il corpo trafitto, come faceva soltanto nella
dodicesima ora».
Così, «il
movimento conclusivo [quello
programmato a scaricare il cadavere nella fossa destinata ad
accoglierlo] non
riuscì, il corpo non si staccò dai lunghi aghi; il sangue
continuava a fluire, e quello rimaneva sospeso nella fossa, senza
cadere. L’erpice
sembrò voler tornare nella sua posizione normale, poi, quasi
sentisse di non essere ancora liberato del suo carico, rimase sopra
la fossa»; e lì il cadavere resta, inchiodato all’Apparat
cui era tanto affezionato, con un comandamento inciso addosso che il
sangue non consente di leggere.
3. Pare evidente che non è questo il modo in cui funziona un dispositif punitif: non si ha contraddizione interna al suo impianto; la linea gerarchico-burocratica che lo amministra non ha inerzie; a un ufficiale addetto al suo funzionamento non capiterà mai un infortunio da arroseur arrosé. Come metafora, la Maschine funziona; come allegoria, no. E probabilmente è questa la ragione per la quale in Foucault (e in Agamben) non se ne ha traccia.