[La
polemica che montò intorno al brano che Joseph Ratzinger trasse
dalla settima διάλεξις di Manuele II Paleologo e ficcò
nella lectio tenuta a Ratisbona nel 2006 oscurò il tema che
affrontava in quel testo con la logora riproposizione del trucchetto
tardo-ellenistico di mettere la maiuscola a λόγος
(pensiero) per farlo diventare Λόγος
(Dio) e così costringere la ragione a far la colf della fede: le
isteriche reazioni nel mondo musulmano e l’indecorosa
marcia indietro che portò a ben tre riscritture del passaggio misero
in ombra il numero da treccartaro di scuola agostiniana.
Così è
accaduto con gli «appunti»
destinati alla pubblicazione su Klerusblatt:
imputare al Sessantotto la pedofilia dei preti e ringraziare Dio per
aver fatto crepare Franz Böckle prima che potesse contestare
la Veritatis splendor hanno fatto velo alla questione
affrontata in quel testo che in buona sostanza riafferma la pretesa
del primato etico della Chiesa come indefettibile interprete del
dettato morale intrinseco all’ordine
creaturale.
Pretesto imperdibile per un quarto d’ora
di evasione da Twitter.]
Quando
parliamo dei principi cui le nostre azioni devono aderire per
perseguire il bene, siamo nel campo della morale, mentre invece siamo
in quello dell’etica, quando parliamo delle modalità con cui
questi principi devono essere messi in pratica. In entrambi i casi si
può avere la sensazione di stare a discutere di norme antecedenti e
superiori all’uomo, sennò intrinseche alla sua natura, comunque
universali ed eterne, valide per tutti, ovunque e sempre, e tuttavia
siamo costretti a fare i conti, fin dall’etimo, col fatto che i
mores che fanno la morale e l’ethos che fa l’etica
altro non sono altro che usanze, consuetudini,
abitudini: che usus è participio passato di uti,
che è trarre utilità da, servirsi di, avvantaggiarsi
da; che cum-suetum è quanto di proprio, cioè di suum,
sta in ciò che solemus, diverso da quello che in passato
altri solebant, quasi certamente diverso da quello che in
futuro altri ancora solebunt; che habitus è abito,
costume, non quello che c’è dentro. Siamo costretti,
insomma, a prendere atto della natura eminentemente culturale delle
regole che una data società in una data epoca si dà come ottimali.
Non dovrebbe darci da pensare che per quanto così spesso siamo
inclini a considerare universale ed eterno – cosa sia il bene, come
esso sia efficacemente perseguibile – abbiamo a disposizione solo
termini che rimandano al particolare e al temporaneo? Sembreremmo
essere alle prese con un assoluto, mettiamo la maiuscola a Bene, ma
le nostre parole rimandano alla relatività di un ethos che
nel suo significato originario è il posto in cui si vive (dunque
ambito, contesto, che dà un senso a ciò che, fuor
d’esso, ne ha un altro, o addirittura non ne ha alcuno) e a quella
di mores che in radice sono misure dell’agire (e
dunque ne caratterizzano il valore parametrandolo, dandogli
significato in funzione di incidenza, distribuzione, frequenza,
durata, ecc.).
Basterebbe questo a smascherare l’impostura che si
cela nella cosiddetta teologia morale, «la scienza
procedente dalla divina rivelazione che ordina gli atti umani alla
beatitudine soprannaturale», dove già la definizione mostra un
altro controsenso, perché la rivelazione cade giocoforza in un certo
posto e in una certa epoca, e dunque non può esser recepita che nei
modi dati come possibili in quel luogo e in quel tempo,
cristallizzandosi in usanze, consuetudini, abitudini,
che possono ragionevolmente trovare senso presso una tribù di
pecorai sprofondata nel medioriente di due millenni fa, ma
altrettanto ragionevolmente non trovarne alcuno altrove, né prima,
né dopo.
È che, al pari della «legge di Natura», anche la
«legge di Dio», che spesso le è coincidente per la cogente
relazione tra Creatore e Creato, e che diventa addirittura inferenza
di «immagine e somiglianza» nella Creatura, è un prodotto
storico, precettistica che può pretendere obbedienza solo al
perpetuarsi delle condizioni che l’hanno resa funzionalmente
efficace quando è stata adottata. Dovrebbe bastare questo a rendere
evidente che la pretesa di un sistema morale valido per tutti, sempre
e ovunque, cela in realtà il disegno di perpetuare il tipo di
società che l’ha prodotto, a dispetto di ciò che ineluttabilmente
la trasforma.
Ma cosa la trasforma? In sostanza a trasformarla è
l’insorgenza di nuovi bisogni, individuali o collettivi, che
riescono ad acquistare forza fino a porsi come problemi, e a chiedere
soluzioni adeguate, cioè conformi a una ratio, che, prima di
essere ragione, è calcolo, misura, proporzione.
A ben vedere, tutti i momenti dell’insanabile conflitto tra fede e
ragione, cui tante anime pie si affannano vanamente a trovar rimedio,
sono già tutti in nuce a questo inevitabile conflitto tra una
morale che si pretende universale ed eterna e una morale che si
dichiara autonoma e razionale: tra una morale che si esaurisce nelle
interpretazioni della rivelazione, anzi nell’interpretazione che è
stata capace di imporsi su tutte le altre, e una morale che trae
consapevolezza (cum-sapio) interrogando la coscienza
(cum-scio). Una morale, quest’ultima, specularmente opposta
alla teologia morale, che – dicevamo – è «la scienza
procedente dalla divina rivelazione»: qui è la scientia che
procede dalla sapientia, che ovviamente è quella somma di
Dio, ma è tenuta a procedere con la permanente assistenza della
Chiesa, che «è il luogo della conoscenza dello Spirito Santo»
(Catechismo della Chiesa Cattolica, 688).
La situazione
cui Joseph Raztinger fa cenno nella prima delle tre parti di cui si
compone il testo destinato alla pubblicazione su Klerusblatt
fotografa il momento storico in cui la tradizionale soluzione del
conflitto tra ragione e fede, da Tommaso risolta nell’assegnare
alla prima il ruolo di ancella della seconda, comincia ad essere
avvertita come inadeguata perfino nel mondo cattolico e, incredibile
a dirsi, addirittura nella cerchia dei teologi morali, in particolar
modo quelli di scuola tedesca. Il più autorevole esponente di questa
scuola, Franz Böckle, sostiene che «la coscienza esige dall’uomo
un giudizio ben fondato, perciò la decisione può essere presa solo
sulla base di motivi ragionevoli [sicché] le norme morali
insegnate dal Magistero obbligano solo nella misura in cui la
coscienza viene convinta dalla ragionevolezza degli argomenti posti a
loro sostegno». In sostanza, è come dire che sono valide solo
le norme morali che la coscienza ritiene razionalmente fondate: un
cattolico potrebbe rifiutarsi di obbedire ai precetti della Chiesa di
Roma, laddove non ne fosse persuaso, in forza di quell’autonome
Moral che non è mera opinione personale, ma rifiuto
razionalmente argomentato dell’interpretazione che il Magistero dà
del dettato evangelico; oppure, pur persuaso dell’interpretazione
che ne dà il Magistero, potrebbe ritenere legittimo uno scarto tra
principi generali e norme concrete.
Non è difficile immaginare come
possano suonare questi tesi all’orecchio di chi, facendo propria la
lezione di Tommaso, trova disobbediente pure il cattolico che segua,
sì, gli insegnamenti della Chiesa, ma solo perché trova che essi
coincidano con le proprie opinioni: l’obbedienza vera si realizza
pienamente nel non averne di proprie, né prima, né dopo la
ricezione del Magistero.
Qui possiamo cedere il racconto a Joseph
Ratzinger: «Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la
situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose
che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che potesse rimettere a
posto queste cose».
Si sarebbero rimesse a posto in questo modo:
«Sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la
concezione tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe
come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi
biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad
alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e,
in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali
universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile
“argomentazione biologista o naturalista” sarebbe presente anche
in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in
quelli riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale.
In base ad una concezione naturalistica dell’atto sessuale,
sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la
contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i
rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la
fecondazione artificiale. Ora, secondo il parere di questi teologi,
la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in
adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell’uomo,
né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono
che l’uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura
deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo
“decidere il senso” dovrà tener conto, ovviamente, dei
molteplici limiti dell’essere umano, che ha una condizione corporea
e storica. Dovrà, inoltre, prendere in considerazione i modelli
comportamentali ed i significati che questi assumono in una
determinata cultura. Questa teoria morale non è conforme alla verità
sull’uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice gli insegnamenti
della Chiesa». (Veritatis splendor, 47).
Li contraddice,
perché insinua che «la Parola di Dio si limiterebbe a proporre
un’esortazione, una generica parenesi, che poi solo
la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni
normative veramente “oggettive”,
ossia adeguate alla situazione storica concreta [e questo non è
ammissibile, perché] un’autonomia così concepita
comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da
parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate
riguardanti il cosiddetto “bene umano”»
(ibidem, 37), il quale deve essere considerato sempre
uguale a se stesso e, ciò che più conta, avere una sola possibile
interpretazione, che dunque non può essere messa in discussione
perché sussunta nel depositum fidei...
Ops, stavo sforando il quarto d’ora. Torniamo all’avvincente derby fascisti-antifascisti su Twitter.