Sull’immunità
parlamentare ho già detto cosa penso, qui mi limiterò a dire che in
tutte le sue forme, anche in quelle che alcuni ritengono
eccessivamente ridimensionate dalla revisione dell’art.
68 della Costituzione, è un istituto che ha perso ogni funzione di
garanzia per diventare solo un odioso privilegio.
Si prenda il primo
capo del suddetto articolo: «I
membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle
opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio
delle loro funzioni».
Poteva avere un senso, in passato: tutelava l’oppositore
che un regime avesse l’intenzione
di rendere inoffensivo servendosi di una magistratura debitamente
asservita. Ma oggi? Si prenda, per esempio, un’opinione
che esprima contenuti ipoteticamente discriminatori in ordine alla
razza, e la si metta in bocca – uguale in tutto, fino alla virgola
– ad un comune
cittadino, prima, e ad un parlamentare, poi: perché, se giudicata
offensiva in un caso, dovrebbe rimanere impunita nell’altro? Per
meglio dire, cos’è che la rende inoffensiva in bocca ad un
deputato o un senatore? Cosa dovrebbe giustificare il fatto che chi
sia stato fatto oggetto di questa offesa possa aspettarsi di avere
giustizia nel primo caso, e non nel secondo?
Così al secondo e al
terzo capo, che recitano: «Senza autorizzazione della Camera
alla quale appartiene, nessun membro
del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione
personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti
privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo
che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se
sia colto nell’atto
di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta
per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in
qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza».
Sorvolando sull’efficacia
sostanzialmente nulla di perquisizioni o intercettazioni
preliminarmente annunciate a chi debba esserne fatto oggetto, resta
la questione dell’autorizzazione
della Camera a che la magistratura possa procedere nelle
attività di accertamento di un reato e all’eventuale richiesta di
misure cautelari che essa ritenga necessarie in attesa del processo.
Qui ritengo sia da sospendere ogni considerazione relativa allo stato
dei fatti nel nostro ordinamento – io per primo considero
indispensabile modificarlo in più punti, innanzitutto a garanzia di
chiunque non abbia subìto ancora una condanna definitiva – ma di
appuntare l’attenzione sulla patente disparità di trattamento a
carico di un comune cittadino o di un parlamentare per quanto attiene
all’eventualità che essi abbiano commesso lo stesso reato: è
scorretto affermare che il primo abbia molte più possibilità di
essere condannato rispetto al secondo? Trattandosi dello stesso
reato, è giusto che chi ne abbia subìto il torto dal primo abbia da
attendersi maggiori possibilità di ristoro rispetto a chi l’abbia
subìto dal secondo? E in virtù di quale garanzia che in questo
secondo caso sarebbe necessario assicurare a chi ha commesso quel
reato?
In quanto al fatto che spetti al Parlamento concedere alla
magistratura l’autorizzazione a trattare un parlamentare come un
comune cittadino, la questione rivela molti punti critici, peraltro
eloquentemente illustrati da numerosissime vicende che sono scorse
lungo i decenni di vita di Camera e Senato. Alle Giunte cui i due
rami del Parlamento demandano il compito di individuare un eventuale
fumus persecutionis nelle iniziative della magistratura a carico di
un parlamentare spetta il compito di relazionare alle assemblee se ne
hanno trovato traccia o meno, ma è a queste ultime che spetta
l’ultima parola, che non di rado – l’ultimo caso è quello del
senatore Antonio Azzollini – smentisce il parere di chi ha potuto
approfondire meglio il caso. A stretto rigor di logica, se ne
potrebbe dedurre che le Giunte per l’autorizzazione a procedere
siano del tutto inutili: se ogni deputato ed ogni senatore è in
grado di arrivare a un libero convincimento sul caso di volta in
volta in oggetto, facendo a meno del preliminare lavoro di studio che
un organo appositamente designato allo scopo dedica alle carte
inviate al Parlamento da quella o quella Procura, non si capisce che
senso abbia lo spreco.
Un discorso a parte meriterebbe la natura
della libertà che porta a convincimento un deputato o un senatore
circa l’opportunità che un suo pari sia trattato come un qualunque
cittadino o non abbia a godere di un trattamento di favore, ma è
evidente che su questo punto non arriveremmo mai a cavare un ragno
dal buco, salvo l’uso di strumenti inopportuni e, tutto sommato,
inefficaci. Tuttavia sembra che la delicatezza di quest’ultima
questione non sfugga al nostro beneamato Guardasigilli, che oggi
dalla pagine di un quotidiano a larga tiratura butta lì un’ipotesi
quasi a veder che effetto faccia: affidare alla Corte Costituzionale
il compito di concedere o meno l’autorizzazione a procedere a
carico di un Parlamentare. Come se avesse ben chiaro che razza di
ragno stia nel buco.
Superfluo dire che l’idea sembri avere mero
intento autopromozionale, tanto più se si considera che ad Andrea
Orlando non sfugge il ragno, ma neanche il fatto che l’idea
necessiterebbe di una riforma costituzionale per attribuire alla
Corte Costituzionale un compito che la Carta non le attribuisce, e
allora campa cavallo, tanto più che sul cavallo c’è la Boschi che
di certo non sarebbe disposta rimetter mano alle sue riforme per
infilarci la proposta del signor Guardasigilli. Che in questo modo ci
guadagna il suo bel figurone di gran conoscitore di ragni e di cavalli.