Julián
Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione,
scrive una lunga lettera al direttore del Corriere
della Sera,
che domenica 24 gennaio la manda in pagina titolandola Diritti
tradizionali e valori fondanti.
«Dopo
mesi di discussioni intorno alle unioni civili
– scrive il successore di don Luigi Giussani – il
disegno di legge Cirinnà approda in Parlamento,
scatenando una nuova manifestazione di piazza, anzi due, una a favore
e una contraria. Chi sostiene il progetto reclama il riconoscimento
di nuovi diritti; chi vi si oppone lo fa per difendere diritti
tradizionali».
È un incipit che fa pensare ad una riproposta degli pseudoargomenti
cari a chi si oppone al disegno di legge, perché è evidente che i
«diritti
tradizionali» non
sono affatto messi in discussione dai «nuovi
diritti»
(neppure il matrimonio tra due persone dello stesso sesso toglierebbe
valore a quello tra maschio e femmina, non si capisce quale sia
l’attacco
che gli sarebbe sferrato dal riconoscimento delle unioni civili), e
tuttavia qualcosa lascia intuire che nelle intenzioni vi sia
dell’altro,
perché la posizione che chi scrive si ritaglia sembra voler essere
terza rispetto a quella dei contendenti in campo, e di ciò pare
esservi conferma nella preoccupazione che viene espressa nel
successivo capoverso, dove lo scontro tra favorevoli e contrari al
ddl Cirinnà è detto foriero di «fratture
sociali e conflitti politici che sembrano insanabili».
«Sembrano
insanabili»,
dunque non è detto lo siano davvero: vuoi vedere – ti chiedi –
che questa terza posizione di Carrón
ha in sé il rimedio per sanarli? Se non sei prevenuto verso Cl, non
puoi far altro che continuare a leggere. E sbagli – meglio
chiarirlo subito – perché Carrón non offre soluzione: si limita a
dire che l’oggetto
del contendere è un falso problema (vedremo quale sia, a suo dire,
quello vero), e che dunque non ha senso stare a litigare.
Si ha la
sensazione che Carrón voglia interporsi tra i due litiganti perché
smettano di darsele, e invece non si tarda a scoprire che
l’intenzione
è quella di bloccarne uno, fingendo di abbracciarlo con affettuosa
premura, perché l’altro
possa menarlo meglio.
Ecco allora «la
testimonianza, in cui mi sono imbattuto di recente, di un
omosessuale, che si occupa di moda, ha un bel lavoro e una relazione
con un compagno. A una coppia di amici incontrati per caso confida
che non è felice e dice loro: “È
come se mi mancasse qualcosa, è come se vivessi la mia vita a
partire da una reazione, da una difesa. Ciò mi rende inquieto”.
Inquieto,
come tutti. Tutti tendiamo continuamente a ridurre il
nostro desiderio a una immagine creata da noi, perché così pensiamo
di avere la soluzione a portata di mano. Ma l’uomo reale non si
accontenterà mai. Anzi, il prezzo da pagare è molto alto: soffocare
dietro le sbarre della prigione che ci si è costruiti.
L’insoddisfazione può essere risanata con l’approvazione di una
legge? Tanti credono di sì. Questo spiega la lotta accanita per
approvarla. D’altra parte, chi ritiene che questo mini le basi
della società si oppone spesso con lo stesso accanimento, senza
riuscire a sfidare minimamente, anzi, alimentando, la posizione che
combatte».
In
soldoni, Carrón cerca di scoraggiare chi si batte in favore del ddl
Cirinnà cercando di fargli capire che quand’anche
ottenesse di vedersi riconosciuta dallo Stato l’unione
col proprio compagno – ma che dico, ammesso pure gli si consentisse
di sposarlo – non avrebbe certo trovato la serenità, come
d’altronde non è detto che un eterosessuale riesca necessariamente
a trovarla nel matrimonio.
È chiaro che la ricerca della serenità sia un lavoraccio che spetti a ciascun essere umano, omosessuale o eterosessuale che sia, ma non dovrebbe essere altrettanto chiaro che a
entrambi debbano essere date le stesse possibilità? Quando entrambi ritengono di poterla trovare nel riconoscimento da parte dello
Stato dell’unione con chi amano, negarla a uno e concederla
all’altro non pone qualche problemino?
Chissà quanto
intenzionalmente, a Carrón
sfugge il problemino: «Solo
Cristo, come avvenimento presente nella vita delle persone, è in
grado di liberare l’uomo dalla sua riduzione e di fargli desiderare
e sperimentare quella pienezza per cui è fatto. “Sarebbe
bello vivere il lavoro e i rapporti come li vivete tu e tua moglie”.
Senza una simile esperienza di liberazione, qualunque risposta
cosiddetta “concreta”
sarà sempre insufficiente. Ciascuno di noi ne ha prova diretta nella
sua vita».
Bene, ma questo basta a liquidare come superflua la richiesta di
parità di trattamento da parte dello Stato? In sostanza, sì, o
almeno così parrebbe, perché quale sarebbe il «contributo
che
ciascuno di noi cristiani è chiamato ad offrire al
dibattito in corso»?
Prima di copiarlo dal Corriere
della Sera
per incollarlo qui, via, cercate di indovinare quale possa essere, ’sto contributo.
Non riuscite a immaginarlo? Eccolo: «Noi
sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere
umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’Ecce homo
di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona,
salva».
Come so’
brutti ’sti
lupi che ululano nelle piazze per il riconoscimento di un diritto
che, quand’anche
fosse riconosciuto, sarebbe sempre insufficiente a dar loro l’agognata pienezza. Orsù, prendessero esempio dal Gesù flagellato e coronato di spine, che non
recrimina.