martedì 4 agosto 2015

Di ragni e di cavalli

Sullimmunità parlamentare ho già detto cosa penso, qui mi limiterò a dire che in tutte le sue forme, anche in quelle che alcuni ritengono eccessivamente ridimensionate dalla revisione dellart. 68 della Costituzione, è un istituto che ha perso ogni funzione di garanzia per diventare solo un odioso privilegio.
Si prenda il primo capo del suddetto articolo: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nellesercizio delle loro funzioni». Poteva avere un senso, in passato: tutelava loppositore che un regime avesse lintenzione di rendere inoffensivo servendosi di una magistratura debitamente asservita. Ma oggi? Si prenda, per esempio, un’opinione che esprima contenuti ipoteticamente discriminatori in ordine alla razza, e la si metta in bocca – uguale in tutto, fino alla virgola – ad un comune cittadino, prima, e ad un parlamentare, poi: perché, se giudicata offensiva in un caso, dovrebbe rimanere impunita nell’altro? Per meglio dire, cos’è che la rende inoffensiva in bocca ad un deputato o un senatore? Cosa dovrebbe giustificare il fatto che chi sia stato fatto oggetto di questa offesa possa aspettarsi di avere giustizia nel primo caso, e non nel secondo?
Così al secondo e al terzo capo, che recitano: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nellatto di commettere un delitto per il quale è previsto larresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza». Sorvolando sullefficacia sostanzialmente nulla di perquisizioni o intercettazioni preliminarmente annunciate a chi debba esserne fatto oggetto, resta la questione dellautorizzazione della Camera a che la magistratura possa procedere nelle attività di accertamento di un reato e all’eventuale richiesta di misure cautelari che essa ritenga necessarie in attesa del processo.
Qui ritengo sia da sospendere ogni considerazione relativa allo stato dei fatti nel nostro ordinamento – io per primo considero indispensabile modificarlo in più punti, innanzitutto a garanzia di chiunque non abbia subìto ancora una condanna definitiva – ma di appuntare l’attenzione sulla patente disparità di trattamento a carico di un comune cittadino o di un parlamentare per quanto attiene all’eventualità che essi abbiano commesso lo stesso reato: è scorretto affermare che il primo abbia molte più possibilità di essere condannato rispetto al secondo? Trattandosi dello stesso reato, è giusto che chi ne abbia subìto il torto dal primo abbia da attendersi maggiori possibilità di ristoro rispetto a chi l’abbia subìto dal secondo? E in virtù di quale garanzia che in questo secondo caso sarebbe necessario assicurare a chi ha commesso quel reato?
In quanto al fatto che spetti al Parlamento concedere alla magistratura l’autorizzazione a trattare un parlamentare come un comune cittadino, la questione rivela molti punti critici, peraltro eloquentemente illustrati da numerosissime vicende che sono scorse lungo i decenni di vita di Camera e Senato. Alle Giunte cui i due rami del Parlamento demandano il compito di individuare un eventuale fumus persecutionis nelle iniziative della magistratura a carico di un parlamentare spetta il compito di relazionare alle assemblee se ne hanno trovato traccia o meno, ma è a queste ultime che spetta l’ultima parola, che non di rado – l’ultimo caso è quello del senatore Antonio Azzollini – smentisce il parere di chi ha potuto approfondire meglio il caso. A stretto rigor di logica, se ne potrebbe dedurre che le Giunte per l’autorizzazione a procedere siano del tutto inutili: se ogni deputato ed ogni senatore è in grado di arrivare a un libero convincimento sul caso di volta in volta in oggetto, facendo a meno del preliminare lavoro di studio che un organo appositamente designato allo scopo dedica alle carte inviate al Parlamento da quella o quella Procura, non si capisce che senso abbia lo spreco.
Un discorso a parte meriterebbe la natura della libertà che porta a convincimento un deputato o un senatore circa l’opportunità che un suo pari sia trattato come un qualunque cittadino o non abbia a godere di un trattamento di favore, ma è evidente che su questo punto non arriveremmo mai a cavare un ragno dal buco, salvo l’uso di strumenti inopportuni e, tutto sommato, inefficaci. Tuttavia sembra che la delicatezza di quest’ultima questione non sfugga al nostro beneamato Guardasigilli, che oggi dalla pagine di un quotidiano a larga tiratura butta lì un’ipotesi quasi a veder che effetto faccia: affidare alla Corte Costituzionale il compito di concedere o meno l’autorizzazione a procedere a carico di un Parlamentare. Come se avesse ben chiaro che razza di ragno stia nel buco.
Superfluo dire che l’idea sembri avere mero intento autopromozionale, tanto più se si considera che ad Andrea Orlando non sfugge il ragno, ma neanche il fatto che l’idea necessiterebbe di una riforma costituzionale per attribuire alla Corte Costituzionale un compito che la Carta non le attribuisce, e allora campa cavallo, tanto più che sul cavallo c’è la Boschi che di certo non sarebbe disposta rimetter mano alle sue riforme per infilarci la proposta del signor Guardasigilli. Che in questo modo ci guadagna il suo bel figurone di gran conoscitore di ragni e di cavalli.   

lunedì 3 agosto 2015

«Ricetta per l'Italia»

Da affaritaliani.it copio-incollo la «ricetta per l'Italia» di Marco Rizzo, leader del Partito Comunista (ilpartitocomunista.it):

«Essendo a conoscenza della differenza che ci sarebbe tra “avere” il potere ed “esser” al governo (la stessa differenza che passa dalla Rivoluzione alle Elezioni), spiego comunque quella che sarebbe la ricetta per l'Italia del Partito Comunista:
- Rottura unilaterale dei trattati economici e politici europei e di quelli militari con la Nato.
- Remissione del debito estero (con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori). 
- Nazionalizzazione di tutte le banche e le grandi imprese con affidamento di gestione e controllo ai lavoratori. 
- Tutti i settori strategici della Nazione (sanità, trasporti, formazione, grandi cantieri ecc…) assumono carattere statale ed annullano qualunque precedente privatizzazione.
- Viene istituito il salario minimo da lavoro garantito per tutti.
- Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari.
-  Sono equiparati i contratti di lavoro ed ogni diritto per i cittadini italiani ed i migranti. Tutti sono tenuti al rispetto totale della legalità socialista, pena severe sanzioni previste dal nuovo codice penale.
- La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre  - secondo criteri di uguaglianza.
- È ristabilita la leva militare obbligatoria per il nuovo Esercito Popolare.
- Lo Stato Socialista è laico. Sono permesse tutte le religioni (senza alcuna spesa per lo Stato), sono aboliti i Patti Lateranensi».

È da quel «ricetta» che inizierei l’analisi del testo: sta per «programma», è ovvio, ma il termine ha un evidente richiamo alla preparazione in ambito gastronomico. Dice niente? Bravi, anch’io pensato subito alla cuoca di Lenin. Senza dubbio, infatti, qui siamo di fronte ad un timballo nel quale son presenti molti ingredienti della cucina comunista (esproprio, nazionalizzazione, leva obbligatoria, ecc.). La cuoca che Lenin sosteneva avrebbe ben potuto amministrare la cosa pubblica, tuttavia, era il risultato di quella rivoluzione che invece lo stesso Marco Rizzo non ha difficoltà a concedere sia cosa ben diversa dal raccogliere consenso su un programma di governo. Ma poi, siamo onesti, si è mai vista una cuoca a capo del Cremlino? Quello di Lenin era un paradosso, via, e in ogni caso calava in tutt’altro contesto da quello in cui cala Marco Rizzo, pure lui bel paradosso, senza dubbio, ma qui senz’altro fine che darsi per sproposito.
In altri termini, invece di dirci come ha intenzione di prendere il potere, il leader del Partito Comunista ci espone la sua agenda dei primi 100 giorni, al pari di un qualsiasi spacciabubbole a capo di un partito borghese. Lungo la lista, peraltro, non si scorge traccia di quel caposaldo della dottrina marxista-leninista che commisura il fine al mezzo, e non dà l’uno senza l’altro.
Non è tutto. Per quasi ogni ingrediente non è indicata la dose. Non vengono indicati tempi e modi della preparazione. Ma quello che per certi versi arriva addirittura a dare una puntina di sconcerto – non più di una puntina, ovviamente – è il fatto che la nostra cuoca non sembra avere neanche i fondamentali della cucina comunista, o almeno faccia di tutto per dar mostra di ignorarli.
Si prenda, per esempio, il punto 8: «La proprietà individuale di una prima e di una seconda casa è garantita, sempre - secondo criteri di uguaglianza». Quali saranno mai, questi «criteri di uguaglianza», in grado equiparare i possessori di seconde case a quanti ne posseggono una sola? In relazione al punto 6 («Viene garantita una abitazione per ogni individuo o nucleo familiare con una grande ripresa dell'edilizia popolare e con espropri degli alloggi sfitti legati alle grandi proprietà immobiliari»), quali «criteri di uguaglianza» reggono l’assegnazione di una casa a chi non l’ha e il fatto che chi ne abbia due, di cui una necessariamente sfitta, possa conservarle entrambe? E qual è il parametro che farà la differenza tra «grandi proprietà immobiliari» e quelle medie o quelle piccole? (Analogo problema si pone al punto 2, con la «remissione del debito estero, con esclusiva salvaguardia per i piccoli risparmiatori», che è cosa semplice a dire e pressoché impossibile a fare: quanto «piccolo» dovrà essere il debito, e farà differenza se i «piccoli risparmiatori» hanno investito in titoli azionari?) E come dovrà intendersi il trasferimento delle proprietà confiscate dai vecchi ai nuovi proprietari? Voglio dire: vi sarà intermediazione di proprietà da parte dello Stato e, nel caso, con quali strumenti giuridici?
Già su questi due punti le domande sarebbero ancora tante, e tutte, come ritengo sia intuitivo, investono una questione centrale nell’ambito di una proposta che aspiri a definirsi comunista: quella della proprietà privata, che qui pare destinata a sussistere, ma in forma per lo meno ambigua, se non francamente contraddittoria. Per esempio, è lo «Stato Socialista» evocato al punto 10 che rimarrebbe proprietario delle case espropriate ed assegnate a chi non ne abbia una di proprietà? O è da intendersi che la casa divenga proprietà di chi va ad occuparla? In tal caso, il proprietario può disporne come eredità? Suppongo sia superfluo soffermarci sulle implicazioni che scaturiscono in un caso e in quello contrario. Quali «criteri di uguaglianza», poi, assistono la scelta di equiparare un «individuo» a un «nucleo familiare» nell’assegnare un’abitazione a entrambi? Tutto ciò è materia che può essere lasciata senza il necessario approfondimento? Sì, ma solo a voler lasciar nel vago ciò che nel vago non solleva obiezioni, in questo caso, da parte di chi sia proprietario di una o anche di due case, nello stesso tempo allettando chi non ne possegga alcuna. E il discorso non cambia per tutti gli altri punti, dove nel vago si lascia innanzitutto chi debba essere l’attore delle iniziative illustrate, se uno Stato che si sia dato un’altra Costituzione o conservi quella che ha, però dovendola violare in due o tre dozzine di punti.
In fin dei conti, direi che si tratti di un comunismo assai paraculo, che della presa del potere e dell’abolizione della proprietà privata ritiene di poter pure fare a meno, offrendosi come alternativa al sistema nella mera evocazione di una rivoluzione, che in realtà non sfiora affatto la struttura portante di quella che resterebbe una democrazia di stampo borghese. In buona sostanza, la «ricetta» sembra avere solo un richiamo alla tradizionale cucina comunista, mancandone dell’essenziale. Manca di quella dittatura del proletariato che è passaggio ineludibile nella transizione dallo Stato borghese a quello socialista, e manca, prim’ancora, del necessario per arrivarci.

venerdì 31 luglio 2015

#facciadiculo

Nella seduta dell’8 luglio, facente seguito a quelle del 23 giugno e del 7 luglio, nelle quali il caso era stato ampiamente analizzato e discusso sulla base degli atti della Procura di Trani, la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato approvava la proposta del suo Presidente, Dario Stefano, volta alla concessione dellautorizzazione allesecuzione dellordinanza applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del senatore Antonio Azzollini. Mi scuso per il burocratese, ma è solo per rimarcare il dato bruto che tre settimane dopo, ribaltando il parere della Giunta, il Senato gli salvava il culo.
Non ha importanza, ora. se fosse giusto o meno che il senatore se ne stesse in custodia cautelare, ma che il commento di Matteo Renzi al voto del Senato sia il seguente: «Chi ha letto le carte ha ritenuto in larga maggioranza di votare contro l’ipotesi dell’arresto. Lo considero un segno di maturità». Sarebbe da ritenere, in sostanza, che la Giunta non abbia letto le carte con la stessa attenzione che ci ha messo chi ha votato contro lautorizzazione a procedere, anche se è dimostrato che cè chi lha negata senza neppure averle sfiorate, le carte. E tuttavia chi appena lanno scorso aveva imposto al proprio gruppo a Montecitorio il voto favorevole allarresto di Francantonio Genovese, deputato del Pd, twittando subito dopo: «Il Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica sempre. Anche quando si tratta dei propri deputati», mettendoci per hashtag un fiero #avisoaperto, stavolta ha ritenuto più opportuno lasciare «libertà di coscienza» al gruppo parlamentare di Palazzo Madama.
Ogni considerazione sul perché Genovese andasse sacrificato e Azzollini risparmiato non può che essere segnata da sospetti che peraltro sono ampiamente suffragati da fatti inoppugnabili come l’enorme quantità di favori concessi da Azzollini ai suoi colleghi nei lunghi anni in cui ha presieduto la Commissione Bilancio del Senato e il suo essere esponente di spicco di un partito i cui numeri esigui sono comunque indispensabili a tener su il Governo. Ma si sa che, in mancanza di prove, i sospetti restano sospetti, e non hanno dignità di argomento.
Di notevole resta solo la dichiarazione di Renzi, che al voto del Senato cerca di dare un significato palesemente diverso da quello che ha, e con la risibile spiegazione che il fumus persecutionis, di cui al parere della Giunta non v’era traccia nella richiesta avanzata dalla Procura di Trani, è stato rintracciato da chi neanche ha sfogliato gli atti allegati alla richiesta di custodia cautelare per Azzollini. Roba che stavolta l’hashtag giusto è #facciadiculo

Merde sotto il sole di luglio

Sapre la stagione che lascia vuoti molti spazi nellinformazione, occasione imperdibile per chi è affamato di visibilità. A settembre, sa bene, tutto ridiventerà più difficile, occorre ne approfitti, e che si affretti, perché la concorrenza è spietata. Con un minimo di esperienza, che di solito non manca mai a questi coatti, la cosa si fa più facile, perché destate, sarà per lafa, i riflessi dellopinione pubblica diventano ancora più meccanici di quanto non lo siano di solito, e provocazioni che meriterebbero solo un velo di riprovazione sotto un macigno di indifferenza riescono ad ottenere lattenzione cercata. In realtà è così tutto lanno, d’estate accade solo che tutto diventi più evidente per l’acuirsi del fenomeno, e poco importa se si tratti di Pannella che litiga con Bonino o di Razzi che balla con Luxuria, perché in fondo non fa molta differenza: degni di nota sono solo i tratti disperati che assume la contesa per occupare gli spazi lasciati vuoti nell’informazione da quanto manchi del minimo per dirsi notizia, e il fatto che l’attenzione sia estremamente mobile e mostri la voracità del nugolo di mosche che sta sempre sulla merda più fresca. Il punto, tuttavia, è un altro: la merda è merda, non si discute, ma le mosche? Non sono loro, in fondo, ad essere il vero problema? Intendo dire: passi per chi, pur di dar segno che esiste, ha bisogno di cagare in piazza, ma un po’ di segatura sopra, e via, no? Chi è più malato: chi caga in piazza o chi d’attorno gli fa capannello? 

mercoledì 29 luglio 2015

[...]

Sospendendo ogni giudizio sulle capacità di cui fin qui Marino e Crocetta hanno dato prova come amministratori della cosa pubblica, penso abbia da porsi la questione di quanto sia legittimo che debbano dar conto del loro operato a Renzi, con ciò configurando il controllo eterodiretto di un Comune e di una Regione da parte del Governo, con quanto ne consegue sul piano istituzionale, e qui suppongo sia superfluo rimandare alla legislazione che assicura piena autonomia ai distinti livelli del potere esecutivo, in ossequio al dettato costituzionale.
Si dirà, so bene, che Renzi non è solo Presidente del Consiglio, ma anche Segretario nazionale del Pd, e cioè del partito che coi suoi eletti dà un sostegno essenziale alle Giunte presiedute da Marino e Crocetta, sicché ha pieno diritto di porre le proprie condizioni in cambio dell’appoggio ad esse: vero, ma questo non è che ennesima riprova di quanto questo cumulo di cariche, ancorché ammesso dallo statuto di un partito, anzi in certi casi addirittura espressamente contemplato come espediente per assicurare solidità di azione tra partito di maggioranza relativa e premier, sebbene non censurato da una specifica norma giuridica, possa generare seri squilibri nell’articolazione tra esecutivo centrale e poteri locali, fino a creare – com’è di fatto per Campidoglio e Palazzo d’Orleans – una situazione di tutela permanente dell’uno sugli altri.
Sia chiaro, non siamo dinanzi ad un’interferenza che configuri un illecito, ma penso non sfugga che questa situazione snaturi il principio di autonomia degli enti locali, di fatto riducendo a Prefetto un eletto dal popolo. Non sembri un’iperbole, ma quale differenza passa dal sistema feudale?

martedì 28 luglio 2015

sabato 25 luglio 2015

[...]

Non tardano a sortire, com’era da attendersi, le obiezioni alla sentenza della Cassazione che ha dichiarato illegittima lesenzione fiscale sugli immobili in cui si svolgono attività didattiche gestite da religiosi. Vale la pena di prenderle in considerazione, però dicendo subito che le scuole cattoliche continueranno a godere del trattamento di favore fin qui goduto, e che sarà non in forza degli argomenti – tutti assai debolucci, come vedremo – che sollevano queste obiezioni, ma di un cavillo che al momento non fa ancora capolino nelle dichiarazioni ufficiali, e non per pudore, figurarsi. La sentenza, infatti, sancisce un principio, e un principio sacrosanto, ma non può che trarlo dal caso specifico che era sottoposto ai giudici, e il caso verteva sul mancato versamento dell’Ici al Comune di Livorno da parte di due scuole cattoliche, quella del Santo Spirito e quella dell’Immacolata. Ripeto: mancato pagamento dell’Ici, perché la controversia maturò ai tempi in cui non era ancora in vigore l’Imu, che sempre imposta sugli immobili è, ma che dall’Ici formalmente differisce per diversi aspetti.
C’è bisogno che vada oltre? Si dirà che la sentenza riguardava una tassa che non è più dovuta, per la semplice ragione che è stata abolita, e che sul mancato pagamento di quella che l’ha sostituita c’è da ridiscutere, in parlamento e in tribunale. L’argomento che tornerà buono alla Cei, dunque, non è tra quelli che prenderemo in considerazione, ma quello che opporrà alla sentenza il fatto che essa riguardava l’Ici, non l’Imu. Anzi, visto che gli argomenti che avremmo dovuto prendere in considerazione servono solo di copertura a quello che sarà il reale nucleo della controffensiva clericale, con l’immancabile supporto dei filoclericali che siedono al governo e in parlamento, possiamo anche risparmiarci di illustrarli e contestarli, tanto sono i soliti, quelli che da decenni hanno di fatto cassato l’art. 33 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Perdere tempo a discutere di cazzate? Possiamo evitare. 

venerdì 24 luglio 2015

In un paese civile non sarebbe una notizia


Segnalibro


Si tratta del ritratto di Erasmo da Rotterdam contenuto nelledizione della Cosmographia universalis di Sebastian Müller stampata a Basilea da Henricum Petri nel 1553, però sfregiato dallInquisizione spagnola (Marcel Bataillon – Érasme et lEspagne, 1991). Notevole è il fatto che i tratti dinchiostro rivelino unevidente voglia di accecarlo e cucirne la bocca.  

[...]

Lo ricordate il tizio che lanno scorso se ne andava in motorino alle tre di notte per Rione Traiano seduto sul sellino tra un pregiudicato e un latitante? Ma sì, via, sono sicuro che ricordate la storiaccia. I tre non si fermarono allalt di una pattuglia dei carabinieri, ne seguì un inseguimento... Sì, parlo del tizio che infine ci lasciò la pelle per una pallottola scappata di canna ad uno dei carabinieri. Ora non ne ricordo il nome, daltronde neanche ha importanza, figurarsi, ma, tanto per intenderci, era quel tizio che su Facebook si atteggiava a guappo impavido e strafottente... Sì, insomma, parlo di quello.
Bene, ieri cera il processo. Per meglio dire, doveva esserci, ma familiari e amici del morto hanno fatto un gran casino, e la cosa è dovuta slittare, perché manganellarli a sangue e allontanarli di peso sarebbe stato indelicato. Casino, e qui l’inciso è rilevante, scoppiato quando il pm ha chiesto per limputato, il carabiniere dal polpastrello sudaticcio, una condanna a tre anni e sei mesi. Pure troppo, a mio modesto avviso, ma troppo poco per il pubblico lì convenuto con appositi striscioni, scandendo nellattesa slogan molto gutturali, da curva sud cui larbitro abbia scippato un penalty, che a ogni uomo di mondo viene d’istinto la voglia di sparargli in bocca.
Manco sarebbe valsa la pena di annotare su queste pagine laccaduto, se non fosse che le cronache riportano le ragioni rappresentate dal fratello del morto per dare un senso a tutto quello strepito di zamperi e vaiasse: «Possibile che io, per un tentato furto, abbia preso cinque anni e lui, che ha ucciso mio fratello, se la cavi con meno di tre anni e mezzo?» (Il Mattino, 24.7.2015 – pag. 23).
Commentarla, no, ché a spiegare il codice penale a un pregiudicato ci pensa eventualmente il suo avvocato. Annotarla, però, sì, perché è frase che da sola affresca un universo. E avrei voluto farlo già ieri, ma poi la mano se ne è andata per la tangente, e ho finito con l’intrattenermi sull’impossibilità di mettere d’accordo psichiatria e antropologia. 

Un vero guaio

Per qualche tempo, a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo scorso, si consumò uninteressante polemica tra antropologi e psichiatri, e parlo di nomi prestigiosi come Jean Poirier, Melville Herskovits, Rudolf Wittkower, da un lato, e George Devereux, Henri Collomb, Ralph Linton, dallaltro.
La questione potrebbe essere enunciata in questo modo: esiste unanormalità che una base organica ci dia la possibilità di definire assoluta, consentendoci così di definire anormale lintero contesto in cui questanormalità ha conquistato valore di norma?
Cerco di chiarire meglio, ma premetto che mi servirò di un esempio assai rozzo: posto che mangiare carne umana è la norma in una tribù di antropofagi, mentre fuori è manifestazione clinica di un gravissimo disturbo psichico, cè niente che ci consenta di definire gravemente disturbata tutta la tribù di antropofagi, in toto, o siamo costretti ad ammettere che in certi casi mangiare carne umana possa dirsi cosa normale?
Qui devo fermarmi un istante per chiarire due o tre punti relativi ad alcuni termini che ho scelto apposta per la loro ambiguità, peraltro costruendo un esempio che non fu mai prodotto nel corso di quella polemica, e non a caso, come vedrete.
In primo luogo, non sarà sfuggito, almeno al lettore mediamente smaliziato, che la questione è sostanzialmente pertinente al concetto di relativismo culturale, e che lesempio di cui mi sono servito sembrerebbe negargli attestato di legittimità.
In secondo luogo, non sarà sfuggita l’estrema ambivalenza di ciò che ho designato come «norma», che da un lato, infatti, sta a significare «legge», ma dallaltro rimanda a «consuetudine», come espressione di quel «valore che compare più frequentemente in un insieme preselezionato», perdendo così ogni implicazione dordine morale o psicologico, per acquisirne una che ha senso solo in ambito statistico.
Per finire, se non fosse superfluo, occorre segnalare che scegliere un esempio come quello relativo alla tribù di antropofagi rivela il chiaro intento di radicalizzare la questione mirando ad ottenere una risposta attesa come sola possibile. Insomma, con un esempio che dichiarava di voler illustrare i termini della questione, ne ho prodotto anche uno che palesa l’intenzione di indirizzarla ad una soluzione offerta come ovvia.
Cosa mi ha consentito di farlo? Per meglio dire: cosa poteva assicurarmi che l’uditorio avrebbe inclinato a una risposta del tipo «mangiare carne umana è da pazzi, ergo tutta la tribù è pazza»? Semplice: ho prodotto un esempio che, facendo leva su quanto ho ritenuto fosse opinione ragionevolmente unanime nell’uditorio che mi sono scelto, rendesse prevedibile anche l’unanimità su un assunto che in realtà è assai più problematico.
Per dirla in altro modo: sarei riuscito a convincervi che sia da pazzi rifiutarsi di mangiare carne di maiale senza invece sollevare obiezioni al consumo di carne di pollo, con ciò strappandovi consenso sull’assunto che ebrei e musulmani siano pazzi, tutti? Presumo che avrei incontrato maggiori difficoltà. Assai minori, invece, ne incontrerei ponendo la questione relativa alle mutilazioni genitali femminili, no?
E dunque – infine – cosa consente di definire «anormale» un’intera società che in stragrande maggioranza aderisce ad una specifica «consuetudine»? Mi pare ovvio: il fatto che quella «consuetudine» sia pacificamente identificabile come segno di un grave disturbo psichico. In altri termini, che alla psichiatria si riconosca lo statuto di scienza in grado di offrire prove certe relative all’esistenza di una base organica comune ad ogni individuo, e che l’antropologia non sollevi obiezioni, ma questa è cosa dalla quale siamo sempre stati assai lontani, perché l’antropologia sembra nata per relativizzare proprio laddove la psichiatria sembra nata per assolutizzare. Un vero guaio.      

giovedì 23 luglio 2015

[...]

«La scoperta di Kepler 452B – dice Mentana (La7, 23.7.2015) – influirà molto sul nostro futuro», però ci mette un «forse» che probabilmente gli sarà sembrato un doveroso omaggio alla serietà di informazione, metti caso poi su quel pianeta dovessimo trovarci un insopportabile fetore di formaggio andato a male che ci costringa a organizzarci un futuro altrove, e i telespettatori rimangano delusi.
È sul «forse» che vale la pena di soffermarci, perché chi parla della scoperta già pregustando leccitazione che proverà nel preparare le valige non merita neppure compassione. Dice niente che Kepler 452B sia a oltre 1400 anni luce? Si tratta di quindici milioni di miliardi di chilometri (15.000.000.000.000.000 km), distanza che un’ipotetica astronave in grado di viaggiare ad una velocità dieci volte maggiore di quella a cui viaggiano le astronavi fin qui realizzate coprirebbe in pressappoco 40 secoli. Trascurando il problema di un generatore di energia in grado di fornirne a sufficienza per un viaggio del genere, a bordo dovrebbero susseguirsi una sessantina di generazioni di astronauti, con l’augurio che scorrano l’una dopo l’altra senza intoppi riproduttivi.
Date queste premesse, e ammesso e non concesso che tutto vada liscio, intorno al 6000 d.C. dovremmo essere nei pressi di Kepler 452B, «pianeta gemello», «pianeta cugino», nomignoli affettuosi che già segnalano una certa confidenza. Bene, pare che il parente abbia una massa 60% maggiore della Terra, con quanto ne consegue per la forza di gravità. Su Kepler 452B, per capirci, l’intero corpo umano subirebbe in modo costante l’effetto che qui sulla Terra è il solo sacco scrotale a subire al «forse» di Mentana. Non dovrebbe bastare questo a scoraggiarci dal viaggio?

Orologeria, un cazzo!

Si salvava solo la magistratura in questo paese da sempre refrattario alla precisione, allesattezza, alla puntualità, ma ormai anche su quella non possiamo fare più alcun affidamento. Guarda lì il rinvio a giudizio di Verdini, per esempio. Ecchemmadonna, signori magistrati, aspettate che entri nel Pd, prima. 

Parafrasi

Sembra che a Palermo si replichi la resa dei conti che nel 1981 portò alla sconfitta della vecchia mafia di Stefano Bontate che lasciò libero il campo alla nuova mafia di Totò Riina, ma stavolta a fronteggiarsi sono la vecchia antimafia di Leoluca Orlando e la nuova antimafia di Giuseppe Lumia, con le dovute differenze, ovviamente, perché, invece del sangue, scorrono veleni: questo almeno è quanto emerge dagli sviluppi del caso Crocetta, per le insinuazioni nemmeno poi tanto velate che vengono diffuse a mezzo stampa da protagonisti e comprimari, in attesa che a fare un po di luce su quanto ancora è fittamente avvolto dal mistero spunti un pentito, a spiegarci se limmenso patrimonio morale accumulato negli anni da due o tre generazioni di martiri caduti nella lotta alla mafia sia ancora sotto il controllo dellantimafia dun tempo o se invece questa possa dirsi già perdente per i colpi che le ha inferto lantimafia emergente, che sembrerebbe destinata comunque a prendere il sopravvento perché superiore sul piano tattico e su quello strategico. Vedremo.

martedì 21 luglio 2015

[...]

In violazione dellart. 8 della Convenzione europea dei diritti delluomo, di cui fu fra i primi firmatari del testo base nel 1950, senza mai far mancare poi la propria approvazione a tutti i protocolli addizionali stilati dal 1952 al 2013, lItalia è condannata per la sua ostinazione a negare ogni forma di riconoscimento legale allunione di due persone dello stesso sesso ed esplicitamente sollecitata a mettersi in regola per evitare sanzioni più severe.
Sì, sode qualche mugugno, ma ha fatto più rumore il divieto di raccogliere e commerciare vongole dal diametro inferiore ai 25 millimetri, un altro degli impegni sottoscritti dallItalia in sede europea, nel 2006. Qui da noi la vongola arriva ormai solo a 22 millimetri – si protestò – e impedirne la raccolta vuol dire privare le nostre tavole di un piatto che è più italiano degli spaghetti alla carbonara, e non è giusto, e a tutto c’è un limite, e questo è troppo, vorrete mica sradicarci dalle nostre tradizioni secolari? Come se fra quelle non vi fosse pure l’omofobia. Niente, la vongola non mancò di far gridare a qualcuno che tanto valeva uscire dalla Ue, qui l’ipotesi nemmeno sfiora chi mastica amaro per la condanna.
E sarà che poi «non è una sentenza della Ue [visto che] alla Corte europea dei diritti dell’uomo aderiscono anche Russia, Moldavia, Turchia ecc.», che però non si capisce perché screditerebbero la Corte, visto che in quanto a riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso sono nella stessa situazione dell’Italia; e «non è una sentenza che impone lapprovazione del ddl Cirinnà», che infatti centra poco o niente, visto che la sentenza si limita a segnalare, e a condannare, linadempienza dellItalia a una convenzione liberamente sottoscritta, vedesse lei come rientrare nella legalità, Cirinnà o non Cirinnà; e poi «è solo una sentenza di primo grado, come quella sul crocifisso nei luoghi pubblici in Italia che fu ribaltata in appello, dunque il governo italiano proponga subito appello per non pagare le sanzioni e rivendicare il diritto degli italiani a decidere in Italia sulla famiglia», e come puoi decidere altrimenti che in ossequio a una sentenza, che se riconfermata, ti obbliga a pagare e adeguarti, sennò a stracciare gli impegni che hai firmato?
Ecco, questa è la domanda che verrebbe voglia di porre a Mario Adinolfi (i virgolettati, infatti, sono suoi): se la sentenza verrà riconfermata, per limportanza che riveste la questione, sei disposto a chiedere al governo italiano di stracciare gli impegni assunti da tutti i paesi della Ue e perfino dalla Russia, dalla Moldavia e dalla Turchia? E il governo pensi che ti darà retta?
Adino, te lo dico con l’affetto e la delicatezza che userei con un fratello scemo, se l’avessi: sotto i 25 millimetri non possono circolare, è vero, ma grosse come le tue non so’ più vongole, so cozze.

Io sto con Crocetta


Quello sul gomito destro di Crocetta sembra un lipoma. Oddio, potrebbe essere anche una cisti sebacea, ma la questione non cambia poi di molto: se hai un amico che è chirurgo plastico, non ne approfitti? E già che ti ci trovi, con quella ciccia che minaccia di sparare qualche bottone della tua camicia in faccia a chi ti sta di fronte, che se per caso è pure figlia di martire si grida allattentato, non ne approfitti per una liposuzioncina? Dite quel che volete, secondo me i rapporti con Tutino erano assai laschi, buongiorno-buonasera-riverisca-minchiachescirocco. Neanche vale la pena, poi, di considerare le insinuazioni che vorrebbero Crocetta al centro di chissà quale giro di interessi illeciti. Ma, dico, avete visto la sua casa? In un angolo dei mobiletti in truciolato, a destra un triste divanetto con sopra un patchwork che sa di studentessa fuori sede e mal depilata, e poi la mensoletta col veliero in bottiglia, la tazza da negozietto di souvenir con tre candele colorate infilate dentro, il posacenere da artigianato di area depressa... E quell’orribile cosaccio in finto noce sul quale sta sparapanzato? Dei poggiatesta da sala d’attesa di un ambulatorio d’altre ere, rivestimento in alcantara, bordini in microfibra probabilmente apposti con lo sparaspilli, motivo floreale da copriletto primi anni Settanta, insomma, roba che con sessanta euro il rigattiere ti dà pure il poggiapiedi in abbinato. E questo sarebbe il Governatore che amministra il magnamagna della Regione siciliana? Ma non fatemi ridere, questo è tutt’al più un Totò Merumeni invecchiato male che sopravvive tra i ninnoli lasciatigli dalla prozia canuta. Poco più in là – probabilmente la foto l’ha tagliata via – ci sarà pure Makakita, semmai impagliata. Guardatelo, questo è un uomo incapace della seppur minima cattiva azione, poi, sì, vabbè, sarà incapace pure d’ogni altra cosa, ma come si può immaginarlo al centro del malaffare che brulica attorno e dentro Palazzo d’Orleans?

E dunque, miserabile cazzaro

Le tasse si possono abbassare solo tagliando la spesa. Dovendola tagliare, converrebbe cominciare da quello che ci costa un’amministrazione pubblica fatta apposta per ingrassare parassiti e ladri di ogni taglia, clientele radicate nella carne viva del paese, e non puoi farlo, peraltro ti ci vorrebbero dieci anni, e tu annunci di voler abbassare le tasse fin dal prossimo anno, senza agganciare il taglio a niente che articoli una bonifica del genere. Poi, dovresti abolire privilegi tanto consolidati da esser ritenuti diritti intangibili, peraltro in gran parte assicurati per legge. Non dico la Chiesa, ma prova a toccare i tassisti. Ma neanche questo basterebbe per abolire una tassa come quella sulla casa, sicché sarebbe inevitabile tagliare i servizi, e anche quelli essenziali. La tassa sulla casa, poi, si paga in tutta Europa, e abolirla, anche solo sulla prima casa, causerebbe un buco che sarebbe possibile tappare solo sforando le clausole di salvaguardia sottoscritte in sede comunitaria, e dunque creando l’incidente, robe che si è visto in che modo si risolvano a Bruxelles: ti arriva la letterina e vai in castigo.
E dunque, miserabile cazzaro, dici che vuoi abbassar le tasse? Benissimo, ma come? Facci vedere come hai fatto i conticini di questa simpatica operazioncina. Cosa tagli? Come dici, non tagli? Ennesima genialata messa a debito o a partita di giro?

lunedì 20 luglio 2015

Personaggi fittizi

«Pronto»

«È ***?»

«Sì, con chi parlo?»

«Provi a indovinare. La mia voce non laiuta?»

«Inconfondibile, ma non ci vuole molto ad imitarla...»

«Sono io, può esserne certo...»

«Non ho intenzione di prestarmi a burle, ora riattacco. Le do cinque minuti per twittare una qualsiasi cazzata delle sue in cui ci sia... Ecco, ci metta un “che” con due acca, e mi richiami solo dopo averlo fatto...»

«Che paranoia...»

«Guardi che siamo entrambi due personaggi alquanto fittizi creati da uno che neanche sa dove andrà a parare questa conversazione telefonica: a me ha fatto dire quello che ho detto, a lei tocca fare quello che le ho chiesto, sennò la fiction finisce qui. Sembra paranoia, in realtà è un prologo che deve dare al lettore unidea di chi sia io. Lei è persona nota e non ne ha bisogno»

«Ma non mi sono presentato»

«E lei pensa che il lettore sia cretino? Via, si è capito...»

«Ok, posto il tweet e la richiamo»

«Due acca...»

«Ho capito»

«A dopo»

«A dopo»

...

«Pronto»

«Sono io. Ha letto?»

«Sì. Dica pure. Ma cominci col dirmi chi le ha dato il numero del mio cellulare...»

«Ho chiesto in giro...»

«Sì, ma poi chi glielo ha dato?»

«***»

«Perché mi ha chiamato?»

«Ho letto quello che ha scritto in questi giorni. Volevo sapere se è davvero convinto che...»

«Ammesso che non ne fossi convinto quando lo scrivevo, lo sarei adesso, e per il fatto stesso che si scomoda a telefonarmi per chiedermelo»

«Ma non ha detto che siamo entrambi due personaggi fittizi che...?»

«Certo, ma non è detto che uno dei due non sia più fittizio dellaltro»

«E quello sarei io?»

«È lei che ha una dimensione pubblica, che è fittizia di suo, io sono un comune cittadino... Ma vada al sodo, mi dica cosa vuole e poi sparisca»

«Quando dice che... No, aspetti... Ecco qui, lei scrive: “... la parte pretende di essere il tutto, di poterlo interamente rappresentare in modo organicistico, con la coincidenza di leader in partito, di partito in nazione e di nazione in stato...”»

«Ebbene?»

«Ma è una cazzata»

«Non ho mica scritto che avvenga scientemente. Non pensi ad un soggetto agente, pensi ad un soggetto agito...»

«Non saprei cosa voglio?»

«Non ho detto questo. Dico che è cosa diversa da quello che crede...»

«Forse ho sbagliato a chiamarla»

«Lo penso anchio, sa? Ma le ripeto: siamo personaggi fittizi, consideri che potrebbe anche non essere stata una scelta... In ogni caso adesso chiudo, non penso ci sia altro da dire»

«E questa non è una scelta?»

«Ma non vede che anche ogni mia frase è tra virgolette?»

«Non la seguo»

«Non mi segua»

sabato 18 luglio 2015

«Questo è tutto»

Giusto per non lasciare inevasa la questione, sulla «Merkel che fa piangere una bambina» («bambina» a 14 anni? mah!) la penso esattamente come il mio filosofo di riferimento (Disabitudine alla realtà – Formamentis, 17.7.2015), che anche stavolta, come al solito, brilla per chiarezza e concisione.

[...]

Se ho capito bene, pur di non essere costretto a dimettersi, Tsipras si prepara a stringere a una sorta di Patto del Nazareno con forze politiche a cui Syriza si dichiarava alternativa, e irriducibilmente alternativa, nel momento di chiedere il voto alle elezioni di appena sei mesi fa. In sostanza, si prepara ad ingannare i greci una seconda volta, perché è evidente che così viene tradito anche il mandato chiesto e ottenuto alle elezioni politiche del 25 gennaio, come già è stato per il no chiesto e ottenuto al referendum del 5 luglio. Scelte obbligate, si dirà, e convengo, ma in base a quale obbligo se non quello di acquisire e mantenere il potere contro chi te lo ha affidato, e quindi in spregio al principio democratico che all’eletto affida la rappresentanza del volere degli elettori?
Non venite a dirmi che il principio democratico è per l’appunto un principio, lo so bene. So bene che in democrazia il consenso si fonda sulla capacità degli elettori di sopportare, fin tanto ci riescano, la delusione di veder mancate le promesse dei candidati. Qui, tuttavia, non siamo al non aver onorato entro la fine del mandato gli impegni presi al momento di chiedere il voto: siamo al rimpasto di una maggioranza dopo solo sei mesi, siamo alla firma di un accordo che tradisce il risultato di un referendum tenuto appena una settimana prima. In entrambi i casi, siamo dinanzi all’esercizio di un potere che si fa autonomo dalla fonte che dovrebbe legittimarlo. Sembrerà esagerato parlare di demagogia e di autocrazia, ma in fondo l’etimo di questi due termini non descrivono quel che con Tsipras accade in Grecia?
Eppure – penso agli editoriali di Norma Rangieri di questi ultimi giorni – Tsipras continua a trovare simpatizzanti in quella sinistra che dà il meglio di sé quando si straccia le vesti per lo scandalo di un Pd che cerca e trova accordo con chi aveva solennemente giurato mai avrebbe stretto un accordo, e che non esita a tappare i buchi aperti in Parlamento dalle defezioni dell’opposizione interna col soccorso azzurro della pattuglia di Verdini. Ripeto: parlo de il manifesto, non di chi coltiva la subcultura del «basta vincere, non ha importanza come».
Il sospetto è che tra i maneggioni del Pd che in Renzi vedono la mutazione efficace e chi sattarda a vantare dessere ancora comunista ci sia in comune il tratto di considerare irrilevante il mezzo rispetto al fine. Che poi è il tratto specularmente opposto a quello che si rimprovera alla gestione cosiddetta tecnocratica delle sorti umane, che nella esaltazione del mezzo correrebbe – si dice – il serio rischio di smarrire fine. Volevo dire che nel secondo caso cè solo il serio rischio di sacrificare il bene comune a interessi particolari, nel primo cè la negazione di fatto della democrazia. Insomma, a Tsipras e a Renzi io preferisco i freddi burocrati di Bruxelles. Al feudalesimo preferisco la monarchia illuminata. 

[...]

I. Andando per la sessantina, mi costa sempre più fatica tollerare la follia del mondo. Uso il gerundio per attenuare il nesso di causalità, non voglio dar da intendere che alla relazione io assegni la cogenza di una legge di natura: parlo solo per me, né mi sfugge che col passar degli anni, al contrario, di solito si diventi più tolleranti verso il mondo. Per me è accaduto tutto il contrario, ma «fatica», «tolleranza», «follia», «mondo» sono termini estremamente ambigui e può darsi che nel circostanziarne il senso io riesca a spiegarmi meglio, dunque a chiarire lo stato d’animo che informa l’affermazione con la quale ho aperto questa chiacchierata.
Comincerei dal «mondo», che intendo come «totalità dei fatti, non delle cose» (Tractatus logico-philosophicus, 1.1), con le quali, d’altronde, ho sempre avuto un buon rapporto. È che «loggetto è semplice» (ibidem, 2.02) e «la [sua] sostanza […] sussiste indipendentemente da ciò che accade» (ibidem, 2.024): non così per il fatto, «la [cui] struttura […] consta delle strutture degli stati di cose» (ibidem, 2.034), e del quale, anche se non volessimo, non possiamo farci che un’immagine, la quale ne «presenta la situazione nello spazio logico» (ibidem, 2.11). A differenza della cosa, insomma, il fatto deve necessariamente darsi situazione in uno spazio logico, altrimenti non può che segnalare l’illogicità del mondo per quella porzione di cui ne è parte. Bene, direi che, andando per la sessantina, vedo crescere a dismisura la quantità di fatti la cui rappresentazione è irrealizzabile in uno spazio entro il quale vigano le norme della logica, che poi sono le stesse che informano le leggi della retta argomentazione. In altri termini, il mondo le rifiuta, non sa che farsene, anzi sembra compiacersi dell’infrangerle, e così rovina, ma sembra compiacersi anche di questo. 
Semplice, allora, spiegare cosa intenda per «follia del mondo»: se «limmagine logica dei fatti è il pensiero» (ibidem, 3) e se «il pensiero è la proposizione munita di senso» (ibidem, 4), sempre più spesso mi capita di non riuscire più a cogliere un senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti. Non in tutte, in realtà, occorre che sia onesto, ma nella gran parte direi proprio di sì. Il mondo, insomma, non ragiona più. Va avanti così da un bel pezzo, quello che segna il punto di rottura è la presa d’atto che ogni tentativo di cogliere un senso nelle proposizioni che esprimono la logica dei fatti, e cioè di poter pensare qualcosa di sensato riguardo al mondo, prima che inutile, è impossibile. Commentare i fatti, insomma, mi deprime, mi mortifica, mi avvilisce. Quale miglior rimedio del trascurarli?
Prevengo lobiezione di chi a questo punto voglia contestarmi chio non riesca a cogliere la logica dei fatti perché non in possesso degli strumenti adeguati: quali sarebbero – rispondo – questi strumenti adeguati, se non quelli che ho sempre utilizzato in passato, riuscendo con essi a trovare un senso nelle proposizioni che esprimevano la logica dei fatti in passato? Se non sono più adeguati, devessere cambiato qualcosa nella natura dei fatti, la cui immagine logica – e qui mi pare che linferenza sia ampiamente motivata – rifugga dal darsi proposizioni munite di senso. Nulla è cambiato in me, è il «mondo» ad essere cambiato. Se devo rimproverarmi qualcosa, insomma, è il non essere stato in grado, da un certo punto in poi, di costruire un artificio retorico che surrogasse uno spazio logico entro il quale i fatti potessero trovare un surrogato di senso. Aggiungo che da un certo punto in poi ho rinunciato anche a provarci, e forse qui sarà più chiaro il significato che intendo dare a «tolleranza» e a «fatica»: soffro un fastidio, un tremendo fastidio, al quale vado mettendo riparo col rifiuto di dare ogni sorta di attenzione alla «follia del mondo». E devo dire che funziona. 
Non mi si fraintenda: se non sono in grado di formulare una prognosi per questa «follia del mondo», la sua diagnosi è stata accurata e in buona misura me ne è chiara letiopatogenesi. In modo frammentario, certo, e senza metterci quel tanto di pedanteria che forse sarebbe stata necessaria, in dodici anni di scrittura pubblica mi pare di aver illustrato a sufficienza le cause e i modi che hanno portato i fatti a diventare irrappresentabili in quello «spazio logico» nel quale, finché hanno potuto, si sono dati immagine in forma di «proposizione munita di senso». Tornare alla scrittura privata segna la decisione di archiviare il caso clinico della «follia del mondo», per dedicarmi a questioni di nessun interesse pubblico, chessò – dico per fare qualche esempio sfogliando il mio taccuino delle ultime settimane – i busti di Messerschmidt, la claritas e la defectio in Gioacchino da Fiore, quanto di Händel ci sia in Sergent Pepper, temi inopportuni sulle pagine di un blog nato come diario civile. Che dunque è il caso venga chiuso.
Ho meditato sull’opportunità di oscurarne le pagine, ma mi ha trattenuto il constatare che, a più di un mese dalla sospensione dell’aggiornamento, continuano ad esser lette in una media di 600/die, mentre è aumentato notevolmente il numero di lettori per quelle scritte tra il 2004 e il 2010 (malvino.ilcannocchiale.it): lascio tutto dov’è, chissà non possa tornar utile a comprendere meglio una decisione che in tanti mi hanno scritto di trovare inspiegabile, e che qui è assai probabile non sia riuscito a spiegar meglio. Ci avrò fatto la figura del disadattato, dell’irriducibile passatista che si ostina a dare alle parole un peso che ormai non hanno più da tempo. E in parte è vero, perché – ripeto – non sono io ad essere impazzito, ma il mondo.   


II. Non sono mai riuscito a capire che cazzo di linguaggio sarebbe quello che dà struttura allinconscio, ma da qualche tempo non me ne faccio più un problema, perché ho il sospetto che questa sia una delle tante frasi uscite di bocca a Lacan senza star troppo a pensarci abbastanza prima, per poi farlo fin troppo dopo. Il sospetto è che fosse vittima anche lui del difettaccio che deve essere stato relativamente comune ai tempi in cui residuava ancora qualcosa della «mente bicamerale» (cfr. Julian Jaynes) e si preferiva non correggere lo sproposito scappato di penna sul papiro, che daltronde era materiale assai costoso, e tollerava male le cancellature. Non so più dove possa essersi ficcato, ma una trentina danni fa raccolsi in uno studiolo due o tre dozzine di passi tratti per lo più da testi greci scritti tra il I e il III secolo, sui quali si sono scervellate invano intere generazioni, provando a ipotizzare per ciascuno la versione piana, perfettamente comprensibile, di colpo diventata impenetrabile per la decisione dellautore di non procedere a correggere un refuso, spesso banale, per rivolversi a dargli un senso a posteriori, spesso con esiti infelici per la coerenza interna al testo, ma, via, i posteri si arrangino, tanto l’oscurità implica profondità, e l’inconscio non sbaglia mai: scendano, i posteri, e si perdano, chissà che non finiscano per trovare l’introvabile. Ecco, invece di «inconscio» sarebbe stato meglio dire «spirito», ma, insomma, ci siamo capiti...
Divago, maledizione, divago sempre. Partivo con l’intenzione di dire che il linguaggio – e so che c’è da storcere il muso – non so concepirlo altrimenti che in forma di scrittura. Anche quando è orale? Anche. Ma la scrittura non viene dopo? Certo, ma nella forma orale il linguaggio regge solo se è adeguatamente traducibile in scrittura, sennò è ciancia, rumore, eventualmente musica, ma non ha niente a che vedere con la costruzione di un senso. Solo nella frase scritta, o che può esser scritta senza far perdere nulla di quanto esprime nella sua forma orale, se qualcosa esprime, il pensiero può darsi – almeno tentare – dignità di linguaggio. Ma forse sbaglio a dire «dignità»: meglio «struttura». E qui chiudo il cerchio aperto con l’incipit: il pensiero non può fare a meno di una struttura, il linguaggio gliene dà una che nella forma scritta (per meglio dire: in qualsivoglia forma pianamente traducibile in un testo che si dia le norme della scrittura) trova la sola possibilità di offrirsi a una verifica. Intendiamoci: non che la frase scritta sia immune di per sé da ciò che rende così spesso fatua, se non ladra o assassina, la frase orale, ma è che, a differenza di quest’ultima, dà piena disponibilità di saggiare la struttura attraverso la quale il pensiero può esprimersi...
Divago ancora, maledizione, per giunta dilungandomi più del dovuto, e in fondo solo per dire che ho sempre affidato alla scrittura il compito di dare al flusso dei miei pensieri una forma intellegibile, fosse solo a me stesso. In altri termini, è sempre e solo scrivendolo che mi sono chiarito cosa pensassi, verificando se reggesse come scrittura nel rispetto delle regole che reggono la retta argomentazione, che sta alla logica come la geometria sta all’aritmetica. È per questo che probabilmente non smetterò mai di scrivere, come d’altronde faccio da sempre, da ben prima che la mia scrittura diventasse pubblica. Quando rileggo i quaderni che ho riempito dal 1972 al momento in cui ho aperto questo blog, noto qualche diversità di accenti, una maggiore attenzione alla vita personale, una libertà che era innanzitutto impudicizia, una totale mancanza di autocensura, certe arditezze in spregio anche a quel minimo di buone maniere che è indispensabile quando si interloquisce con altri da sé, elementi che in apparenza rendono quella scrittura totalmente diversa da quella pubblica, ma che in realtà differiscono solo in un punto: la mia scrittura pubblica eccede in premesse, che quella privata – devo supporre – ha sempre dato per superflue. Un’ansia di spiegarmi bene che dev’esser concava alla convessità della paura di essere frainteso: tutta qui, la differenza, tra i miei taccuini e il blog. È evidente che, a dispetto della fama di temerario, io abbia un genuino timor panico dell’agorà telematica, d’altronde ho sempre ritenuto fosse cretino definirla realtà virtuale: si tratta di un duplicato della realtà che in parte le si sovrappone, ormai senza più alcuna possibilità di separarne i piani, perché in più punti sono tanto embricati che tutto il bene e tutto il male che si può pensare del web coincide con tutto il bene e tutto il male che si può pensare dell’esser-ci (quello stare dentro la vita che non è necessariamente vivere).