venerdì 12 aprile 2013
[...]
Qualcuno
arrivò a paragonarla a Giovanna D’Arco, gli altri si divisero tra quanti ne
lodavano lo stile, così lontano dalla sguaiatezza leghista, e quanti la
consideravano antipatica, ma concedevano avesse un gran carattere. Quante se ne sprecarono per la Pivetti,
poi ce la ritrovammo in un completino di similpelle nera a presentare un
programmino su una rete Mediaset.
A
considerare quante se ne sprecano per la Lombardi, oggi, sembrerebbe proprio che
il giornalismo italiano non sappia fare a meno di baloccarsi con la propria
stupidità per essere all’altezza della stupidità di chi per costruirsi un’opinione
vi attinge. Chi scorge in lei l’archetipo
della Perfida Stronza, chi le attribuisce un tratto leninista…
Nessuno sembra
essere sfiorato dalla più banale delle evidenze: la Lombardi è il paradigma
della mediocrità che arde e splende nel suo quarto d’ora di celebrità. Sembra
cattiva, ma non lo è, l’impressione è data da quei decenni di frustrazione che
vengono a prendere una boccata d’aria prima di risprofondare in apnea. Se non lo sa, lo sente, e perciò esagera.
martedì 9 aprile 2013
Velatura a calce
Il
giudizio di un’opera d’arte al netto della fama di cui gode l’autore è cosa tanto
più difficile quanto più le sue virtù son celebrate, e diventa difficilissima
quando si tratta di un artista universalmente apprezzato. Mai come in campo
artistico, infatti, vige la regola che l’universalmente apprezzato consenta
solo variazioni delle più comuni lodi che ha fin lì raccolto. Se contiene
spunti critici, infatti, l’analisi dell’opera d’arte universalmente apprezzata sembra
sempre l’eccentrica trasgressione di un bastiancontrario che sfida la solidità
del più ovvio buon senso. Se tuttavia
rimane ancora possibile criticare il lavoro di un artista universalmente
apprezzato quando questi è ancora vivo o quando la sua fama non ha subito ancora
la stagionatura di due o tre generazioni, trovare pecche nel dipinto di un
grande del passato è del tutto sconsigliato, perché si corrono più rischi di
quanti ne corra il blasfemo sorpreso a pisciare nell’acquasantiera. Azzardarsi,
così, a rilevare che le anatomie di Michelangelo sono spesso sproporzionate è
come un bestemmiare.
Chi può permettersi di affermare che «il chiaroscuro del
Caravaggio non ci impressiona più, perché è troppo ovviamente ispirato da un
interesse tecnico e finisce col produrre effetti melodrammatici, con un gusto
del contrasto che trova risultati assai più felici in opere del pieno
Quattrocento»? Giusto un Berenson, non altri. Che però ha ragione: il
Caravaggio «sbatte un cuneo di luce contro una superficie indeterminata, forse
una parete, forse un soffitto, e raramente ci dice dove siamo, in che specie di
spazio la scena si svolge, e fra quali dimensioni». Non è forse vero che i suoi
nudi «sembrano visti indirettamente, come in uno specchio, e mancano del calore
della presenza immediata»? Un artista che si esaurì negli effetti speciali, e
che perciò fu messo nel dimenticatoio per qualche secolo, a ragione superato da
«Velásquez, Vermeer, Rembrandt [che] impararono da lui e, profittando dei suoi
insegnamenti, evitarono gli eccessi dell’innovatore».
Un grande solo dopo la
riscoperta, il Caravaggio. Una fama esagerata, per lo più dovuta al gusto del
momento in cui fu riscoperto. E vogliamo parlare di Leonardo? Eccezionale
anatomista, felicissimo occhio nel cogliere torsioni, scatti e tensioni, ma una
buona volta vogliamo dirlo? Al netto del tanto che se n’è detto, la sua Monna
Lisa fa cagare. Acquista un senso solo coi baffi che le aggiunse Duchamp.
Questo
pensavo domenica, leggendo il doppio paginone a firma di Lauretta Colonnelli su La Lettura del Corriere della Sera, dedicato ai dipinti di Raffaello che
affrescano la Stanza di Eliodoro, di recente sottoposti a restauro. Restauro
che ha consentito una scoperta: lì Raffaello usò la velatura a calce. «Nessun
artista prima di Raffaello l’aveva praticata, nessuno dopo di lui l’ha più usata.
La tecnica era rimasta sconosciuta anche ai contemporanei del maestro urbinate.
O forse l’avevano ritenuta un semplice virtuosismo. Neppure il Vasari ne fa
cenno. I manuali delle tecniche pittoriche
la ignorano»: ecco un bell’esempio di sospensione del giudizio critico dinanzi
alla fama di un grande.
Questa eccezionale particolarità non solleva alcun
dubbio, nessuna perplessità si affaccia. E sì che siamo di fronte a una tecnica usata solitamente dagli imbianchini, perché una
cosa è la velatura a strati sovrapposti di pigmento dalle tonalità diverse,
ampiamente conosciuta nella storia dell’arte, un’altra è la
velatura a calce, che ha solo due possibili scopi, a seconda dello spessore del
materiale apposto al sottostante strato di pigmento affrescato: proteggerlo
dagli agenti atmosferici o dargli effetto di trasparenza in profondità. Possiamo
escludere il primo, perché la superficie che fa da supporto al dipinto è in un
interno. Dice nulla, dunque, che Raffaello abbia usato una tecnica di
addomesticazione dell’effetto reso dall’affresco? È così scandaloso immaginare
che non fosse soddisfatto del risultato e abbia voluto migliorarlo grazie a un
velo che opacizzasse le scene raffigurate per conferire loro quell’atmosfera di
sospensione che non gli sembrava di essere stato in grado di rendere? Solo se
diamo per scontato che a Raffaello non potesse venirgliene storta neanche una. Basta
però dare uno sguardo alla Stanza di Eliodoro oltre il velo di calce e soprattutto oltre la
fama, per altro meritata, per capire che si tratta della più infelice prova
dell’artista. A mio modesto avviso, la velatura a calce è stata una soluzione approntata in modo del tutto estemporaneo. E il fatto che Raffaello non l’abbia mai più adottata rivela che non gli sembrò neppure una soluzione del tutto convincente.
Basta considerare l’elemento che quasi certamente pose il problema: la raggiera di luce in cui è avvolto l’angelo che libera Pietro
dalla prigione. Per meglio dire: che dovrebbe rendere
l’effetto di avvolgerlo e che invece gli sta solo dietro.
Si tratta di un ovale che ha l’asse lungo parallelo asse mediano della figura, ma è fin troppo evidente che non gli è coincidente. La velatura a calce voleva schiarire la figura con
l’intenzione di includerla nel volume di luce. Raffaello deve aver pensato che per dare profondità all’ovale, renderlo un ovoide entro il quale
l’angelo apparisse irradiarlo dalla sua figura, bastasse la raggiera che se ne dirama, ma la soluzione deve essergli apparsa artificiale, come da effetto posticcio.
A supporto di questa ipotesi c’è un dettaglio rivelatore che è segnalato da Lauretta Colonnelli in ciò che le racconta Paolo Violini, il direttore dei lavori di restauro: «Paolo Violini racconta di avere attraversato un momento di terrore puro, quando ha cominciato a pulire la raggiera che avvolge l’angelo in una mandorla di luce e nasconde il braccio di Pietro. “Via via che scendevo lungo il braccio, i raggi mi si spezzavano tra le dita. Più scendevo e più diventavano evanescenti. Ho cominciato a pensare che stavo rovinando un capolavoro. Poi, quando sono arrivato alla mano di Pietro, ho capito: intrecciata a quella dell’angelo trapassa la luce e appare in primo piano. Negli anni Cinquanta avevano accentuato la raggiera, trasformandola in un faro, e scontornando la figura dell’angelo in controluce, in modo da aumentare il contrasto. Abbiamo scoperto che è invece l’angelo stesso a irradiare luce, è lui stesso luce. Raffaello l’ha dipinto con pochissime pennellate essenziali, c’è un’ala che è fatta praticamente di niente, perché si fonde nella luce”».
La velatura in calce aveva perso nel tempo la sua efficacia per il materiale che vi era accumulato sopra nel tempo. Ben evidenti erano solo i contorni della figura sottostante e il maldestro restauratore degli anni Cinquanta non aveva trovato nulla di meglio che rinforzare i raggi scontornandola, nel tentativo di ottenere lo stesso effetto di avvolgimento. Una sola differenza tra Raffaello e il maldestro restauratore: il primo non andò troppo per il sottile, il secondo si trovava di fronte
all’opera di un grande e pensò di aggiungervi ciò che riteneva fosse andato perso. L’autore dell’affresco
non aveva di sé la considerazione che gli sarebbe stata tributata dopo: non si sentiva infallibile.
lunedì 8 aprile 2013
L’«intrinsichezza»
Dell’editoriale
a firma di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di lunedì 8
aprile (Una periferica appartenenza) potremmo limitarci a segnalare solo l’orrido
strafalcione che sta nell’uso di «intrinsichezza» al posto di «intrinsecità»: «intrinsichezza»
(o «intrinsechezza») esiste, ma non sta a indicare quella stretta
coessenzialità che nel testo è palese s’intendesse rammentare esserci sempre
stata tra Chiesa italiana e Curia Romana, bensì profonda dimestichezza, intima familiarità
e simili. Di questi tempi, però, non conviene segnalare strafalcioni, perché ci
si guadagna fama di grammar nazi, temibile epiteto coniato da chi sostiene che
la lingua si evolva di refuso in refuso, grazie alla volenterosa opera di
cazzuti ignorantoni che finiscono sempre per aver la meglio su pedanti puristi, e allora ben venga la virgola tra soggetto e predicato.
Chiuderemo un occhio sull’«intrinsichezza», allora, e anzi la prenderemo per
buona, faremo finta che Ernesto Galli della Loggia volesse dire proprio quello
che ha scritto: tra Chiesa italiana e Curia romana c’è sempre stata – ma negli
ultimi tempi sarebbe venuta ad affievolirsi – una fraterna intimità, un’affettuosa
familiarità, un’amorevole reciprocità di premurose attenzione.
Bene, anche così
non funziona, perché tra Chiesa italiana e Curia romana sono sempre volati
coltelli, e l’unica differenza col passato è che oggi i colpi lasciano ferite
che sanguinano pubblicamente. Probabilmente Ernesto Galli della Loggia ignora
che tra Segreteria di Stato e Cei ci sono sempre stati screzi, a voler usare un
morbido eufemismo. Più in generale, e da ben prima che nascesse la Cei (1952), i
rapporti tra l’episcopato italiano e i dicasteri della Santa Sede hanno sempre avuto
momenti di notevole tensione, anche se rimanevano celati all’attenzione del
grande pubblico. Anche a voler prendere per buona l’«intrinsichezza», dunque,
ciò che Ernesto Galli della
Loggia scrive non regge: voleva dire «intrinsecità», non c’è dubbio. Se
è così che va letto ciò che scrive, dovremmo intendere che, a suo parere, «negli ultimi
decenni agli occhi dell’universo cattolico la Chiesa italiana [sarebbe] andata
perdendo la rappresentatività positiva che una volta essa bene o male
possedeva, e invece [avrebbe] assunto un’immagine sempre più grigia,
addirittura dei tratti negativi [e che] decisiva, in questo senso, [sarebbe] stata la
sua perdurante [coessenzialità] con la Curia romana […] che, resa più
indipendente proprio per la presenza di pontefici non italiani, ha mostrato la
tendenza a procedere quasi per conto proprio, fino ad apparire – in non molti
casi, ma significativi – pressoché interamente fuori controllo».
Bene, anche così non regge. Si tratta di un’interpretazione dei fatti che risente pesantemente di quel pregiudizio lungamente accreditato in ambito storiografico da quanti hanno sostenuto che le sorti dell’Italia fossero ineluttabilmente legate in ambito internazionale a quelle della Santa Sede: per costoro, ad una crisi del cattolicesimo doveva necessariamente seguire un declino dell’Italia, sicché una collaborazione tra Stato e Chiesa che in ambito internazionale garantisse una sorta di identificazione tra Italia e Santa Sede non poteva che tornare di reciproca utilità. La tesi continua ad essere sostenuta da alcuni – ed Ernesto Galli della Loggia è evidentemente tra costoro – ma non tiene in alcun conto del fatto che i processi di globalizzazione hanno dimostrato che gli interessi dello Stato italiano e della Chiesa di Roma andavano già divaricandosi dal 1861 in poi, per diventare con sempre maggior frequenza confliggenti. Se poi si va più indietro, non si ha alcuna difficoltà a riconoscere che fin dal Rinascimento in poi, per acuirsi in massima misura col Risorgimento, gli interessi italiani sono sempre stati in attrito con quelli vaticani. Con questo o con quel signorotto di un ducato o di regno dell’Italia non ancora unita, certo. Con questo o quel notabile della Dc, di sicuro. Ma affermare, come fa Ernesto Galli della Loggia, che
«nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha rappresentato la sola istituzione internazionale, o meglio sovranazionale (e che istituzione!), nella quale l’elemento italiano ha avuto un’evidente e ininterrotta centralità» significa identificare questo
«elemento italiano» nella particolarità dell’interesse che esprimeva in favore di chi trovasse utile il tornar utile alla Chiesa. Perfino
l’ultimo Arturo Carlo Jemolo (Chiesa e Stato in Italia dal Risorgimento ad oggi, Einaudi 1955) sollevava seri dubbi su questa tesi.
«La Chiesa italiana riflette dunque quello che sembra il destino del Paese»? Non proprio. Più corretto dire che entrambi pagano il prezzo di aver creduto nella tesi che fossero la stessa cosa o che tra essi avesse giocoforza da esservi, se non
«intrinsecità», «intrinsichezza». Si sono fatti male a vicenda, nell’illusione che gli interessi dei contraenti il patto fossero interessi della Chiesa e dello Stato. Il declino comune rivela che
l’illusione non poteva reggere in eterno.
Tutto, pur di continuare ad illudersi
La tabella
riprodotta qui sopra è tratta da uno studio dell’Istituto Cattaneo che analizza
il flusso di voti che nel 2013 sono afferiti al M5S dagli schieramenti politici
che si erano presentati alle elezioni politiche del 2008 (l’indagine riguardava
9 città, ma ho modificato la tabella per mettere in risalto i dati relativi a
quelle con un maggior numero di aventi diritto al voto). In pratica, prendendo a
esempio il caso di Bologna, su 100 voti andati al M5S nel 2013, solo 10
venivano da quanti si erano astenuti nel 2008, mentre 65 venivano da quanti
avevano votato il Centrosinistra e 24 da quanti avevano votato il Centrodestra.
Ma è a scendere nel dettaglio relativo a quanti elettori del Pd nel 2008 abbiano
votato il M5S nel 2013 che si comprende che fine abbiano fatto gli oltre tre
milioni e mezzo di voti persi in 5 anni dal partito guidato da Bersani.
Almeno per le quattro città qui prese in considerazione è evidente che gli elettori del M5S siano ex elettori del Pd
per oltre il 45% (oltre il 35% per le 9 città prese in considerazione dall’Istituto Cattaneo: Torino, Brescia, Padova, Bologna, Firenze, Ancona, Napoli, Reggio Calabria, Catania). Con un’approssimazione che non va troppo lontano dai dati reali potremmo concludere che almeno due milioni degli oltre sette raccolti dal M5S al Senato, e quasi tre degli oltre otto milioni e mezzo raccolti dal M5S alla Camera, siano stati di ex elettori del Pd. Voti che, almeno in parte, sarebbero affluiti al M5S nella speranza, poi rivelatasi vana, che tra Grillo e Bersani fosse inevitabile un’intesa di governo. In pratica, si sarebbe trattato di un voto che mirava a dare una lezione al Pd per spostarne il baricentro a sinistra, ma è stato proprio Grillo a definirlo un errore di calcolo: «Perché
hai votato il M5S? Per fare un governo con i vecchi partiti? […] Allora hai
sbagliato voto» (beppegrillo.it, 3.4.2013).
Un sondaggio di Renato Mannheimer (Corriere della Sera, 7.4.2013) rivela che di tale errore sarebbe pentito circa un quinto di quanti avrebbero votato il M5S il 27 febbraio (circa il 29%), sicché oggi lo voterebbe solo il 24% degli italiani: solo l’1% in meno di quanti
l’hanno realmente votato il 24 e il 25 febbraio. Ad essere pentiti di aver capito male, insomma, sarebbero più quanti avevano frainteso dopo il voto di quanti invece avessero frainteso prima, ammesso che avessero davvero frainteso (non più di 7-800.000 sui 2-2,5 milioni di ex elettori del Pd che hanno votato M5S).
Cosa dovrebbe dedurne, il Pd? In primo luogo, che
dall’indisponibilità di Grillo ad un’alleanza di governo può recuperare meno di un terzo degli oltre tre milioni e mezzo di elettori persi tra il 2008 e il 2013. In secondo luogo, che a far scelte che il suo elettorato fin qui fedele molto probabilmente giudicherebbe come uno sbilanciamento a destra (più di tutto, un inciucio col Pdl) ha solo da perdere altri voti. Infine, che dall’aver paura di tornare alle urne e dall’essere disposto a tutto pur di rimandare il voto può rimediare solo altre sonore batoste. Tuttavia pare che si disponga proprio a questo. Perché tornare alle urne significherebbe affrontare altre primarie e Bersani non è più sicuro di poterle rivincere. In sostanza, la scelta è di perdere altri elettori. Tutto, pur di non dichiarare il fallimento della classe dirigente che fin qui ha guidato il partito. Tutto, pur di continuare ad illudersi che il paese sia diverso da quello che è.
domenica 7 aprile 2013
Corrispondenze
Ricevo da Nane Cantatore un contributo che ritengo estremamente interessante:
Il
fallimento dei diversi tentativi di trovare una forma di mediazione con il
movimento cinque stelle ha una spiegazione assai semplice: tale movimento è
alieno da qualsiasi mediazione. Ciò trova una spiegazione ufficiale nelle
dichiarazioni del suo proprietario e dei suoi accoliti maggiormente fidelizzati
o fanatizzati, che consiste nella litania della diversità, dell'irriducibilità
e della superiorità: da ciò conseguirebbe la refrattarietà a qualsiasi alleanza
con soggetti diversi, e pertanto infidi.
Se questo
comportamento è spiegabile, nei termini della psicopatologia, come risultato di
una sindrome paranoica, […], qui interessa comprenderne le linee strategiche,
più che comprenderne i motivi. Ogni normale partito politico, infatti, dopo
aver conseguito un forte consenso elettorale, tende a capitalizzare tale
risultato (o, il che è lo stesso, a esercitare il mandato degli elettori
secondo le logiche della democrazia rappresentativa) per insediarsi al governo
o, per lo meno, per contribuire a indirizzarne le politiche. I pentastellati,
invece, si arroccano, si riuniscono in improbabili convegni a metà tra la
riunione segreta e la gita fuori porta, si limitano a ribadire la loro
estraneità tanto da cortocircuitare la loro (ampia) retorica e (limitata)
prassi della trasparenza, fino a utilizzare le due soluzioni estreme della
comunicazione pubblica: ribadire la propria purezza nella forma evangelica del
chi non è con me è contro di me, e parlare d'altro, per esempio del Monte dei
Paschi.
Il dato
interessante, a cui non mi pare si faccia sufficiente attenzione, è che questo
comportamento è del tutto opposto a quello adottato in Sicilia, dove il M5S è,
di fatto, parte della maggioranza di governo, e dove tale partecipazione viene
rivendicata, nelle parole del proprietario del movimento e dei suoi più
illustri fiancheggiatori. In altre parole, e mi sembra chiaro che questo debba
essere stato il pensiero dei vertici del PD, il modello siciliano poteva essere
visto come il precedente a cui rifarsi, se non come l'incubatore di un
possibile governo nazionale.
Se non
è accaduto così non è, credo, per una forma di schizofrenia da parte di un
soggetto politico che pensa in un modo a Palermo e in un altro a Roma, o perché
con il 15 per cento ci si comporta in un modo e con il 25 in un altro: la prima
interpretazione mi pare troppo psicologica, la seconda troppo politica. Credo
che si tratti di una questione di egemonia, sulla scena politica e,
soprattutto, all'interno del M5S, che proprio per i suoi risultati elettorali
si sta trasformando, di necessità, da aggregato eterogeneo tenuto insieme da un
leader carismatico in soggetto politico a tutti gli effetti. La caratteristica
primaria di un soggetto politico, infatti, anche quando esso sia maggiormente
caratterizzato dal leaderismo e dal culto della personalità, è proprio la sua
pluralità: per quanto sia importante il leader, in esso esistono altre
personalità, diverse specializzazioni e diverse opzioni tattiche e persino
strategiche. Accade oggi nel PDL, per esempio, come è accaduto nel PCUS
staliniano o nella NSDAP, per quanto tutte queste formazioni fossero
indubbiamente dominate da un leader carismatico.
In
altre parole, un M5S coinvolto nel governo a livello nazionale dovrebbe fare i
conti con istanze, modalità e tempi decisionali diversi da quelli interni, il
che renderebbe necessario lo sviluppo di strutture e di deleghe personali tali
da trasformare la natura profonda del movimento stesso, verso una maggiore
pluralità, una più ampia e visibile dialettica e, persino, un diverso rapporto
con i media. Se già i due improbabili capigruppo parlamentari stanno esprimendo
differenze e disagi, ci si può immaginare cosa accadrebbe con un ministro o un
rappresentante in una commissione governativa.
L'arroccamento
del movimento, la sua litania di intransigenza e le continue scomuniche del
proprietario verso chi si distanzia dalla linea ufficiale rispondono, insomma,
essenzialmente a esigenze di controllo interno, per bloccare l'evoluzione del
M5S verso la forma di soggetto politico plurale. A queste condizioni, una forte
riduzione del consenso elettorale non sarebbe vista come una sconfitta ma come
un necessario passaggio di depurazione, per ribadire la litania di alterità ed
estraneità e consolidare l'assetto monolitico del movimento.
Qui, se
si vuole, si può misurare la pochezza delle capacità strategiche del
proprietario, che si preclude di fatto ogni possibilità di accesso al potere, o
di azione concreta sulle cose, pur di conservare il proprio predominio. Se è
possibile governare in Sicilia, ciò avviene perché il livello locale non
interessa al proprietario, che comunica direttamente con le masse per via
diretta, con i suoi comizi nelle piazze e sul suo similblog, o per via indiretta,
attraverso le televisioni che riportano i suoi slogan e la sua estetica.
Partecipare al governo del Paese creerebbe, necessariamente, una
moltiplicazione dei canali di comunicazione e dei soggetti che vi avrebbero
accesso, mettendo in crisi un modello di leadership che si definisce, più che
secondo le categorie classiche della politica, secondo quelle del marketing, e
nemmeno di quello più moderno: l'importante è controllare il brand e
trasmetterlo, impedendo a chiunque di contribuire a determinarlo.
Tipologie di leadership carismatica
Abbiamo
visto perché il carisma non debba essere inteso come una sorta di grazia della
quale un leader possa essere dotato o meno, ma come quella sorta di disgrazia
nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità
severamente disturbata (Il cosiddetto carisma – Malvino, 13.12.2012) e quindi abbiamo preso
a esempio un caso clinico che illustrasse eloquentemente l’assunto (Uno spaccato clinico – Malvino, 30.1.2013). Poi, abbiamo spiegato perché occorre che una
leadership di tipo carismatico debba giocoforza assumere un carattere
messianico per fidelizzare seguaci (Formazione a vocazione settaria – Malvino,
29.12013) e perché a tal fine le torni estremamente utile una dimensione relazionale prepolitica e una struttura comunitaria di tipo organico (Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia
– Malvino, 19.2.2013).
Questo percorso non aveva alcuna pretesa sistematica, anzi, era intenzionalmente frammentario perché prendeva il passo dall’analisi di alcuni elementi della leadership carismatica colti in uno specifico precipitato, che, se poteva essere esemplare, aveva tuttavia i limiti del caso empiricamente trattato. Anche per questo
– soprattutto per questo
–
non si è potuto fare a meno di fare un largo uso del rimando ai lavori scientifici che negli ultimi decenni hanno trattato il tema in ordine ai problemi posti in ambito psicologico e sociologico, senza fare mistero che i risultati più convincenti in tali ambiti ci sembravano quelli ottenuti, rispettivamente, da Otto Kernberg e da Neil Smelser. Superfluo rammentare al lettore abituale di questo blog che gli spunti di riflessione sono stati offerti dalla cosiddetta galassia radicale che ruota attorno a Marco Pannella e dal cosiddetto non-partito di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Ora, se vogliamo approfondire la questione, ci tocca operare una distinzione tra i due più frequenti stili
di leadership carismatica – quella di tipo narcisistico e quella di tipo
paranoideo – che trovano corrispettivo in due diverse forme di settarismo e in
due diversi quadri di psicopatologia di gruppo, ma prima occorre fare due importanti premesse. In primo luogo, non di rado l’esperienza ci offre quadri
psicopatologici misti, anzi, è assai frequente che in uno stesso leader
carismatico siano sensibilmente rappresentati, seppur in varia misura, aspetti
narcisistici e aspetti paranoidei, che in ogni caso trovano espressione
strettamente conseguente nei moduli relazionali che caratterizzano il legame
tra leader e seguaci, e quello tra i membri del gruppo. In secondo luogo, si avrà modo di cogliere il tenore emozionale che sostiene il piano sul quale si strutturano le relazioni in oggetto, se si tiene conto del fatto che, proprio come i gruppi a
leadership carismatica di impronta religiosa hanno forte caratterizzazione
politica, quelli a impronta politica hanno forte caratterizzazione religiosa.
Per l’elemento di discrimine che qui si prenderà in oggetto ci tornerà utile il lavoro di Otto Kernberg che qui è estratto da più contesti (Internal World and External World, 1980; Severe Personality Disoders, 1984; Ideology, Conflicts and Leadership in Groups and Organizations, 1998).
Perché sia conservata l’uniformità di percorso dell’analisi come fin qui condotta nei post cui ho fatto cenno all’inizio, consiglio di leggere queste pagine pensando ai radicali, quando il discorso è centrato sul modello di leadership carismatica a impronta narcisistica (a), e ai grillini, quando l’impronta è di tipo paranoideo (b). Ma senza dimenticare quanto si è già detto: non di rado l’esperienza ci offre quadri
psicopatologici misti.
(a)
(b)
giovedì 4 aprile 2013
14 agosto 2054
Non so
se già sia stato segnalato, io me ne sono accorto solo ieri: Gaia, la
visionaria congettura di Gianroberto Casaleggio sul futuro del nostro pianeta,
dovrebbe prender corpo il 14 agosto 2054. Ciò che mi ha dato da pensare è stato
il fatto che il visionario abbia fissato una data precisa per la nascita di
Gaia, mentre per lo scoppio della III Guerra Mondiale (2020) e la sua fine
(2040), per lo sviluppo di comunità collegate in rete (2043) e l’istituzione
della cittadinanza mondiale in social network (2047), per la creazione dell’intelligenza
collettiva on demand (2050) e per le prime elezioni a suffragio planetario
(2054) si sia limitato a indicare l’anno. Non mi ci è voluto molto per scoprire
che quella data non era scelta a caso: Gianroberto Casaleggio è nato il 14
agosto 1954, giusto un secolo prima. Troppo poco per dedurre che Gaia non sia
una previsione, ma una proiezione fottutamente paranoica?
mercoledì 3 aprile 2013
[...]
La storia insegna che questo sarebbe il momento buono per un attentato, di quelli che poi stai lì per trent’anni a discutere su chi possa esserne stato il mandante, senza riuscire neppure ad acchiapparne gli esecutori, tutt’al più a individuare gli immancabili depistatori. Uno di quegli attentati, dico, che in apparenza sembrerebbero voler dare il colpo di grazia a una nazione già in ginocchio, o almeno a esasperarla fino all’inverosimile, e che invece servono ad accelerare processi che fanno fatica a maturare nei loro esiti finali, peraltro ineluttabili. La strage come il pugno sull’elettrodomestico guasto, che – non si sa perché – funziona, e lo fa ripartire. Si tratta della soluzione che conta sulla disperazione come riserva di energie per rimuovere uno stallo. Probabilmente, tuttavia, stavolta il botto non ci sarà. Manca il demiurgo.
domenica 31 marzo 2013
[...]
E pensare che stavo a un passo dal fare la cosa giusta. Stavolta non vado a votare, mi dicevo, al diavolo le fanfaluche dei tromboni che «chi non va a votare perde il diritto di lamentarsi per quanto accadrà, e acquisisce il dovere di tacere e subire, perché ha taciuto e subito nel giorno delle elezioni» (Michele Serra – la Repubblica, 30.10.2012). L’avevo sempre pensato anch’io, robe che ti ficcano in testa da bambino, e poi un meno peggio l’avevo sempre trovato. Stavolta non lo vedevo, non lo vedevo proprio.
Poi, non dico l’imprevedibile, ma l’inimmaginabile, e tutt’assieme. Quel fesso di Monti, che aveva già mezzo culo seduto al Quirinale, sale in politica. Grillo comincia a salire nei sondaggi come il mercurio nel termometro quando arriva la quartana. Il cadavere di Berlusconi resuscita, si spruzza un po’ di lavanda sotto le ascelle e ritrova la sua Italietta pronta a levarlo ancora sugli scudi. A ripensarci, dev’essere stata la Nemesi. «Volevi disertare le urne, eh? Adesso ti sistemo io. Un meno peggio? Eccoti Bersani, così impari».
Sapevo che mi sarei pentito, l’ho scritto pure, e non me lo dicevo per scaramanzia. Chi non lo conosce, il Pd? Manco doveva nascere, poverino, il patrimonio genetico era zeppo di tare. Ma la natura è cieca, l’aborto non c’è stato ed è venuto al mondo solo per mendicare tenerezza e sbattere il testone dappertutto, con predilezione per gli spigoli. Non ne ha indovinata una, il Pd di Bersani, e per sbagliarle tutte si è concentrato al massimo, ha cominciato con l’appoggio a Monti ed è finito a rincorrere Grillo. Si vedeva già a Palazzo Chigi, l’unico ostacolo gli pareva solo Renzi, e ora non riesce a farsene una ragione. Si trattasse di cazzi esclusivamente suoi, non gli si potrebbe negare compassione. Neanche capace di comprarsele, due dozzine di grillini.
Al confronto, il Pds di Occhetto e la Dc di Martinazzoli giganteggiano. Due sfigati nati, quelli, ma almeno avevano quei tre etti di cultura politica per stare davanti agli eventi, per tentare di guidarli, a costo di farsene travolgere, piuttosto che arrancarvi dietro in affanno, e senza mai essere in grado di intravvederne altro che il culo. Due bidoni, ma sul fondo rimaneva qualche traccia di Gramsci e di Dossetti. Che il M5S sia merdaccia fascista spalmata sulla più becera versione del New Age, insomma, l’avrebbero capito. Bersani, no.
Sapevo che mi sarei pentito, l’ho detto, ma almeno ho guadagnato il diritto di lamentarmi, tanto ormai votare pare serva solo a questo. Francamente, però, costa troppo. La prossima volta mi lamento a scrocco.
lunedì 25 marzo 2013
«Povertà, pene, insulti, fatiche, mischie ed offese»
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[tratto da: Gianna Preda, il "Chi è" del Borghese, Le Edizioni del Borghese 1961 - pagg. 455-460]
Nulla accade due volte nello stesso modo
Il Popolo d’Italia va in edicola il 9 dicembre 1926 dando notizia che il fascio littorio, simbolo prima dei Fasci di combattimento (1919) e poi del Partito nazionale fascista (1921), è adottato come «emblema statale». È il segno tangibile che il fascismo mira all’identificazione tra partito e nazione, com’è in ogni progetto di Stato organico. Perché ciò si realizzi, tuttavia, occorre un partito unico. Della nazione, infatti, e fin dall’etimo, un «partito» è solo una «parte». Trova espressione in un’organizzazione che si candida alla gestione del potere politico, è vero, ma non può tollerare concorrenti se ha per fine l’identificazione con la nazione nella sua interezza: ogni altra «parte» diversa da quella che «legittimamente» aspira a rappresentare il tutto è da considerare superflua, per la sua sostanziale irrilevanza, o dannosa, per la minaccia posta all’unità di intenti che nello Stato organico trovano il corrispettivo che l’Io ha in un corpo vivente. È quello che troverà realizzazione nel 1928, quando il Partito nazionale fascista è dichiarato partito unico. Lo rimarrà fino al 1943, cercando – e in buona parte riuscendo – ad assorbire gli interessi delle categorie sociali nel sistema corporativista enunciato con la Carta del Lavoro del 1927.
Nulla accade due volte nello stesso modo, sta di fatto che per Beppe Grillo tutti i partiti sarebbero inutili, tranne il suo, che si candida a rappresentare il 100% del paese, anzi pare già lo rappresenti, anche se a votarlo è stato solo il 25%. In realtà, per Beppe Grillo, tutti gli altri partiti non sarebbero soltanto inutili, ma anche dannosi perché costituirebbero una minaccia per gli interessi del popolo italiano, che invece solo il M5S sarebbe in grado di esprimere legittimamente. Cosa devono fare gli altri partiti? «Arrendetevi, siete circondati dal popolo italiano… Arrendetevi, e io vi prometto che non useremo nessuna violenza su di voi… Andatevene finché siete in tempo…». Sulla promessa fa fede il fatto che si dichiara in grado di trattenere la violenza del popolo italiano: «Ho incanalato tutta la rabbia in questo movimento. Dovrebbero ringraziarci: se noi falliamo l’Italia sarà guidata dalla violenza nelle strade». Si tratta – e l’ho già scritto – del presentarsi come forza d’ordine che ha incorporato la violenza che ha cavalcato e fomentato, facendosene forte, con tratto demiurgico, per promettere di neutralizzarla, ma in cambio del potere. È la tecnica del colpo di stato senza spargimento di sangue. E il partito che si candida a riassorbire in sé i conflitti sociali si fa garante pure del sistema che sul piano economico li riconduce al sistema corporativistico del partito-nazione: «Arrivano le categorie da me… I notai, i farmacisti, i commercialisti… Dicono: “Siamo 20.000, ci dica cosa fa per noi, così poi le vediamo se darle il voto”… Guardate che avete sbagliato la domanda… Voi venite nel movimento, vi iscrivete, vi mettete così [indica i candidati del M5S che stanno in piedi alle sue spalle ad ogni tappa dello Tsunami Tour], vi votano, andate in Parlamento e portate avanti voi gli interessi della vostra corporazione…».
Il «fascio»
diventa forma di movimento politico ben prima del 1919. Benito Mussolini è nato
da meno di un mese – siamo nel 1883 – quando Felice Cavallotti, Andrea Costa e
Giovanni Bovio danno vita a un fronte che va a raccogliere e coordinare un
variegato numero di organizzazioni contadine e operaie di sinistra in
opposizione al governo Depretis. Si chiama Fascio della democrazia e ha per emblema un fascio littorio, che
per espressa intenzione dei suoi fondatori sta a rappresentare la convergenza di
forze diverse (socialisti, anarchici, radicali, ecc.) in un’unità di fine, ma è
al contempo anche l’esplicita evocazione del simbolo che il popolo della Roma
repubblicana conferisce ai propri eletti alla carica di console e pretore. Il
fascismo tenderà a sottolineare questa valenza simbolica nell’ambito di una più
ampia ripresa del mito dell’antica Roma, che non di rado toccherà il
tragicomico, ma allo stato nascente, quando aduna i suoi uomini sotto le
insegne dei Fasci di combattimento, il fascio littorio è innanzitutto la metafora
della confluenza di
spezzoni provenienti dalle più svariate esperienze culturali e politiche che in
quel momento storico si agitano in Italia. L’orgoglio del raccogliticcio,
potremmo dire. Ai suoi esordi sulla scena politica italiana, il fascismo è questo reclutare delusi, frustrati e arrabbiati da ogni contrada. D’altronde, anche sul piano delle idee, l’eclettismo sarà uno dei tratti distintivi del fascismo lungo tutta la
sua parabola. Come è stato osservato da numerosi autori (Mosse,
Sternhell, Griffin, Eatwell, Paxton), Mussolini non costruisce un’ideologia ex
novo, ma attinge a piene mani dagli umori che si levano da un paese in tumulto, e senza curarsi troppo delle patenti
contraddizioni tra ciò che mette assieme. Solo in questo modo è possibile «comprendere come lo Stato
fascista abbia potuto sottomettere e assorbire senza troppe dilacerazioni l’intera
società civile» (Zunino). Nulla di monolitico, nulla di sistematico, nella cosiddetta dottrina fascista dello Stato. Il lavoro che compirà Giovanni Gentile, più che da architetto, sarà da stuccatore.
Certo, nulla accade due volte nello stesso modo. Così, quando si afferma che il grillismo ha stretta analogia col fascismo del 1919, non si intende dire che ne sia la copia o la ripetizione: si vuole solo sottolineare la coincidenza di elementi sostanziali e formali di due esperienze lontane nel tempo, senza dubbio, ma che consentono un parallelismo. E anche se gli elementi formali sembrano prevalenti, quelli sostanziali non sono affatto irrilevanti. Basti la comparazione tra il programma del M5S e quello di Casa Pound Italia, la formazione politica che molto più che implicitamente si richiama al fascismo. Non viene meno la lezione di Popper (Miseria dello storicismo), sia chiaro. Nulla, qui, si dà per prevedibile riguardo al grillismo sulla base di ciò che è stato lo sviluppo storico del fascismo: ci si limita verificare le analogie tra due fenomeni che in entrambi i casi sono la reazione patologica ad una situazione critica (la crisi dello Stato Liberale e il declino della Seconda Repubblica). Per ciò che attiene alla capacità di raccogliere in «fascio» il peggio da ogni dove, fa fede l’orgogliosa dichiarazione del leader del M5S che mena vanto di essere riuscito a fidelizzare «estremisti
di destra ed estremisti di sinistra, insieme, a gridare in piazza». Al momento, pare non siano intenzionati a bastonare e a purgare chi si oppone all’onda, si accontentano di dar sfogo a quel misto di vittimismo e di aggressività che è caratteristico dei movimenti settari.
[segue]
sabato 23 marzo 2013
[...]
Niente di meglio, quando si vuole analizzare i termini di una polemica, che stare ai fatti. In un’intervista concessa ad Anshel Pfeffer (Haaretz, 22.3.2013), il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha affermato quanto segue:
Cos’è che non risponde alla realtà in ciò che afferma Riccardo Pacifici e rende legittimo il risentimento di Beppe Grillo e dei suoi? Non corrisponde al vero che il leader del M5S «has made
anti-Semitic comments in the past and is exhibiting worrisome fascist
tendencies»? Non corrisponde al vero che «Grillo says that political parties are not important, and that is exactly what Hitler was saying before he came to power»? Si può sostenere che i grillini abbiano una
«clear platform» politica? Del fatto che il movimento sia il raccogliticcio pure di «extremists from both left and right» non si è vantato lo stesso Grillo
in un’intervista concessa ad una tv turca e andata in onda nell’ultima puntata di Servizio Pubblico?
E non è forse vero che, «a few weeks ago, the party’s parliamentary leader, Roberta Lombardi, said that some elements of the ideology of Italy’s pre-World War II fascism were positive»? Non generalizza, Pacifici, e tiene a precisare che
«he does not believe that 25 percent of all Italians [che hanno votato M5S] are anti-Semitic», anzi, si dice certo che
«ninety-five percent of Five Star voters do not share Grillo’s views on Jews and Israel». E allora cos’è che autorizza
l’arruffapopolo
a strepitare
«Basta insulti e falsità contro il M5S»? Ma, soprattutto, non sono proprio i commenti al suo post (e si tratta dei commenti più votati) a dare ragione a Pacifici?
Adesso capisco perché gli ebrei fanno di tutto per farsi odiare dalla maggior parte dei popoli della terra, si piangono sempre addosso e fanno apparire che hanno sofferto solamente loro gli orrori della guerra. Se non gli leccano il culo o li commiserano, tacciano di “fascista” a chi non la pensa come loro. Questo “signor” Pacifici è davvero squallido, disinformato e fomentatore di odio tra la gente. Se ne andasse lui in Israele e la smettesse di rompere le scatole ai grillini e a chi in Italia li ha votati. Siamo noi italiani che dobbiamo autodeterminarci e votiamo chi ci pare e piace. I consigli deve darli a casa sua, ammesso che riesca a darli.
Matteo P. 22.03.13 - 19:30|
Il movimento è chiaramente contro lo strapotere delle banche e delle lobby finanziarie le quali, dopo la caduta dello spettro sovietico-comunista, senza più vincoli stanno affamando il pianeta. E negli ultimi anni i nodi sono venuti al pettine e quando si sono fatte lo sgambetto fra di loro, hanno iniziato a rimborsarsi a scapito delle popolazioni. E indovina che c’è ai vertici delle maggior banche d’affari? Questo attacco è il minimo, aspettiamocene altri ben peggiori!!!
Lor C., Milano 22.03.13 - 19:41|
Gli elementi più distintivi dell’antisemitismo ci sono tutti: sono gli stessi ebrei ad essere la causa dell’odio dei loro confronti; sono un corpo estraneo, se ne andassero in Israele ché questa non è casa loro; sono a capo di lobby finanziarie che affamano i popoli; a lasciarli fare, perfidi come sono per natura...
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