lunedì 22 aprile 2013

Proviamo a metterci nei panni di Pierluigi Bersani


Proviamo a metterci nei panni di Pierluigi Bersani. Fino al 23 febbraio pensava di avere in tasca la vittoria. Grazie al Porcellum sperava di ottenere la maggioranza alla Camera, e così è andata, anche se c’è riuscito solo per un pelo, visto che al centrosinistra sono andati meno di 150.000 voti in più che al centrodestra. Al Senato si aspettava qualche difficoltà, ma non delle dimensioni che gli si sono prospettate all’apertura delle urne, visto che ha perso nelle regioni dove era previsto perdesse, ma pure in quelle che pensava fossero in forse e in molte di quelle nelle quali era sicuro di poter vincere, sicché i 6 o 7 senatori che pensava gli sarebbero mancati per avere la maggioranza anche a Palazzo Madama sono diventati più di 30, quasi 40. Dinanzi a questo quadro voi che avreste fatto? Provo immaginare, dando per scontato che abbiate un minimo di sale in zucca.
Probabilmente vi sareste interrogati sul perché di un così grosso cazzo in culo. Già vi immagino con la testa tra le mani a mormorare: «Tre milioni e mezzo di elettori persi devono pur avere una spiegazione, quale?». L’immagine, peraltro in tutto rispondente al vero, di un partito nato già vecchio? L’aver perso l’attimo fuggente nel novembre del 2011? L’appoggio al governo Monti? Non ha importanza, provate a stilare la lista di tutte le possibili ragioni, metteteci tutto quello che vi pare: dinanzi a questa lista ve lo porreste il problema di dimettervi? No? E allora vorrà dire che avete un’ideona per ribaltare la situazione in cui vi trovate.
Sì, ma quale? Stando ai numeri, una große Koalition col centrodestra? Bene, allora suppongo che come primo passo chiedete un incontro con Berlusconi, eventualmente anche con Monti, e aprite le trattative facendo valere il vantaggio che avete alla Camera. No? Vi capisco. Avete fatto una campagna elettorale all’insegna del rinnovamento, contro Monti ma soprattutto contro Berlusconi, e sarebbe una figura di merda. Che resta, allora? Un governo coi grillini, forse? Sì, ma in quali termini? Sapete che non vi daranno la fiducia nemmeno se gli offrite dieci dicasteri, lo stanno ripetendo da mesi e non hanno smesso di farlo dopo il 26 febbraio. E dunque siete intenzionati ad accettare l’unica soluzione che vi prospettano? Vogliono la Presidenza del Consiglio, siete disposti a concedergliela? No? E allora che senso ha andarvi a umiliare in streaming?
O forse no, forse pensate sia possibile comprare tanti grillini quanti ve ne servono per avere la maggioranza al Senato? Bene, non è da galantuomini, però si sa che, quando il fine è nobile, la tentazione può venire pure a Lincoln. Ma allora vi conviene strombazzare ai quattro venti che intendete fare scouting? Muovetevi con discrezione, cazzarola, studiate le biografie dei possibili acquisti e muovetevi come si deve. Non riuscite a farlo? Vabbe’, ma allora almeno qui vi viene il pensierino di dimettervi? Nemmeno? E allora chiariamoci, perché è evidente che il problema siete voi.
Vi eravate affezionati all’idea di andare a Palazzo Chigi, avete sbagliato i vostri calcoli e tuttavia non siete capaci di rinunciarci? Spiace dirlo, non siete tagliati per la politica. Tuttavia comprendo, è probabile non vogliate darlo da vedere, per far finta di essere intenzionati a prendere atto che non ci andrete, poi, chissà... Bene, ma allora assumete una posa acconcia. Levatevi dal grugno quella smorfia da bambino che si ritrova tra le mani un giocattolo diverso da quello che aveva chiesto alla Befana, pensate al fatto che probabilmente avete fatto qualche errore nello scriverle la letterina. 
Grillo vi ha umiliato quando siete andati a chiedergli la fiducia per il governo e gli avete rinfacciato che così si correva il rischio di tornare alle urne e che il paese correva il rischio di ricadere in mano a Berlusconi? E allora perché non tentare l’aggancio, se quello ha detto che se ne poteva discutere, se aveste detto sì a Rodotà al Quirinale? Cosa aveva, Rodotà, che non andasse bene? Non riuscivate a trovare un accordo allinterno del vostro stesso partito né per Marini, né per Prodi, né avevate pronto un altro nome che riuscisse ad ottenere la maggioranza grazie al voto di altri in Parlamento: perché non Rodotà?
Dite la verità, quel poco di sale che davo per scontato avevate in zucca non vi consente di dare una risposta ragionevole, vero? Capisco, non voglio stressarvi oltre, daltronde sono certo che anche il più sprovveduto tra voi non avrebbe commesso nemmeno la metà delle puttanate che il Pd ha accumulato in queste ultime settimane. Più che sprovveduto, allora, lineffabile Bersani? Non proprio. Ciò che gli impediva una decisione razionale... Che dico? Ciò che gli impediva qualsiasi decisione che non fosse uno sproposito era la logica che regge il suo partito. Una logica che probabilmente non vi sfiora, perché non state messi male come il Pd. Bersani sembra non essere in grado di spiegarcela e tace, dunque conviene porgere lorecchio a Orfini, che dopo aver tanto parlato in questi ultimi giorni, e spesso senza dire niente, oggi prova a spiegare ciò che a tanti è sembrato incomprensibile.
«Io credo che il ruolo di un dirigente sia quello di difendere ciò in cui crede, anche se impopolare. Dovrebbe essere ovvio, ma non lo è. In queste ore molti hanno deciso cosa sostenere guardando a dove tirava il vento. Capisco il ragionamento, ma secondo me è un errore. Il dovere di un dirigente non è quello di fare ciò che in quel momento è popolare tra i suoi elettori, ma ciò che ritiene giusto. È il principio della democrazia rappresentativa. Se a fine mandato, e il mio mandato è finito dato che come tutta la segreteria del Pd mi sono dimesso, gli elettori del Pd non mi rinnoveranno la fiducia, non sarò più un dirigente del Pd. Ma tra una elezione e l’altra ciò che deve guidare l’azione di ognuno di noi non sono i commenti su Facebook o i sondaggi, ma le proprie convinzioni e la loro corrispondenza a un progetto deciso insieme». Bene, ma qual era il «progetto deciso insieme»? E poi era il progetto della dirigenza del partito o quello sul quale si era chiesto il voto agli elettori?
«Mi pare che la domanda di fondo a cui occorra rispondere è “perché non avete votato Rodotà”. Su una cosa voglio dare ragione a chi la pone: non lo abbiamo spiegato a sufficienza. Io ho provato a farlo in ogni occasione, ma evidentemente non è bastato e quindi la scelta è apparsa incomprensibile. Vediamo di recuperare almeno a questo errore. Partiamo dalla fine. Dopo la figura indecente su Prodi alcuni di noi hanno passato la notte a verificare laicamente tutte le possibilità. Anche quella di votare Rodotà. E non c’erano i voti. Se si fosse andati alla conta Cancellieri contro Rodotà il Pd si sarebbe diviso a metà e il risultato sarebbe stata l’elezione della Cancellieri, su cui convergevano Pdl, Lega e Monti. Voi obietterete “è un disastro che il Pd si divida su queste cose”. Sì, lo è. Ma che la situazione fosse difficile lo si era capito dal voto su Prodi e che, con un segretario dimissionario, non ci fosse tenuta nel nostro gruppo era evidente a tutti. Quindi la prima ragione, la meno politica, è che non c’erano i voti». In pratica, il partito non riusciva a esprimere un candidato sul quale far convergere i voti di tutti i parlamentari. E può dirsi ancora un partito? Non lo tiene insieme né un progetto, né la disciplina. Di che cazzo sei stato dirigente fino ad oggi, Orfini? Rappresentavi il partito, una sua corrente o tuttal più te stesso? E perché non sei riuscito a chiarire questi problemini prima di candidarti?
«La seconda motivazione però è per me quella più seria. Il Presidente della Repubblica è il custode e garante della Costituzione. Non deve essere “nostro” né scelto con accordi sottobanco, deve saper garantire a tutti amore e rispetto per quella Costituzione nata dalla Resistenza e dall’antifascismo». E la volta scorsa come si arrivò a Napolitano? Lo voleva, il centrodestra? E il centrodestra che stavolta l’ha voluto dimostra con ciò di amare e rispettare la Costituzione o piuttosto afferra al volo loccasione di rientrare in gioco offertagli con un accordo ben più che implicito sul pacchetto Quirinale-Palazzo Chigi?
«Grillo – e spesso anche i suoi parlamentari – in questi giorni e in questi mesi ha ripetutamente contestato, aggredito, offeso quella Costituzione. Lo fa quando auspica la scomparsa dei partiti (art.49), quando rifiuta il confronto, insulta e allontana i giornalisti (art.21), quando contesta il principio della democrazia rappresentativa e su mille altre questioni». Il centrodestra di Berlusconi, invece, no? Ma Grillo e i suoi parlamentari, poi, non sono gli stessi ai quali siete andati a chiedere la fiducia per il governo?
«Ho ragione? Ho torto? Parliamone, ma stando al merito e non tirando in ballo cose che non c’entrano nulla. Come il governassimo. Io ho votato un presidente della Repubblica. E quel voto non impegna né me né il Pd al sostegno di un governo col Pdl. Questo lo abbiamo chiarito prima del voto e lo ripeto ora. Al governo con Berlusconi ero e resto contrario».
A parte il lapsus («governassimo» al posto di «governissimo») che è illuminante, da segnalare è lo scarto dal noi («abbiamo chiarito») allio («ero e resto contrario»): Orfini assicura che il Pd non farà un governissimo col Pdl, perché lui è contrario. Ma se neppure Bersani può impegnarsi con gli elettori del Pd a nome di tutto il partito, quanto può valere ciò che dice Orfini?

Magic moments

venerdì 19 aprile 2013

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La ragione che ha spinto Jorge Mario Bergoglio a scegliere per nome Francesco risponde alla stessa logica che spinse Innocenzo III a dare assenso alla costituzione dell’Ordine francescano: quando dal basso salgono critiche perché il suo attaccamento al mondo s’è fatto imbarazzante, la Chiesa corre ai ripari e aggiusta la sua immagine. Mai niente di davvero sostanziale, la Grande Puttana si rifà il trucco. L’ho twittato a caldo, subito dopo l’ultimo «habemus papam», e la sintesi ha necessariamente sacrificato l’argomentazione. Qui cercherò di spiegarmi meglio, chiarendo innanzitutto quale sia la logica che non consente mai più di un maquillage, e che tuttavia lo impone a scadenze pressoché costanti. Successivamente vedremo perché non le è consentito più di tanto. È un post che devo ai tanti che mi hanno scritto nelle ultime settimane chiedendomi un parere su questo pontificato.
Prima, però, devo chiarire perché affermo che a correre ai ripari, in tali momenti cruciali, non siano le gerarchie ecclesiastiche, ma  – come ho detto la Chiesa, nel suo insieme. Senza dubbio, infatti, il trattamento è a cura dei chierici che rivestono le più alte cariche nella piramide, perché come promotori o facilitatori dell’operazione hanno un ruolo insostituibile, ma è l’ecclesia nel suo insieme che è allo stesso tempo – per restare sull’allegoria – specchio e faccia.
Anche chi ha solo superficiali nozioni della bimillenaria storia della Chiesa non può ignorare che ogni conato di riforma che le nasce in seno per diventare eresia fino allo scisma oppure per essere riassorbito per digestione interna o esterna, come è nel caso dei maquillage cui ogni tanto ricorre  è sempre caratterizzato da un bisogno di recuperare di qualcosa che si avverte essere andato perso dell’originale messaggio evangelico, della primordiale forma ecclesiale, ecc. Nessuna riforma religiosa nasce come fuga in avanti, ma sempre nellistanza di un ritorno al punto in cui qualcosa è andato smarrito. Un recupero che ovviamente è impossibile, non fossaltro perché nella sua forma primigenia il cristianesimo è irripetibile, e tuttavia, qualunque sia lesito dell’operazione, la patina di autenticità di cui la Chiesa si ricopre in tali frangenti deve rispondere sempre allimmagine di quanto si è ritenuto fosse andato perso, e questi connotati possono essere validamente rimarcati solo nel rispetto di una continuità che trascende le contingenze. 
Di sé, daltronde, la Chiesa ama dire che «semper reformanda est», ma di fatto il levare quel di più che dal mondo ha cominciato col tornarle utile, per diventarle poi sempre più dannoso, si rivela sempre un sovrapporre immagine a immagine, e in ciò si realizza – ben più che in metafora  quanto è accaduto con la fabbrica di San Pietro, nella quale, di secolo in secolo, gli altari sono stati eretti luno sullaltro, come impilati nel corso del tempo: nulla va perso, tutto rimane nelle viscere del Vaticano.

Non  è mai accaduto – probabilmente non accadrà mai  che un movimento nato in seno al popolo cristiano si sia dato atteggiamento critico verso le gerarchie ecclesiastiche coeve senza che l’accusa contenesse la denuncia di un tradimento. Sta di fatto che il voler essere «nel mondo, ma non del mondo», comporta inevitabili scivolamenti, ed è proprio dove il mondo ha i suoi punti più scivolosi che le incongruenze di cui son zeppi i Vangeli consentono interpretazioni ampiamente divergenti, sicché anche il richiamo allesempio di Cristo e dei suoi apostoli non è mai derimente. Nel corso dei secoli, così, sono andate a stratificarsi interpretazioni anche ampiamente divergenti, ciascuna prevalente per un determinato arco di tempo, e tutte coincidenti nelle ambiguità, quando non nelle contraddizioni, della Scrittura.
Sulla povertà, ad esempio. Cristo la elogia, ma indossa una tunica tessuta in un unico pezzo: un capo di vestiario che ai suoi tempi è da considerare assai prezioso. Perché i ricchi possano entrare nel regno dei cieli consiglia loro di vendere tutto e di distribuire il ricavato ai poveri, ma già negli Atti degli Apostoli leggiamo che quel compito è assunto dalla comunità protocristiana, che ha un tesoriere e una cassa. Fin da subito, dunque, e comunque ben prima che si faccia largo la convinzione che la venuta del regno dei cieli non sia imminente, l’accumulo di beni materiali diventa una costante della realtà ecclesiale.
Così con l’attributo regale e coi suoi derivati del potere temporale. In Giovanni si legge che, «sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, [Cristo] si ritirò in solitudine su un monte» (Gv 6, 15), ma poco dopo, a chi gli chiede se sia lui il re dei giudei, risponde:  «Tu lo dici, io sono re (Gv 18, 37). Certo, dice pure: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18, 36), ma il mandato apostolico è un vero e proprio vicariato di reggenza e già in Paolo leggiamo che «non cè autorità se non da Dio» (Rom 13, 1), il che fa del potere temporale un mandato divino, che non tarderà a trovare coincidenza col potere spirituale in un papa-re. Beni materiali e potere, insomma, non sarebbero affatto in contraddizione con l’esercizio del ministero, anzi ne costituirebbero la garanzia. Poi, sì, ci sono gli eccessi, ma si sa che la carne è debole.
Jorge Mario Bergoglio arriva al Soglio Pontificio in uno dei momenti più delicati della storia della Chiesa. Suppongo sia superfluo elencare tutti i suoi problemi odierni, basti dire che neanche uno dei tradizionali indicatori del suo benessere è attualmente in positivo. Da tempo si faceva pressante la necessità di ritoccare la sua immagine assai deteriorata dagli scandali che da almeno tre decenni si succedono incessantemente, per offrirne una nuova, tutta acqua e sapone. Per questa operazione serviva un uomo che sapesse incarnasse questa immagine e un gesuita era la persona più adatta. Maestri dell’inculturazione verticale e orizzontale, i gesuiti sono da sempre i più abili visagisti della Grande Puttana.   

venerdì 12 aprile 2013

l'Espresso, 18.4.2013







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Qualcuno arrivò a paragonarla a Giovanna D’Arco, gli altri si divisero tra quanti ne lodavano lo stile, così lontano dalla sguaiatezza leghista, e quanti la consideravano antipatica, ma concedevano avesse un gran carattere. Quante se ne sprecarono per la Pivetti, poi ce la ritrovammo in un completino di similpelle nera a presentare un programmino su una rete Mediaset.
A considerare quante se ne sprecano per la Lombardi, oggi, sembrerebbe proprio che il giornalismo italiano non sappia fare a meno di baloccarsi con la propria stupidità per essere all’altezza della stupidità di chi per costruirsi un’opinione vi attinge. Chi scorge in lei l’archetipo della Perfida Stronza, chi le attribuisce un tratto leninista…
Nessuno sembra essere sfiorato dalla più banale delle evidenze: la Lombardi è il paradigma della mediocrità che arde e splende nel suo quarto d’ora di celebrità. Sembra cattiva, ma non lo è, l’impressione è data da quei decenni di frustrazione che vengono a prendere una boccata d’aria prima di risprofondare in apnea. Se non lo sa, lo sente, e perciò esagera.

martedì 9 aprile 2013

Velatura a calce


Il giudizio di un’opera d’arte al netto della fama di cui gode l’autore è cosa tanto più difficile quanto più le sue virtù son celebrate, e diventa difficilissima quando si tratta di un artista universalmente apprezzato. Mai come in campo artistico, infatti, vige la regola che l’universalmente apprezzato consenta solo variazioni delle più comuni lodi che ha fin lì raccolto. Se contiene spunti critici, infatti, l’analisi dell’opera d’arte universalmente apprezzata sembra sempre l’eccentrica trasgressione di un bastiancontrario che sfida la solidità del più ovvio buon senso.  Se tuttavia rimane ancora possibile criticare il lavoro di un artista universalmente apprezzato quando questi è ancora vivo o quando la sua fama non ha subito ancora la stagionatura di due o tre generazioni, trovare pecche nel dipinto di un grande del passato è del tutto sconsigliato, perché si corrono più rischi di quanti ne corra il blasfemo sorpreso a pisciare nell’acquasantiera. Azzardarsi, così, a rilevare che le anatomie di Michelangelo sono spesso sproporzionate è come un bestemmiare.
Chi può permettersi di affermare che «il chiaroscuro del Caravaggio non ci impressiona più, perché è troppo ovviamente ispirato da un interesse tecnico e finisce col produrre effetti melodrammatici, con un gusto del contrasto che trova risultati assai più felici in opere del pieno Quattrocento»? Giusto un Berenson, non altri. Che però ha ragione: il Caravaggio «sbatte un cuneo di luce contro una superficie indeterminata, forse una parete, forse un soffitto, e raramente ci dice dove siamo, in che specie di spazio la scena si svolge, e fra quali dimensioni». Non è forse vero che i suoi nudi «sembrano visti indirettamente, come in uno specchio, e mancano del calore della presenza immediata»? Un artista che si esaurì negli effetti speciali, e che perciò fu messo nel dimenticatoio per qualche secolo, a ragione superato da «Velásquez, Vermeer, Rembrandt [che] impararono da lui e, profittando dei suoi insegnamenti, evitarono gli eccessi dell’innovatore».
Un grande solo dopo la riscoperta, il Caravaggio. Una fama esagerata, per lo più dovuta al gusto del momento in cui fu riscoperto. E vogliamo parlare di Leonardo? Eccezionale anatomista, felicissimo occhio nel cogliere torsioni, scatti e tensioni, ma una buona volta vogliamo dirlo? Al netto del tanto che se n’è detto, la sua Monna Lisa fa cagare. Acquista un senso solo coi baffi che le aggiunse Duchamp.
Questo pensavo domenica, leggendo il doppio paginone a firma di Lauretta Colonnelli su La Lettura del Corriere della Sera, dedicato ai dipinti di Raffaello che affrescano la Stanza di Eliodoro, di recente sottoposti a restauro. Restauro che ha consentito una scoperta: lì Raffaello usò la velatura a calce. «Nessun artista prima di Raffaello l’aveva praticata, nessuno dopo di lui l’ha più usata. La tecnica era rimasta sconosciuta anche ai contemporanei del maestro urbinate. O forse l’avevano ritenuta un semplice virtuosismo. Neppure il Vasari ne fa cenno. I manuali delle tecniche pittoriche la ignorano»: ecco un bell’esempio di sospensione del giudizio critico dinanzi alla fama di un grande.
Questa eccezionale particolarità non solleva alcun dubbio, nessuna perplessità si affaccia. E sì che siamo di fronte a una tecnica usata solitamente dagli imbianchini, perché una cosa è la velatura a strati sovrapposti di pigmento dalle tonalità diverse, ampiamente conosciuta nella storia dell’arte, un’altra è la velatura a calce, che ha solo due possibili scopi, a seconda dello spessore del materiale apposto al sottostante strato di pigmento affrescato: proteggerlo dagli agenti atmosferici o dargli effetto di trasparenza in profondità. Possiamo escludere il primo, perché la superficie che fa da supporto al dipinto è in un interno. Dice nulla, dunque, che Raffaello abbia usato una tecnica di addomesticazione dell’effetto reso dall’affresco? È così scandaloso immaginare che non fosse soddisfatto del risultato e abbia voluto migliorarlo grazie a un velo che opacizzasse le scene raffigurate per conferire loro quell’atmosfera di sospensione che non gli sembrava di essere stato in grado di rendere? Solo se diamo per scontato che a Raffaello non potesse venirgliene storta neanche una. Basta però dare uno sguardo alla Stanza di Eliodoro oltre il velo di calce e soprattutto oltre la fama, per altro meritata, per capire che si tratta della più infelice prova dell’artista. A mio modesto avviso, la velatura a calce è stata una soluzione approntata in modo del tutto estemporaneo. E il fatto che Raffaello non labbia mai più adottata rivela che non gli sembrò neppure una soluzione del tutto convincente.
Basta considerare lelemento che quasi certamente pose il problema: la raggiera di luce in cui è avvolto l’angelo che libera Pietro dalla prigione. Per meglio dire: che dovrebbe rendere leffetto di avvolgerlo e che invece gli sta solo dietro.
Si tratta di un ovale che ha l’asse lungo parallelo asse mediano della figura, ma è fin troppo evidente che non gli è coincidente. La velatura a calce voleva schiarire la figura con l’intenzione di includerla nel volume di luce. Raffaello deve aver pensato che per dare profondità allovale, renderlo un ovoide entro il quale  l’angelo apparisse irradiarlo dalla sua figura, bastasse la raggiera che se ne dirama, ma la soluzione deve essergli apparsa artificiale, come da effetto posticcio.




A supporto di questa ipotesi c’è un dettaglio rivelatore che è segnalato da Lauretta Colonnelli in ciò che le racconta Paolo Violini, il direttore dei lavori di restauro: «Paolo Violini racconta di avere attraversato un momento di terrore puro, quando ha cominciato a pulire la raggiera che avvolge l’angelo in una mandorla di luce e nasconde il braccio di Pietro.Via via che scendevo lungo il braccio, i raggi mi si spezzavano tra le dita. Più scendevo e più diventavano evanescenti. Ho cominciato a pensare che stavo rovinando un capolavoro. Poi, quando sono arrivato alla mano di Pietro, ho capito: intrecciata a quella dell’angelo trapassa la luce e appare in primo piano. Negli anni Cinquanta avevano accentuato la raggiera, trasformandola in un faro, e scontornando la figura dell’angelo in controluce, in modo da aumentare il contrasto. Abbiamo scoperto che è invece l’angelo stesso a irradiare luce, è lui stesso luce. Raffaello l’ha dipinto con pochissime pennellate essenziali, c’è un’ala che è fatta praticamente di niente, perché si fonde nella luce».

La velatura in calce aveva perso nel tempo la sua efficacia per il materiale che vi era accumulato sopra nel tempo. Ben evidenti erano solo i contorni della figura sottostante e il maldestro restauratore degli anni Cinquanta non aveva trovato nulla di meglio che rinforzare i raggi scontornandola, nel tentativo di ottenere lo stesso effetto di avvolgimento. Una sola differenza tra Raffaello e il maldestro restauratore: il primo non andò troppo per il sottile, il secondo si trovava di fronte  all’opera di un grande e pensò di aggiungervi ciò che riteneva fosse andato perso. Lautore dellaffresco non aveva di sé la considerazione che gli sarebbe stata tributata dopo: non si sentiva infallibile.

lunedì 8 aprile 2013

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L’«intrinsichezza»


Dell’editoriale a firma di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di lunedì 8 aprile (Una periferica appartenenza) potremmo limitarci a segnalare solo l’orrido strafalcione che sta nell’uso di «intrinsichezza» al posto di «intrinsecità»: «intrinsichezza» (o «intrinsechezza») esiste, ma non sta a indicare quella stretta coessenzialità che nel testo è palese s’intendesse rammentare esserci sempre stata tra Chiesa italiana e Curia Romana, bensì profonda dimestichezza, intima familiarità e simili. Di questi tempi, però, non conviene segnalare strafalcioni, perché ci si guadagna fama di grammar nazi, temibile epiteto coniato da chi sostiene che la lingua si evolva di refuso in refuso, grazie alla volenterosa opera di cazzuti ignorantoni che finiscono sempre per aver la meglio su pedanti puristi, e allora ben venga la virgola tra soggetto e predicato. Chiuderemo un occhio sull’«intrinsichezza», allora, e anzi la prenderemo per buona, faremo finta che Ernesto Galli della Loggia volesse dire proprio quello che ha scritto: tra Chiesa italiana e Curia romana c’è sempre stata – ma negli ultimi tempi sarebbe venuta ad affievolirsi – una fraterna intimità, un’affettuosa familiarità, un’amorevole reciprocità di premurose attenzione.
Bene, anche così non funziona, perché tra Chiesa italiana e Curia romana sono sempre volati coltelli, e l’unica differenza col passato è che oggi i colpi lasciano ferite che sanguinano pubblicamente. Probabilmente Ernesto Galli della Loggia ignora che tra Segreteria di Stato e Cei ci sono sempre stati screzi, a voler usare un morbido eufemismo. Più in generale, e da ben prima che nascesse la Cei (1952), i rapporti tra l’episcopato italiano e i dicasteri della Santa Sede hanno sempre avuto momenti di notevole tensione, anche se rimanevano celati all’attenzione del grande pubblico. Anche a voler prendere per buona l’«intrinsichezza», dunque, ciò che Ernesto Galli della Loggia scrive non regge: voleva dire «intrinsecità», non c’è dubbio. Se è così che va letto ciò che scrive, dovremmo intendere che, a suo parere, «negli ultimi decenni agli occhi dell’universo cattolico la Chiesa italiana [sarebbe] andata perdendo la rappresentatività positiva che una volta essa bene o male possedeva, e invece [avrebbe] assunto un’immagine sempre più grigia, addirittura dei tratti negativi [e che] decisiva, in questo senso, [sarebbe] stata la sua perdurante [coessenzialità] con la Curia romana […] che, resa più indipendente proprio per la presenza di pontefici non italiani, ha mostrato la tendenza a procedere quasi per conto proprio, fino ad apparire – in non molti casi, ma significativi – pressoché interamente fuori controllo».
Bene, anche così non regge. Si tratta di un’interpretazione dei fatti che risente pesantemente di quel pregiudizio lungamente accreditato in ambito storiografico da quanti hanno sostenuto che le sorti dell’Italia fossero ineluttabilmente legate in ambito internazionale a quelle della Santa Sede: per costoro, ad una crisi del cattolicesimo doveva necessariamente seguire un declino dell’Italia, sicché una collaborazione tra Stato e Chiesa che in ambito internazionale garantisse una sorta di identificazione tra Italia e Santa Sede non poteva che tornare di reciproca utilità. La tesi continua ad essere sostenuta da alcuni ed Ernesto Galli della Loggia è evidentemente tra costoro – ma non tiene in alcun conto del fatto che i processi di globalizzazione hanno dimostrato che gli interessi dello Stato italiano e della Chiesa di Roma andavano già divaricandosi dal 1861 in poi, per diventare con sempre maggior frequenza confliggenti. Se poi si va più indietro, non si ha alcuna difficoltà a riconoscere che fin dal Rinascimento in poi, per acuirsi in massima misura col Risorgimento, gli interessi italiani sono sempre stati in attrito con quelli vaticani. Con questo o con quel signorotto di un ducato o di regno dell’Italia non ancora unita, certo. Con questo o quel notabile della Dc, di sicuro. Ma affermare, come fa Ernesto Galli della Loggia, che «nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha rappresentato la sola istituzione internazionale, o meglio sovranazionale (e che istituzione!), nella quale l’elemento italiano ha avuto un’evidente e ininterrotta centralità» significa identificare questo «elemento italiano» nella particolarità dellinteresse che esprimeva in favore di chi trovasse utile il tornar utile alla Chiesa. Perfino l’ultimo Arturo Carlo Jemolo (Chiesa e Stato in Italia dal Risorgimento ad oggi, Einaudi 1955) sollevava seri dubbi su questa tesi.
«La Chiesa italiana riflette dunque quello che sembra il destino del Paese»? Non proprio. Più corretto dire che entrambi pagano il prezzo di aver creduto nella tesi che fossero la stessa cosa o che tra essi avesse giocoforza da esservi, se non «intrinsecità», «intrinsichezza». Si sono fatti male a vicenda, nellillusione che gli interessi dei contraenti il patto fossero interessi della Chiesa e dello Stato. Il declino comune rivela che lillusione non poteva reggere in eterno. 

M.T.

Tutto, pur di continuare ad illudersi


La tabella riprodotta qui sopra è tratta da uno studio dell’Istituto Cattaneo che analizza il flusso di voti che nel 2013 sono afferiti al M5S dagli schieramenti politici che si erano presentati alle elezioni politiche del 2008 (l’indagine riguardava 9 città, ma ho modificato la tabella per mettere in risalto i dati relativi a quelle con un maggior numero di aventi diritto al voto). In pratica, prendendo a esempio il caso di Bologna, su 100 voti andati al M5S nel 2013, solo 10 venivano da quanti si erano astenuti nel 2008, mentre 65 venivano da quanti avevano votato il Centrosinistra e 24 da quanti avevano votato il Centrodestra. Ma è a scendere nel dettaglio relativo a quanti elettori del Pd nel 2008 abbiano votato il M5S nel 2013 che si comprende che fine abbiano fatto gli oltre tre milioni e mezzo di voti persi in 5 anni dal partito guidato da Bersani. 


Almeno per le quattro città qui prese in considerazione è evidente che gli elettori del M5S siano ex elettori del Pd per oltre il 45% (oltre il 35% per le 9 città prese in considerazione dall’Istituto Cattaneo: Torino, Brescia, Padova, Bologna, Firenze, Ancona, Napoli, Reggio Calabria, Catania). Con un’approssimazione che non va troppo lontano dai dati reali potremmo concludere che almeno due milioni degli oltre sette raccolti dal M5S al Senato, e quasi tre degli oltre otto milioni e mezzo raccolti dal M5S alla Camera, siano stati di ex elettori del Pd. Voti che, almeno in parte, sarebbero affluiti al M5S nella speranza, poi rivelatasi vana, che tra Grillo e Bersani fosse inevitabile un’intesa di governo. In pratica, si sarebbe trattato di un voto che mirava a dare una lezione al Pd per spostarne il baricentro a sinistra, ma è stato proprio Grillo a definirlo un errore di calcolo: «Perché hai votato il M5S? Per fare un governo con i vecchi partiti? […] Allora hai sbagliato voto» (beppegrillo.it, 3.4.2013).
Un sondaggio di Renato Mannheimer (Corriere della Sera, 7.4.2013) rivela che di tale errore sarebbe pentito circa un quinto di quanti avrebbero votato il M5S il 27 febbraio (circa il 29%), sicché oggi lo voterebbe solo il 24% degli italiani: solo l’1% in meno di quanti l’hanno realmente votato il 24 e il 25 febbraio. Ad essere pentiti di aver capito male, insomma, sarebbero più quanti avevano frainteso dopo il voto di quanti invece avessero frainteso prima, ammesso che avessero davvero frainteso (non più di 7-800.000 sui 2-2,5 milioni di ex elettori del Pd che hanno votato M5S).
Cosa dovrebbe dedurne, il Pd? In primo luogo, che  dall’indisponibilità di Grillo ad unalleanza di governo può recuperare meno di un terzo degli oltre tre milioni e mezzo di elettori persi tra il 2008 e il 2013. In secondo luogo,  che a far scelte che il suo elettorato fin qui fedele molto probabilmente giudicherebbe come uno sbilanciamento a destra (più di tutto, un inciucio col Pdl) ha solo da perdere altri voti. Infine, che dallaver paura di tornare alle urne e dallessere disposto a tutto pur di rimandare il voto può rimediare solo altre sonore batoste. Tuttavia pare che si disponga proprio a questo. Perché tornare alle urne significherebbe affrontare altre primarie e Bersani non è più sicuro di poterle rivincere. In sostanza, la scelta è di perdere altri elettori. Tutto, pur di non dichiarare il fallimento della classe dirigente che fin qui ha guidato il partito. Tutto, pur di continuare ad illudersi che il paese sia diverso da quello che è.  

domenica 7 aprile 2013

Corrispondenze


Ricevo da Nane Cantatore un contributo che ritengo estremamente interessante:

Il fallimento dei diversi tentativi di trovare una forma di mediazione con il movimento cinque stelle ha una spiegazione assai semplice: tale movimento è alieno da qualsiasi mediazione. Ciò trova una spiegazione ufficiale nelle dichiarazioni del suo proprietario e dei suoi accoliti maggiormente fidelizzati o fanatizzati, che consiste nella litania della diversità, dell'irriducibilità e della superiorità: da ciò conseguirebbe la refrattarietà a qualsiasi alleanza con soggetti diversi, e pertanto infidi.
Se questo comportamento è spiegabile, nei termini della psicopatologia, come risultato di una sindrome paranoica, […], qui interessa comprenderne le linee strategiche, più che comprenderne i motivi. Ogni normale partito politico, infatti, dopo aver conseguito un forte consenso elettorale, tende a capitalizzare tale risultato (o, il che è lo stesso, a esercitare il mandato degli elettori secondo le logiche della democrazia rappresentativa) per insediarsi al governo o, per lo meno, per contribuire a indirizzarne le politiche. I pentastellati, invece, si arroccano, si riuniscono in improbabili convegni a metà tra la riunione segreta e la gita fuori porta, si limitano a ribadire la loro estraneità tanto da cortocircuitare la loro (ampia) retorica e (limitata) prassi della trasparenza, fino a utilizzare le due soluzioni estreme della comunicazione pubblica: ribadire la propria purezza nella forma evangelica del chi non è con me è contro di me, e parlare d'altro, per esempio del Monte dei Paschi.
Il dato interessante, a cui non mi pare si faccia sufficiente attenzione, è che questo comportamento è del tutto opposto a quello adottato in Sicilia, dove il M5S è, di fatto, parte della maggioranza di governo, e dove tale partecipazione viene rivendicata, nelle parole del proprietario del movimento e dei suoi più illustri fiancheggiatori. In altre parole, e mi sembra chiaro che questo debba essere stato il pensiero dei vertici del PD, il modello siciliano poteva essere visto come il precedente a cui rifarsi, se non come l'incubatore di un possibile governo nazionale.
Se non è accaduto così non è, credo, per una forma di schizofrenia da parte di un soggetto politico che pensa in un modo a Palermo e in un altro a Roma, o perché con il 15 per cento ci si comporta in un modo e con il 25 in un altro: la prima interpretazione mi pare troppo psicologica, la seconda troppo politica. Credo che si tratti di una questione di egemonia, sulla scena politica e, soprattutto, all'interno del M5S, che proprio per i suoi risultati elettorali si sta trasformando, di necessità, da aggregato eterogeneo tenuto insieme da un leader carismatico in soggetto politico a tutti gli effetti. La caratteristica primaria di un soggetto politico, infatti, anche quando esso sia maggiormente caratterizzato dal leaderismo e dal culto della personalità, è proprio la sua pluralità: per quanto sia importante il leader, in esso esistono altre personalità, diverse specializzazioni e diverse opzioni tattiche e persino strategiche. Accade oggi nel PDL, per esempio, come è accaduto nel PCUS staliniano o nella NSDAP, per quanto tutte queste formazioni fossero indubbiamente dominate da un leader carismatico.
In altre parole, un M5S coinvolto nel governo a livello nazionale dovrebbe fare i conti con istanze, modalità e tempi decisionali diversi da quelli interni, il che renderebbe necessario lo sviluppo di strutture e di deleghe personali tali da trasformare la natura profonda del movimento stesso, verso una maggiore pluralità, una più ampia e visibile dialettica e, persino, un diverso rapporto con i media. Se già i due improbabili capigruppo parlamentari stanno esprimendo differenze e disagi, ci si può immaginare cosa accadrebbe con un ministro o un rappresentante in una commissione governativa.
L'arroccamento del movimento, la sua litania di intransigenza e le continue scomuniche del proprietario verso chi si distanzia dalla linea ufficiale rispondono, insomma, essenzialmente a esigenze di controllo interno, per bloccare l'evoluzione del M5S verso la forma di soggetto politico plurale. A queste condizioni, una forte riduzione del consenso elettorale non sarebbe vista come una sconfitta ma come un necessario passaggio di depurazione, per ribadire la litania di alterità ed estraneità e consolidare l'assetto monolitico del movimento.
Qui, se si vuole, si può misurare la pochezza delle capacità strategiche del proprietario, che si preclude di fatto ogni possibilità di accesso al potere, o di azione concreta sulle cose, pur di conservare il proprio predominio. Se è possibile governare in Sicilia, ciò avviene perché il livello locale non interessa al proprietario, che comunica direttamente con le masse per via diretta, con i suoi comizi nelle piazze e sul suo similblog, o per via indiretta, attraverso le televisioni che riportano i suoi slogan e la sua estetica. Partecipare al governo del Paese creerebbe, necessariamente, una moltiplicazione dei canali di comunicazione e dei soggetti che vi avrebbero accesso, mettendo in crisi un modello di leadership che si definisce, più che secondo le categorie classiche della politica, secondo quelle del marketing, e nemmeno di quello più moderno: l'importante è controllare il brand e trasmetterlo, impedendo a chiunque di contribuire a determinarlo.

Tipologie di leadership carismatica

Abbiamo visto perché il carisma non debba essere inteso come una sorta di grazia della quale un leader possa essere dotato o meno, ma come quella sorta di disgrazia nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata (Il cosiddetto carisma – Malvino, 13.12.2012) e quindi abbiamo preso a esempio un caso clinico che illustrasse eloquentemente l’assunto (Uno spaccato clinico – Malvino, 30.1.2013). Poi, abbiamo spiegato perché occorre che una leadership di tipo carismatico debba giocoforza assumere un carattere messianico per fidelizzare seguaci (Formazione a vocazione settariaMalvino, 29.12013) e perché a tal fine le torni estremamente utile una dimensione relazionale prepolitica e una struttura comunitaria di tipo organico (Se ieri era un pericolo, oggi è una minaccia – Malvino, 19.2.2013).
Questo percorso non aveva alcuna pretesa sistematica, anzi, era intenzionalmente frammentario perché prendeva il passo dall’analisi  di alcuni elementi della leadership carismatica colti in uno specifico precipitato, che, se poteva essere esemplare, aveva tuttavia i limiti del caso empiricamente trattato. Anche per questo  – soprattutto per questo  – non si è potuto fare a meno di fare un largo uso del rimando ai lavori scientifici che negli ultimi decenni hanno trattato il tema in ordine ai problemi posti in ambito psicologico e sociologico, senza fare mistero che i risultati più convincenti in tali ambiti ci sembravano quelli ottenuti, rispettivamente, da Otto Kernberg e da Neil Smelser. Superfluo rammentare al lettore abituale di questo blog che gli spunti di riflessione sono stati offerti dalla cosiddetta galassia radicale che ruota attorno a Marco Pannella e dal cosiddetto non-partito di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Ora, se vogliamo approfondire la questione, ci tocca operare una distinzione tra i due più frequenti stili di leadership carismatica – quella di tipo narcisistico e quella di tipo paranoideo – che trovano corrispettivo in due diverse forme di settarismo e in due diversi quadri di psicopatologia di gruppo, ma prima occorre fare due importanti premesse. In primo luogo, non di rado l’esperienza ci offre quadri psicopatologici misti, anzi, è assai frequente che in uno stesso leader carismatico siano sensibilmente rappresentati, seppur in varia misura, aspetti narcisistici e aspetti paranoidei, che in ogni caso trovano espressione strettamente conseguente nei moduli relazionali che caratterizzano il legame tra leader e seguaci, e quello tra i membri del gruppo. In secondo luogo, si avrà modo di cogliere il tenore emozionale che sostiene il piano sul quale si strutturano le relazioni in oggetto, se si tiene conto del fatto che, proprio come i gruppi a leadership carismatica di impronta religiosa hanno forte caratterizzazione politica, quelli a impronta politica hanno forte caratterizzazione religiosa.
Per l’elemento di discrimine che qui si prenderà in oggetto ci tornerà utile il lavoro di Otto Kernberg che qui è estratto da più contesti (Internal World and External World, 1980; Severe Personality Disoders, 1984; Ideology, Conflicts and Leadership in Groups and Organizations, 1998).  
Perché sia conservata l’uniformità di percorso dell’analisi come fin qui condotta nei post cui ho fatto cenno all’inizio, consiglio di leggere queste pagine pensando ai radicali, quando il discorso è centrato sul modello di leadership carismatica a impronta narcisistica (a), e ai grillini, quando l’impronta è di tipo paranoideo (b). Ma senza dimenticare quanto si è già detto: non di rado l’esperienza ci offre quadri psicopatologici misti. 



(a)





(b)




giovedì 4 aprile 2013

14 agosto 2054


Non so se già sia stato segnalato, io me ne sono accorto solo ieri: Gaia, la visionaria congettura di Gianroberto Casaleggio sul futuro del nostro pianeta, dovrebbe prender corpo il 14 agosto 2054. Ciò che mi ha dato da pensare è stato il fatto che il visionario abbia fissato una data precisa per la nascita di Gaia, mentre per lo scoppio della III Guerra Mondiale (2020) e la sua fine (2040), per lo sviluppo di comunità collegate in rete (2043) e l’istituzione della cittadinanza mondiale in social network (2047), per la creazione dell’intelligenza collettiva on demand (2050) e per le prime elezioni a suffragio planetario (2054) si sia limitato a indicare l’anno. Non mi ci è voluto molto per scoprire che quella data non era scelta a caso: Gianroberto Casaleggio è nato il 14 agosto 1954, giusto un secolo prima. Troppo poco per dedurre che Gaia non sia una previsione, ma una proiezione fottutamente paranoica?

mercoledì 3 aprile 2013

[...]

La storia insegna che questo sarebbe il momento buono per un attentato, di quelli che poi stai lì per trent’anni a discutere su chi possa esserne stato il mandante, senza riuscire neppure ad acchiapparne gli esecutori, tutt’al più a individuare gli immancabili depistatori. Uno di quegli attentati, dico, che in apparenza sembrerebbero voler dare il colpo di grazia a una nazione già in ginocchio, o almeno a esasperarla fino all’inverosimile, e che invece servono ad accelerare processi che fanno fatica a maturare nei loro esiti finali, peraltro ineluttabili. La strage come il pugno sull’elettrodomestico guasto, che – non si sa perché – funziona, e lo fa ripartire. Si tratta della soluzione che conta sulla disperazione come riserva di energie per rimuovere uno stallo. Probabilmente, tuttavia, stavolta il botto non ci sarà. Manca il demiurgo. 

domenica 31 marzo 2013

[...]

E pensare che stavo a un passo dal fare la cosa giusta. Stavolta non vado a votare, mi dicevo, al diavolo le fanfaluche dei tromboni che «chi non va a votare perde il diritto di lamentarsi per quanto accadrà, e acquisisce il dovere di tacere e subire, perché ha taciuto e subito nel giorno delle elezioni» (Michele Serra – la Repubblica, 30.10.2012). L’avevo sempre pensato anch’io, robe che ti ficcano in testa da bambino, e poi un meno peggio l’avevo sempre trovato. Stavolta non lo vedevo, non lo vedevo proprio. Poi, non dico l’imprevedibile, ma l’inimmaginabile, e tutt’assieme. Quel fesso di Monti, che aveva già mezzo culo seduto al Quirinale, sale in politica. Grillo comincia a salire nei sondaggi come il mercurio nel termometro quando arriva la quartana. Il cadavere di Berlusconi resuscita, si spruzza un po’ di lavanda sotto le ascelle e ritrova la sua Italietta pronta a levarlo ancora sugli scudi. A ripensarci, dev’essere stata la Nemesi. «Volevi disertare le urne, eh? Adesso ti sistemo io. Un meno peggio? Eccoti Bersani, così impari».
Sapevo che mi sarei pentito, l’ho scritto pure, e non me lo dicevo per scaramanzia. Chi non lo conosce, il Pd? Manco doveva nascere, poverino, il patrimonio genetico era zeppo di tare. Ma la natura è cieca, l’aborto non c’è stato ed è venuto al mondo solo per mendicare tenerezza e sbattere il testone dappertutto, con predilezione per gli spigoli. Non ne ha indovinata una, il Pd di Bersani, e per sbagliarle tutte si è concentrato al massimo, ha cominciato con l’appoggio a Monti ed è finito a rincorrere Grillo. Si vedeva già a Palazzo Chigi, l’unico ostacolo gli pareva solo Renzi, e ora non riesce a farsene una ragione. Si trattasse di cazzi esclusivamente suoi, non gli si potrebbe negare compassione. Neanche capace di comprarsele, due dozzine di grillini.
Al confronto, il Pds di Occhetto e la Dc di Martinazzoli giganteggiano. Due sfigati nati, quelli, ma almeno avevano quei tre etti di cultura politica per stare davanti agli eventi, per tentare di guidarli, a costo di farsene travolgere, piuttosto che arrancarvi dietro in affanno, e senza mai essere in grado di intravvederne altro che il culo. Due bidoni, ma sul fondo rimaneva qualche traccia di Gramsci e di Dossetti. Che il M5S sia merdaccia fascista spalmata sulla più becera versione del New Age, insomma, l’avrebbero capito. Bersani, no.
Sapevo che mi sarei pentito, l’ho detto, ma almeno ho guadagnato il diritto di lamentarmi, tanto ormai votare pare serva solo a questo. Francamente, però, costa troppo. La prossima volta mi lamento a scrocco.

lunedì 25 marzo 2013

«Povertà, pene, insulti, fatiche, mischie ed offese»


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[tratto da: Gianna Preda, il "Chi è" del Borghese, Le Edizioni del Borghese 1961 - pagg. 455-460]