Dell’editoriale
a firma di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di lunedì 8
aprile (Una periferica appartenenza) potremmo limitarci a segnalare solo l’orrido
strafalcione che sta nell’uso di «intrinsichezza» al posto di «intrinsecità»: «intrinsichezza»
(o «intrinsechezza») esiste, ma non sta a indicare quella stretta
coessenzialità che nel testo è palese s’intendesse rammentare esserci sempre
stata tra Chiesa italiana e Curia Romana, bensì profonda dimestichezza, intima familiarità
e simili. Di questi tempi, però, non conviene segnalare strafalcioni, perché ci
si guadagna fama di grammar nazi, temibile epiteto coniato da chi sostiene che
la lingua si evolva di refuso in refuso, grazie alla volenterosa opera di
cazzuti ignorantoni che finiscono sempre per aver la meglio su pedanti puristi, e allora ben venga la virgola tra soggetto e predicato.
Chiuderemo un occhio sull’«intrinsichezza», allora, e anzi la prenderemo per
buona, faremo finta che Ernesto Galli della Loggia volesse dire proprio quello
che ha scritto: tra Chiesa italiana e Curia romana c’è sempre stata – ma negli
ultimi tempi sarebbe venuta ad affievolirsi – una fraterna intimità, un’affettuosa
familiarità, un’amorevole reciprocità di premurose attenzione.
Bene, anche così
non funziona, perché tra Chiesa italiana e Curia romana sono sempre volati
coltelli, e l’unica differenza col passato è che oggi i colpi lasciano ferite
che sanguinano pubblicamente. Probabilmente Ernesto Galli della Loggia ignora
che tra Segreteria di Stato e Cei ci sono sempre stati screzi, a voler usare un
morbido eufemismo. Più in generale, e da ben prima che nascesse la Cei (1952), i
rapporti tra l’episcopato italiano e i dicasteri della Santa Sede hanno sempre avuto
momenti di notevole tensione, anche se rimanevano celati all’attenzione del
grande pubblico. Anche a voler prendere per buona l’«intrinsichezza», dunque,
ciò che Ernesto Galli della
Loggia scrive non regge: voleva dire «intrinsecità», non c’è dubbio. Se
è così che va letto ciò che scrive, dovremmo intendere che, a suo parere, «negli ultimi
decenni agli occhi dell’universo cattolico la Chiesa italiana [sarebbe] andata
perdendo la rappresentatività positiva che una volta essa bene o male
possedeva, e invece [avrebbe] assunto un’immagine sempre più grigia,
addirittura dei tratti negativi [e che] decisiva, in questo senso, [sarebbe] stata la
sua perdurante [coessenzialità] con la Curia romana […] che, resa più
indipendente proprio per la presenza di pontefici non italiani, ha mostrato la
tendenza a procedere quasi per conto proprio, fino ad apparire – in non molti
casi, ma significativi – pressoché interamente fuori controllo».
Bene, anche così non regge. Si tratta di un’interpretazione dei fatti che risente pesantemente di quel pregiudizio lungamente accreditato in ambito storiografico da quanti hanno sostenuto che le sorti dell’Italia fossero ineluttabilmente legate in ambito internazionale a quelle della Santa Sede: per costoro, ad una crisi del cattolicesimo doveva necessariamente seguire un declino dell’Italia, sicché una collaborazione tra Stato e Chiesa che in ambito internazionale garantisse una sorta di identificazione tra Italia e Santa Sede non poteva che tornare di reciproca utilità. La tesi continua ad essere sostenuta da alcuni – ed Ernesto Galli della Loggia è evidentemente tra costoro – ma non tiene in alcun conto del fatto che i processi di globalizzazione hanno dimostrato che gli interessi dello Stato italiano e della Chiesa di Roma andavano già divaricandosi dal 1861 in poi, per diventare con sempre maggior frequenza confliggenti. Se poi si va più indietro, non si ha alcuna difficoltà a riconoscere che fin dal Rinascimento in poi, per acuirsi in massima misura col Risorgimento, gli interessi italiani sono sempre stati in attrito con quelli vaticani. Con questo o con quel signorotto di un ducato o di regno dell’Italia non ancora unita, certo. Con questo o quel notabile della Dc, di sicuro. Ma affermare, come fa Ernesto Galli della Loggia, che
«nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha rappresentato la sola istituzione internazionale, o meglio sovranazionale (e che istituzione!), nella quale l’elemento italiano ha avuto un’evidente e ininterrotta centralità» significa identificare questo
«elemento italiano» nella particolarità dell’interesse che esprimeva in favore di chi trovasse utile il tornar utile alla Chiesa. Perfino
l’ultimo Arturo Carlo Jemolo (Chiesa e Stato in Italia dal Risorgimento ad oggi, Einaudi 1955) sollevava seri dubbi su questa tesi.
«La Chiesa italiana riflette dunque quello che sembra il destino del Paese»? Non proprio. Più corretto dire che entrambi pagano il prezzo di aver creduto nella tesi che fossero la stessa cosa o che tra essi avesse giocoforza da esservi, se non
«intrinsecità», «intrinsichezza». Si sono fatti male a vicenda, nell’illusione che gli interessi dei contraenti il patto fossero interessi della Chiesa e dello Stato. Il declino comune rivela che
l’illusione non poteva reggere in eterno.
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