domenica 22 novembre 2020

Un souvenir

 


L’intervista che la scorsa settimana il fumettista, illustratore e regista Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, ha concesso a Esquire offre innumerevoli spunti di riflessione, ma qui ne svilupperò solo due o tre, cominciando col prendere in considerazione il brano relativo alle ragioni che hanno portato Gipi alla decisione di abbandonare i social network, che pare stia diventando un classico nel repertorio di molte nostre primedonne. Come un tempo, bevendo del cognac accanto al caminetto mentre il levriero sonnecchiava, ci appassionavamo su chi fosse stata miglior interprete dell’«ebben ne andrò lontana» che sta ne La Wally del Catalani, se la Callas o la Tebaldi, è il caso che domani, nella mensa dell’ospizio, sotto l’occhio vigile di una suora senegalese, discuteremo davanti a un brodino, con la stessa passione, se sia stato più toccante l’abbandono di Twitter da parte di Gipi o da parte di Mentana.

Perché ha abbandonato i social network, Gipi? Dall’intervista emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto, che poi è il punto in cui essi riproducono pressoché in tutto le dinamiche relazionali di quella che definisce «tribalità», e che dice essere «il problema della nostra società». E in cosa consiste, questa «tribalità»? «Nessuno riesce a fare un ragionamento autonomo. E non nel senso di pensare con la propria testa, del credere in se stesso o altre puttanate simili. Nel senso di sottoporre ad un esame spietato ogni proprio pensiero. Ogni convinzione. Per esempio: queste idee, questi principi, sono davvero miei? Li ho capiti? O mi sono stati solo trasmessi da qualcun altro? Dalla mia famiglia, dal mio giro, dalla mia cerchia di conoscenze?». Per esempio? «Se quello che ha parlato appartiene alla mia tribù, al mio giro, al mio gruppo, sono d’accordo. Se non fa parte della mia tribù, allora lo disprezzo. Indipendentemente dall’argomento o dal pensiero espresso. […] A me viene da pormi una domanda: è davvero possibile che nessuno, in nessuna delle due parti, dica mai qualcosa di logico agli occhi e alle orecchie della parte avversa? È possibile che non accada mai che qualcuno a destra riconosca la possibile ragionevolezza di una frase detta dalla sinistra e viceversa?».

La mano è senza dubbio assai naïf, ma la psicopatologia così ritratta da Gipi è la stessa che ritroviamo nei lavori di Serge Moscovici (Psicologia delle minoranze attive – Boringhieri, 1981), di John Levine e Mark Pavelchak (Psicologia sociale – Armando, 1986), di Geneviève Paicheler (Psicologia delle influenze sociali – Liguori, 1987), di Robert Cialdini (Le armi della propaganda – Giunti, 1995), di Angelica Mucchi Faina (L’influenza sociale – Il Mulino, 1996) e di Otto Kernberg (Le relazioni nei gruppi – Raffaello Cortina, 1998), tanto per citare gli autori che ho sullo scaffale più vicino. Psicopatologia sostanzialmente identica a se stessa da sempre, ma che, rispetto ai tempi in cui ancora il web non c’era, oggi sembra non avere più alcun bisogno di camuffarsi da militanza politica: faziosità, dogmatismo, doppia morale, spirito gregario si sono liberati dalle greppie di questa o quella ideologia, per diventare meri distintivi di appartenenza alla «tribù», che di ideologico d’altronde non ha più niente, ridotta com’è ad aggregato mobile, non di rado estemporaneo, di giri grossi e piccini, bolle dentro bolle, consorterie più o meno verniciate di prestigio, robette e robone tenute insieme da impasti più meno labili di simpatie e interessi, da politiche dell’amicizia che hanno lo scadenzario dei tour promozionali dell’ultima novità editoriale.

Dall’intervista – dicevamo – emerge abbastanza chiaramente che i social network c’entrano solo fino a un certo punto. La decisione di Gipi, infatti, sembra non esaurirsi nella cancellazione di qualche account, ma nel chiamarsi fuori dalla logica della «tribalità», che il web si limita solo ad esasperare. Sembra che Gipi voglia farci credere che i social network l’abbiano fatto cadere in quella logica, che però non è mai stata la sua. E «ho molta vergogna per quello che ho fatto», dice, ma non sta parlando solo di questo o quel tweet, perché aggiunge «non potrei più andare in tv a fare battute su Salvini». Quando, dunque, dice «facevo parte di un meccanismo tribale», aggiungendo un «non ero abbastanza consapevole» quasi a volersene scusare, a parlare non è semplicemente @gipi, ma proprio Gian Alfonso Pacinotti, una delle punte di lancia di Propaganda live per esempio, che non è solo la trasmissione che piace alla gente che piace, ma anche il tempio in cui ogni venerdì sera una ben nota «tribù» celebra i suoi fasti. Bene, prendiamo atto, ma in sostanza cosa è accaduto? «Probabilmente mi sono sempre considerato di sinistra per caso – ci dice Gipi – accettando una serie di dogmi che adesso rifiuto». Risposta elusiva, caro Gipi, riformuliamo in altro modo la domanda: cosa te ne ha fatto rendere conto?

Domanda destinata a cadere nel vuoto, purtroppo non eravamo noi a intervistare Gipi. C’è da supporre, tuttavia, che a fargli rendere conto di dove si fosse andato a infilare sia stata la vicenda di cui è stato coprotagonista lo scorso gennaio. Ne ha parlato, non c’è bisogno d’altro che ridargli voce: «È successo questo: il mio amico Massimiliano Parente ha scritto un pezzo per il Giornale che ha fatto incazzare un sacco di gente. Nel pezzo, a un certo punto, dice che gioca a Call of Duty con me. Le persone che si sono incazzate con Massimiliano mi chiedono di “prendere le distanze”, di “dissociarmi”. Altri sono “sbigottiti” dal fatto che io possa essere amico di una tanto orribile creatura. A tutte le persone che hanno espresso il loro sbigottimento, voglio dirvelo: preferirò sempre le più storte, ignobili, irresponsabili, maldestre, infelici creature di questo mondo a questa nuova generazione di preti che mi ritrovo intorno e alla quale fate a gara per appartenere. Non prendo le distanze da un amico. Piuttosto lo meno in privato. Ma non sto dalla vostra parte. Non ci sono mai stato. Non ci starò mai» (Corriere della Sera, 9.1.2020). È stato questo a motivare la sua decisione di uscire dal «meccanismo tribale» o almeno ad innescare la riflessione che l’ha maturata? Non lo sapremo mai. Non ci resta che tornare all’intervista nel tentativo di cogliere qualche indizio che possa dar più forza alla nostra supposizione.

Ahinoi, ne troviamo uno che la indebolisce nel punto in cui leggiamo: «Tendevo a discutere con chiunque, anche con chi non lo meritava». Ora, io ho pieno diritto di dire a chicchessia che non ho voglia di discutere con lui. Non ha importanza quali siano le ragioni. Peraltro non sono neppure tenuto a dargliene conto. Non voglio discutere con lui e non ci discuto, punto. Il motivo? Basta, non mi va di dare spiegazioni. Comunque mi si giudichi, nessuno può costringermi a discutere con lui, né a dire perché non voglio. Altra cosa, però, è decidere di non discutere con lui, adducendo a ragione il fatto che «non mi merita», perché il «merito» è quanto «costituisce giusto motivo di stima, lode, riconoscimento, ecc.» (De Mauro): con la ragione addotta, io mi faccio metro di ciò che è «giusto», e cioè di ciò che è legittimo e fondato ben al di sopra di ogni valutazione tutta personale. Nel dire, insomma, a chicchessia che «non merita» ch’io discuta con lui, io avanzo una pretesa che esorbita dal mio diritto: pretendo che a una valutazione tutta personale vengano conferiti i crismi dell’inconfutabilità e dell’incontrovertibilità di ciò che tutti – lui compreso – sono tenuti a ritenere «giusto». È evidente che l’eventuale discussione non avrebbe avuto alcun senso, se non quella di farmi stabilire se il mio interlocutore fosse o no degno di «stima, lode, riconoscimento, ecc.», e cioè del «merito» che gli avrei riconosciuto continuando a discutere con lui. Sia chiaro, avrei potuto ricoscergli quel «merito» anche se nella discussione avessimo avuto posizioni diverse, ma è ovvio che, spettando a me il riconoscerglielo, gliel’avrei potuto negare in ogni momento. Nemmeno sarebbe stata una discussione, via, tutt’al più un esame a cui lui si sarebbe sottoposto per sapere con quanta benevolenza io fossi disposto a giudicarlo. Possiamo tranquillamente sorvolare su cosa ciò dica di me sul piano psicoanalitico, basti quanto è stato scritto da più autori sulla frase «tu non mi meriti» con la quale il narcisista mette fine a una relazione amorosa: uno per tutti, il già citato Otto Kernberg, però stavolta in Relazioni d’amore (Raffaello Cortina, 1995). Sul piano retorico, però, non si può sorvolare: io pretendo che il foro esterno sia tenuto a far proprie le ragioni del mio foro interno. Una pretesa che sta a corollario di quella di superiorità morale che è uno dei segni distintivi della «tribù» da cui Gipi è scappato. Diremmo che ne è scappato portandosene via un souvenir.

domenica 15 novembre 2020

Rap


Lo scorso giovedì – giovedì 12 novembre – La7 ha rinunciato per la prima volta a drammatizzare qualsiasi cosa abbia a che fare anche marginalmente con la pandemia da Covid-19 perché il quadro dinsieme sia massimamente spettacolarizzato. Voglio dire che un infarto di Crisanti in diretta avrebbe fatto una gran bella audience, e invece, niente, quando Formigli gli ha detto: «Senta, il governatore della Campania, De Luca, la vuole querelare, lo sa?», Crisanti si è limitato a cagarsi addosso, e questo, di drammatico, ha dato poco o niente. Diciamo che nel terrificante insieme di un Inferno assai simile a quello di Bosch, dove un orrido uccellaccio mangia tutti i sieropositivi e, dopo un veloce transito per unazzurrina bolla di terapia intensiva, plof, plof, plof, li defeca nel pozzo nero spalancato sotto il suo trono, Crisanti ci ha rimediato la figura del dannato col flauto ficcato in culo. In realtà, per quel nasale che ne caratterizza il timbro, in culo a Crisanti starebbe meglio un oboe, ma qui non è il caso di star troppo a sottilizzare. Ora, sia chiaro, un infarto in diretta sarebbe stato il massimo, ma pretenderlo da Crisanti neppure sarebbe stato giusto. In segno di gratitudine per tutta la visibilità che la La7 gli ha dato, però, Crisanti poteva almeno prodursi in uno svenimento. Niente, manco quello: «Ah, beh... uhm... uhm... ma perché... mi sorprende questo... comunque... vabbè... che lo facesse... non penso di aver detto... non penso...». Non parliamo di Formigli, poi, che, per chi adesso non lo avesse presente, è quello che «la realtà è la nostra passione». La realtà era che, di querela, De Luca aveva minacciato Ricciardi. Ora, dico io, con tutta questa passione che hai per la realtà, la tratti a questo modo? Errare humanum est, direte voi, e certo, dirò io, però, quando un lancinante «ahia!» della realtà ti fa capire che un eccesso di passione ti ha fatto sbagliare buco, che fai, abbozzi un sorrisuccio dimbarazzo, dici «pardon!», e continui a fottere? «Ah, no, scusi, non contro di lei, ma contro Ricciardi. Ho fatto confusione perché dopo di lei ci sarà il professor Ricciardi. Lo chiederò a lui, allora...». Eccheccazzo, Formi, drammatizzi tutto, drammatizza pure linfortunio. Quellingrato di Crisanti rifiuta dinfartuarsi in diretta, e manco sviene, e tutto sta per precipitare nel ridicolo, spezzando la tensione creata dal servizio mandato poc’anzi in onda, che tostissimo, tutto sommato, non era, ma che la musica di sottofondo rendeva straziante quanto basta a dare lo share giusto per enfatizzarmi lo spot degli assorbenti per le «gocce della risata», e tu mi smosci tutto a questo modo? Ma blocca tutto, cazzarola, e metti in scena un autodafé di quelli come Dio comanda: togli la camicia, prendi il flagello e fatti tutto lacerocontuso, schizza di sangue il megaschermo. Manco tanto perché tra due minuti dovrai definire «tragicomica» la figura di Cotticelli, ma per sostenermi il climax della trasmissione. 


martedì 10 novembre 2020

lunedì 9 novembre 2020

Invece di «anziani» ha detto «vecchi», lapidiamo il Bernabei!

 


Qualche pagina fa (Alla radice di una certa presunzione di superiorità morale Malvino, 7.10.2020), ho scritto che forse è Wittgenstein a dare «la miglior definizione» di Weltanschauung dove afferma che «etica ed estetica sono tutt’uno» (Tractatus logico-philosophicus, 6.421). In realtà, l’affermazione non ha neppure la struttura sintattica di una definizione, tuttavia mi pare colga un tratto essenziale – direi quasi fondante – di un’ideologia: per aver piena ragione della visione del mondo che rappresenta, essa non può rinunciare a inscrivere il suo ordine morale in una dimensione formale nella quale ogni significato etico abbia un significante estetico ben riconoscibile, sicché non può fare a meno di dirsi vera in quanto buona e non può fare a meno di dirsi buona in quanto bella. Ne consegue che tutto ciò che la contesta è falso perché cattivo, ed è cattivo perché brutto: l’interdizione morale, insomma, si traduce in censura di ciò che sul piano formale si pretende sia riprovevole perché sgradevole e inopportuno perché sconveniente. Accade quasi sempre, così, che le leggi morali che una visione del mondo si è data assumano forma di norme di un galateo, e che la loro violazione assuma il senso di una messa in discussione della verità che essa ritiene indiscutibile.

Un esempio di quanto si è fin qui detto ci è offerto, sul piano lessicale, dalla censura che cade su alcuni termini che una certa sinistra avverte come discriminanti, e dunque offensivi, ai danni delle minoranze di cui si intesta in esclusiva la cura degli interessi. In questo caso, come ho già scritto altrove (Cose cosìMalvino, 27.10.2020), la censura suona al modo cui Ricolfi ha così dato voce nel suo Perché siamo antipatici (Longanesi, 2005): «Tu non devi parlare come vuoi». Ora qui potremmo intrattenerci a lungo sulla reale efficacia di questa cura che, pretendendo si parli di «individuo verticalmente svantaggiato», non è comunque in grado di far crescere neppure di un centimetro un «nano», e tuttavia parrebbe che un dubbio al riguardo, per quanto ogni volta prontamente rimosso, insidi fin dal di dentro la politically correctness, costringendola a quell’incessante affanno dietro a ellissi, perifrasi, reticenze ed eufemismi per fare del «minorato» un «invalido», e di un «invalido» un «handicappato», e di un «handicappato» un «portatore di handicap», e di un «portatore di handicap» un «disabile», e di un «disabile» un «diversamente abile», senza che mai, peraltro, risulti pienamente soddisfatto il tentativo di mutare realmente la condizione dell’individuo in oggetto. Il termine censurato, così, diventa una minaccia, perché rivela l’inedaguatezza del mezzo che l’ideologia impiega al fine di offrire la sua visione del mondo come universalmente accettabile.

Questo è quanto accade con un termine come «vecchio», al quale si pretende sia preferito quello di «anziano» (per fortuna non si arriva a pretendere che sia sostituito da «diversamente giovane») a neutralizzare ogni possibile insinuazione che «vecchio» possa significare «inutile». Sul piano lessicale è interessante osservare che la censura, qui, opera un’inversione prospettica (con l’aggettivazione di un avverbio come «antea» l’«anteanus» diventa colui che viene molto prima, mentre «vetus» è colui che sta molto dopo) come a mettersi di spalle allo scorrere del tempo per evitare di vederne il termine, in una sorta di procedura esorcistica atta a rimuovere il pensiero della morte. Tutto questo, ovviamente, non è detto accada in modo cosciente, anzi è assai probabile che non lo sia per niente (il conformismo verbale non ha bisogno di darsi ragioni che abbiano fondamento logico, figuriamoci filologico), e che «vecchio» sia censurato per la semplice ragione di avere un suono troppo duro rispetto ad «anziano». È quanto accade, per esempio, con esclamazioni come «Cristo!» e «Gesù!», dove con la prima si ha sensazione che si stia imprecando da blasfemi e con la seconda che si stia invocando da devoti.

L’occasione per parlare della censura che la politically correctness muove all’uso del termine «vecchio» mi è data dalla sanzione morale che di recente è stata somministrata al professor Roberto Bernabei, primario geriatra presso il Policlinico «Agostino Gemelli» di Roma e membro del Comitato tecnico-scientifico del cui parere il Governo si avvale nella gestione della crisi da Covid-19, reo di averlo usato nel corso della puntata di Piazza Pulita andata in onda giovedì 5 novembre su La7. Sanzione morale tanto più dura, ovviamente, perché il Bernabei è geriatra, dacché ne conseguiva che, se l’uso del termine poteva essere messo in discussione sul piano estetico, in discussione giocoforza era anche il profilo deontologico del medico che ne faceva uso. Così è suonata la condanna: «Il geriatra che parla di “vecchi”. Ora manca solo il pediatra che cita i fottuti lattanti» (@mante, 6.11.2020). Tutto ciò che il Bernabei aveva detto nel corso di quella trasmissione poteva essere eluso, dando per scontato che per tenore etico non potesse essere migliore. E però si è detto che «etica ed estetica sono tutt’uno», e questo ovviamente deve valere anche per la visione del mondo che si oppone a quella che ritiene eticamente ed esteticamente riprorevole l’uso del termine «vecchio», sostenendo che invece «è la parola che definisce con gran rispetto un pezzo della nostra vita», come ha tenuto a precisare appunto il Bernabei a Myrta Merlino che gliene chiedeva conto stupita del fatto che «“vecchio” è una parola che non usa più nessuno» (L’aria che tira – La7, 6.11.2020). Cè da presumere che abbia un approccio al Covid-19 diverso da quello ormai prevalente (tanto prevalente da ridurre chiunque muova unobiezione allo strawman del negazionista): può tornarci utile darle voce al riguardo? Cosa dice esattamente il Bernabei?

«Sentiamo nei bollettini quotidiani che c’è un aumento delle vittime, ma non sentiamo che l’età media di queste è di 82 anni, [il che è] singolare poiché l’aspettativa di vita in Italia è proprio di circa 82 anni (85 per le donne e 80 per gli uomini), 20 anni in più in mezzo secolo […] Capisco che una affermazione come questa possa lasciare sconcertati perché purtroppo ci hanno detto che la scienza vince sempre, che si deve campare indefinitamente, che il governo deve trovare una soluzione ed i medici un farmaco. La controprova di una selettività che segue rispettosamente la natura delle cose, invece, è che il virus ha colpito in modo ultimativo oltre 35.000 persone nel nostro Paese e di queste solo 90 erano sotto i 40 anni, tutte con problemi di salute gravi […] Mi sembra [che il Sars-CoV-2] si sia inserito con successo in un processo, che da qualche anno avverto, di “impaurimento” della popolazione. Che tutti coinvolge, a cominciare dai media che ritengono di lucrare su questo allarme continuo che fa vendere copie o fa audience […] Passata la fase emergenziale di marzo-maggio, oggi bisognerebbe trattare il Covid-19 come una malattia “normale”. Non è l’infarto che richiede immediatamente il Pronto Soccorso e non è il cancro che richiede l’ospedalizzazione. E una malattia da curare a casa, anche perché non c’è un farmaco specifico o che possa somministrare solo l’ospedale. Se poi cala significativamente la percentuale di ossigeno nel sangue si aggiunge la terapia con ossigeno che in qualche caso sarà meglio fare in ospedale. Ma su giudizio del medico curante. Infine una quota parte di questi a cui serve ossigeno, e che quindi hanno una forma più severa di polmonite, può aver bisogno di cure intensive […] Se lei mette le cose così, abbassiamo la tensione, riduciamo gli allarmi e gli affollamenti dei Pronto Soccorso, le colpevolizzazioni e forse i lockdown» (L’Eco di Bergamo, 31.10.2020).

Si può essere daccordo o meno, è ovvio. Se non si è daccordo, tuttavia, può bastare liquidare il tutto come sgradevole o servono degli argomenti? Una certa presunzione di superiorità morale li ritiene superflui: Bernabei ha torto a prescindere, perché ad «anziani» preferisce «vecchi». In attesa del «pediatra che cita i fottuti lattanti», lapidiamo lui.


Proscritto

Mavvedo daver anche stavolta preso il Mantellini a esempio di quella presunzione di superiorità morale che, citando ancora Ricolfi, sembra in grado di dirci solo «io sì che la so lunga», «tu non devi parlare come vuoi», «tu non puoi capire», «noi parliamo alla parte migliore del paese». Lho già fatto parlando della disinvoltura con cui questa presunzione di superiorità morale fa uso di mezzucci retorici senzalcuno scrupolo, quasi che la presunta superiorità morale possa intendersi al di sopra dogni morale, e di questo il Mantellini sè pregiato di dirmi dessersene molto risentito, accusandomi di acredine e malafede. Quel che più ha ferito il mio amor proprio, tuttavia, è stato il fatto che innalzarlo a emblema di una categoria del pensiero mi sia stato ripagato con laccusa di avergli mosso un attacco personale. Possibile che una persona tanto sensibile da riuscire a sentire pulsare vita nella bic, nella reflex e nella mappa stradale della Michelin possa incorrere in un tal genere di travisamento? Un attacco personale, caro Mantellini, è di tuttaltra fatta. Avessi voluto rimproverarti la presunzione di superiorità morale come tratto esclusivamente personale, avrei fatto un cenno alla spocchia con cui dai a intendere di avere in tasca il miglior piano anti-epidemia e dopo averti messo sotto il muso questa roba


avrei detto: «Mantelli, per il 14° di “dirigenza” che ti compete, prima di pensare al macrocosmo sanitario tutto, comincia col far guadagnare qualche stellina in più al microcosmo che ti passa lo stipendio». Ma lho fatto? Non lho fatto.

martedì 3 novembre 2020

Il pescivendolo e il salumiere

 

L’argumentum ad hominem ha un fascino irresistibile, non c’è da stupirsi che, anche dopo aver dimostrato che è una fallacia, riesca a conservare una discreta efficacia persuasiva anche su chi si dà gran cura di essere intellettualmente onesto. Non è difficile intuirne il perché: le idee possono camminare solo sulle gambe degli uomini, le affermazioni possono uscire solo dalle loro bocche, è difficilissimo prenderle in considerazione semplicemente per quel che sono.

Così, è del tutto comprensibile che Andrea Orlando, deputato del Partito Democratico, possa tranquillamente girare ai suoi 194.698 followers l’intervento tenuto oggi a Montecitorio da Claudio Borghi, deputato della Lega, come prova del «perché sino a qui non ci sia stata collaborazione tra maggioranza e opposizione», sicuro che la prova sarà ritenuta più che valida. Come tutti i leghisti, infatti, Borghi ha zampe storte e pelose, per tacere delle zanne che mette in vista quando spalanca le fauci. Basta sapere che è Borghi ad aver detto quello che ha detto e – voilà – quello che ha detto rende inagibile qualsiasi terreno sul quale tentare un’intesa. Poi, c’è che ha fatto riferimento alla Costituzione e, si sa, alla Costituzione possono accostarsi solo le vestali della sinistra, chiunque altro lo faccia commette oltraggio.

Sì, ma che ha detto Borghi? Rivolto al Presidente del Consiglio: «Lei ha detto nel suo intervento che “il diritto alla salute è preliminare a tutti gli altri diritti costituzionali”. Ma, scusi, come si permette di fare una scaletta dei diritti costituzionali? I diritti costituzionali sono tutti importanti alla stessa maniera». Quale oltraggio ha commesso, l’orrida belva?

In tutta evidenza, la questione in oggetto era quella relativa alla possibilità o meno che un diritto costituzionale sia preminente rispetto agli altri. Bene, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di esporre il suo parere eminentemente qualificato su questa questione, e anche in quella occasione ad essere in discussione erano il diritto al lavoro e il diritto alla salute. Sto parlando della sentenza n. 85 del 2013, quella sul caso Ilva, in cui ci è dato leggere: «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto [...] secondo cui l’aggettivo “fondamentale”, contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un “carattere preminente” del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come “valori primari” (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale».

A chi sembra dar ragione, la Corte Costituzionale, a chi dice che «il diritto alla salute è preliminare a tutti gli altri diritti costituzionali» o chi dice che «i diritti costituzionali sono tutti importanti alla stessa maniera»?

Potrei chiudere qui, ma c’è qualcos’altro che credo valga la pena di segnalare. Non so se Giuseppe Conte abbia davvero detto «preliminare» al posto di «prevalente» o «primario»: nel citarlo, Borghi è parso consultare degli appunti, ma non si può escludere che essi non risportassero fedelmente il testo dell’intervento del Presidente del Consiglio. Nel caso in cui avesse detto proprio «preliminare», si tratterebbe di un refuso sul quale si può tranquillamente chiudere un occhio. Non senza aver considerato, tuttavia, che «preliminare» indica una prevalenza e una priorità d’ordine immancabilmente temporale, sostanziandosi in ciò che «è ritenuto premessa necessaria o tale da condizionare un ulteriore svolgimento» (Devoto-Oli). In tal caso, sarebbe una forzatura immaginare che a causare il refuso sia stato l’aver dato voce al senso comune che dice «la salute viene prima di tutto»? Il battibecco tra Borghi e Conte si rivelerebbe in tenzone tra una fonte del diritto e un proverbio caro al popolino, con Borghi a interpretare l’austero e sussiegoso parruccone e Conti nelle vesti del pescivendolo che canta le salutari virtù dei suoi costosissimi merluzzi.

Poteva questa rappresentazione reggere più di trenta secondi? Macché, le ragioni della rissa sono risultate prevalenti, e nella rissa, si sa, ogni fallacia torna a utile randello. Se lo concediamo a Orlando, perché negarlo a Borghi? Trenta secondi da fine (si fa per dire) costituzionalista, ed ecco il Borghi cedere alla logica della rissa: «Ma, se i numeri contano, il diritto alla tutela alla salute [nella Costituzione] è al numero trentadue, il diritto al lavoro è al quattro, e le ricordo l’uno, perché evidentemente ha dimenticato pure quello. L’uno dice che “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”...». E il «preliminare», che di Conte faceva un pescivendolo, di Borghi fa un salumiere con lapis sull’orecchio: «Signora, ci sarebbe quel conticino in sospeso. Cominci a pagarmi aprile, che viene prima. Quando può, mi paga maggio, che viene dopo».

martedì 27 ottobre 2020

Cose così

 

Qualche anno fa, su queste pagine, ho scritto che «grattarsi il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base», ma che, «per grattarselo, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né che a conoscerlo ce lo si gratta meglio», e che lo stesso accade «con certi mezzucci retorici, che, volgari quanto grattarsi il culo, non hanno minore complessità, di cui tuttavia non c’è bisogno di aver piena comprensione per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta immediata ad uno stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la mano al culo, quando prude» (Grattarsi il culoMalvino, 19.11.2014).

Introducevo a questo modo il commento a un post col quale Mario Adinolfi lamentava l’intolleranza di cui era stato fatto oggetto nel corso di un talk show andato in onda il giorno prima su La7: in sostanza, il pubblico in studio aveva sollevato vivaci obiezioni a certe sue affermazioni di schietta impronta omofoba, e la cosa lo aveva indignato. Avrei potuto introdurre il commento in altro modo, non c’è dubbio, ma ricorrere a Karl Popper per il concetto di «paradosso della tolleranza», a Chaïm Perelman per quello di «dissociazione delle nozioni» e a Otto Kernberg per quello di «vittimismo aggressivo», per Mario Adinolfi, francamente, mi sembrava uno spreco. Confesso, tuttavia, di essermi pentito più di una volta per aver liquidato in modo così superficiale una questione che invece avrebbe meritato una ben più seria riflessione.

L’uso istintivo di certi mezzucci retorici, infatti, solleva una serie di problemi assai più rilevanti di quelli sollevati da un loro uso consapevole e intenzionale, primo fra tutti proprio quello di dover stabilire, caso per caso, se esso sia istintivo o no. Caso per caso, dico, perché un mezzuccio retorico può scappare a chiunque, anche a chi in buona fede si dichiari acerrimo nemico di ogni fallacia argomentativa. D’altronde capita possa scappare perfino a chi si impanca a maestro di retorica come il Gianrico Carofiglio, che, nel corso di una puntata di Ottoemezzo andata in onda qualche settimana fa, giustappunto a un mezzuccio retorico è ricorso per difendersi dall’accusa di «cattivo gusto», mossagli da Alessandro Sallusti, per un tweet in cui aveva scritto che vedeva «una giustizia poetica» nel fatto che Donald Trump si fosse ammalato di Covid-19: «Quando io sento il direttore Sallusti parlare di cattivo gusto – ha detto – mi arrendo, perché so che è un esperto», ricorrendo così a una fallacia del tipo ad hominem tu quoque che poteva ardire a presentarsi come risposta decente solo per il piatto di presunzione di superiorità morale sul quale era servita. Ma di questa presunzione di superiorità morale, che ormai sembra essere il solo tratto distintivo certo della sinistra italiana, ho già detto l’essenziale nel precedente post, qui basti solo ribadire che è sentita – direi vissuta – come un privilegio che risparmia dal dover essere giudicati con lo stesso metro che si ritiene sia adeguato a condannare chiunque non faccia parte della eletta casta dei più buoni e dei più onesti per definizione, e cioè – ça va sans dire – loro. Se la cosa è appariscente soprattutto per i suoi tratti comici, messi in evidenza già oltre vent’anni fa dalla penetrante arguzia del Giorgio Gaber de Il potere dei più buoni (Un’idiozia conquistata a fatica, 1998), non vanno trascurati quelli tragici, lucidamente analizzati, qualche anno dopo, dal Luca Ricolfi del Perché siamo antipatici (Longanesi, 2005): «io sì che la so lunga», «tu non devi parlare come vuoi», «tu non puoi capire», «noi parliamo alla parte migliore del paese».

Ecco perché il problema di stabilire quanto sia istintivo o meno l’uso di un mezzuccio retorico ne pone subito uno anche più grosso, che è quello di definire cosa, in quest’ambito, debba intendersi per «istinto», data l’estrema ambiguità del termine quando non è specificato in quale contesto cada: senza dubbio, come si può dire dell’«istinto» in generale, si tratta di un impulso che sfugge alla ragione e alla volontà. Questo, d’altronde, l’avevamo già dato come implicito con l’affermare che un mezzuccio retorico «può scappare a chiunque». Se, tuttavia, questo sgombra il campo dal pregiudizio morale che fa di ogni colpa un dolo, di ogni errore un peccato, di ogni ignoranza una nequizia, non resta comunque da chiedersi cosa sia a renderlo tanto più frequentemente sfuggevole proprio alla ragione e alla volontà che nella presunzione di superiorità morale si fanno certe di essere impeccabili? Ponendo la questione in termini assai più prosaici: con quale faccia di culo si può pretendere di essere moralmente superiori a chiunque non faccia parte della suddetta casta dei più buoni e dei più onesti, quando i soli argomenti portati a prova si rivelano infarciti di mezzucci retorici, e nemmeno dei più fini?

Vorrete un esempio, suppongo. Bene, prendete il Mantellini, che della presunzione di superiorità morale della sinistra italiana è un campioncino. Scrive che «uno degli aspetti maggiormente deprimenti di una situazione [quella della «crisi legata al coronavirus»] che già nasce difficilissima e che ha visto sgretolarsi ogni solidarietà e spirito di comunità di fronte agli interessi contrapposti» è «la ridicola, deontologicamente grave e per molti versi patetica, quotidiana contrapposizione sui media fra la pattuglia dei medici che sottolineano la gravità della pandemia e quelli che invece la minimizzano». A una lettura disattenta, sulla quale sarebbe malizioso credere che egli abbia voluto contare, la sensazione è quella di trovarci dinanzi a persona mite ed assennata, seria ed equilibrata, tanto-tanto-tanto responsabile e, soprattutto, con un altissimo senso del bene comune. Lo si legge, insomma, e in sottofondo si sente il Gaber che canta: «La mia vita di tutti i giorni / è preoccuparmi di ciò che ho intorno: / sono sensibile e umano, / probabilmente sono il più buono. / … / Ogni tragedia nazionale / è il mio terreno naturale, / perché dovunque cè sofferenza / sento la voce della mia coscienza...», eccetera. Continuando a metterci la dovuta disattenzione, il testo sembra peraltro vibrare di una intensissima passione civile, che arriva addirittura a commuoverci nel punto in cui si prende atto con dolente amarezza che la beluina «contrapposizione politica» ha dato il più emblematico «segno della corruzione dei tempi» nellessere riuscita a «coinvolg[ere] così direttamente la categoria medica». Così, giacché è anche medico (quando tutto il resto glielo consente), il Mantellini sembra offrirsi a noi doppiamente ferito, e dunque doppiamente bisognoso del balsamo della nostra calda simpatia: da cittadino al di fuori (se non addirittura al di sopra) della contrapposizione politica e da medico che rispetta quanto detta il Codice di Deontologia Professionale riguardo al «reciproco rispetto» tra colleghi (art. 58). Se alla lettura disattenta di questo post aggiungessimo non laver mai letto un tweet di Mantellini, saremmo sinceramente toccati. Questo, purtroppo, non ci è possibile, perché, finché non ci è costato troppo, i tweet di @mante li abbiamo letti e fin troppo spesso erano tuttaltro che al di fuori (tantomeno al di sopra) delle contrapposizioni tra le opposte fazioni politiche e le avverse opinioni cliniche. Insomma, robe del tipo «Salvini fa schifo», «perché continuano ad intervistare Zangrillo?», «governo di pericolosi incapaci». A dar fastidio, tuttavia, sia chiaro, non è tanto il fatto che il Mantellini sia un fazioso come se ne incontrano ad ogni angolo del web, perché a suo tempo Gaetano Salvemini ci convinse: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. Limparzialità è un sogno, la probità è un dovere». Quello che dà fastidio nel Mantellini – e qui torno all’incipit – è lostinazione a volerci fare una carezza con la stessa mano con la quale si è grattato il culo.

Quanto si è fuori (o al di sopra) della contrapposizione «fra la pattuglia dei medici che sottolineano la gravità della pandemia e quelli che invece la minimizzano»? Basta chiedersi se «minimizzare» non faccia più congrua dicotomia con «esagerare», «pompare», «drammatizzare», «esasperare». No, qui fa dicotomia con un «sottolineare» che, alla faccia del salveminiano «mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità», è un «segnalare», un «rilevare», un «evidenziare». Benedetta, allora, «la ridicola, deontologicamente grave e per molti versi patetica, quotidiana contrapposizione sui media» dei medici di opposta opinione sul Covid-19, che almeno prendono una posizione e se ne assumono per intera la responsabilità. Il Mantellini, no. Il suo mezzuccio retorico rivela che sta ben dentro la contrapposizione, ma, chissà perché (si fa per dire), ci tiene a dirsene fuori. Però rivendica il diritto di poter dir la sua, pretendendo abbia maggior autorevolezza di quella altrui «per via di una ormai trentennale frequentazione con la categoria», che impasta eufemismo e reticenza per porgerci, con quello che probabilmente ritiene sia garbo, il suo «io sono medico, sapete?, voi no». Questa è la chiave che dovrebbe aprirci la porta ai misteri della professione medica cui il Mantellini ci introduce: «Non fatevi ingannare dai titoli. Essere primario o professore, avere un lungo elenco di pubblicazioni su prestigiose riviste o essere il medico personale di famosi miliardari, non significa granché. Soprattutto in Italia, dove la carriera del medico esattamente come tutte le altre professioni intellettuali, è sottoposta a un percorso di selezione nel quale influiscono stabilmente variabili non esattamente edificanti. Non dico che chiunque raggiunga i piani alti della gerarchia medica sia arrivato da quelle parti attraverso percorsi – diciamo così – discutibili, ma ecco, capita molto più spesso di quanto non si pensi. Talvolta in cima alla piramide gerarchica in Italia c’è semplicemente il peggiore, il più cinico e senza scrupoli. Molto spesso no. Essere in cima alla piramide, insomma, non definisce niente». In parte è vero, ma in parte no. Diciamo che il discorso vale solo per la sanità pubblica: nel privato la selezione è affidata esclusivamente al mercato. Comunque è chiaro il senso che il Mantellini vuol dare al colpo al cerchio e al colpo alla botte: il fatto che il professor Zangrillo sia un primario non dice niente della sua preparazione, perché a quei livelli sia arriva «talvolta» anche se sei il peggiore, ma questa, però, non è la regola, come dimostra il fatto che anche il professor Galli è un primario. Certo, dire esplicitamente che Galli è persona degna e Zangrillo è una merda suonava male, e non sia mai, meglio insinuarlo, al resto pensi il lettore.

Tutta malafede? No, saremmo ingiusti nel liquidare il post del Mantellini a questo modo. Diciamo che accanto a una discreta dose di malafede ce nè una altrettanto grossa di superficialità, che deriva da un difetto assai più comune di quanto si creda nelle ultime infornate di maître à penser, che è il deficit dei fondamentali: la loro cultura è piena di buchi e le lacune più vistose sono proprio quelle che spiegano gli abissi di superficialità in cui spesso sprofondano le loro riflessioni. Nel caso del Mantellini che soffre a vedere in campo le opposte pattuglie di medici darsele di santa ragione, il deficit sta nel non riuscire a comprendere che in gioco non ci sono solo vanità e ripicche. Per meglio dire, la contrapposizione non è tra persone, ma tra ruoli, perché in campo, in realtà, non ci sono due pattuglie di medici, ma una pattuglia di ricercatori ed una di clinici: lo scontro non è tra cauti e temerari, ma tra le ragioni che da sempre oppongono ricerca scientifica e pratica clinica. Ragioni che sono antichissime. Al Mantellini basterebbe aprire lEtica Nicomachea al settimo capitolo del primo libro per trovarle in nuce: «Un costruttore e un matematico indagano in maniera diversa langolo retto, cioè luno studia langolo retto solo per quanto è utile alla sua opera, laltro indaga cosa esso sia o quali siano le sue determinazioni» (1098a, 50). Ovviamente non si può pretendere che il Mantellini legga Aristotele, non ha tempo: twitta, fotografa nuvole e tramonti, trolla la Ferragni... Cose così.