venerdì 29 aprile 2022

«Sì, è un double standard, embè?»

 


L’esperienza della pandemia dovrebbe aver reso chiaro anche al più ingenuo degli onesti che la radicalizzazione delle opposte fazioni sottrae inevitabilmente spazio a ogni posizione terza che intenda prendere in considerazione gli argomenti di qua e di là messi in campo. Per più d’un verso, questo è inevitabile non meno di quanto sia comprensibile. Sulle questioni che toccano le parti più sensibili della nostra sfera emotiva, infatti, non si è disposti a considerare con obiettività gli argomenti che ci pare le feriscano, sicché diventa necessario, vitale, fatale, respingerli con forza, negandone ogni validità, quand’anche n’abbiano, con le più comuni fallacie logiche, che hanno aquistato così radicato uso da sembrare legittime, purché efficaci. Intervenire nel dibattito a segnalarle come tali, oltre che inutile, è pericoloso, anche nel caso si intenda farlo con equanime imparzialità con quelle impiegate dall’una e dall’altra fazione, perché, ora l’una, ora l’altra, si sentiranno entrambe minacciate da chi si avverte come chi voglia disarmarle. Mazza, coccio di bottiglia, morso al polpaccio, tutto è legittimo nella rissa: a segnalare che si tratti d’armi improprie non si ricava altro che la reputazione di essere insensibile alle altrui sacre ragioni, nel migliore dei casi, se non addirittura, nel peggiore, il sospetto che così si voglia favorire l’odiato nemico, e a lui si sia nascostamente, subdolamente, nequiziosamente solidale. Perciò dobbiamo essere infinitamente grati a chi ci risparmia la premura di segnalare che il tale abbia fatto uso di un ad hominem, il tal altro di uno strawman, ed entrambi siano in patente contraddizione con quanto affermato un anno, un mese, una settimana prima, e non di rado anche con quanto sostenuto nella stessa frase. Tanto più grati se a risparmiarcelo è proprio uno dei partecipanti alla rissa. Meglio, poi, se nella rissa ha ruolo di rilievo e fama di persona dabbene.
Sulla questione ucraina, perciò, la mia personalissima gratitudine va a Giampiero Massolo, uomo dal prestigioso curriculum diplomatico e oggi presidente – tutt’insieme – di Fincantieri, Ispi e Atlantia, nonché autorevole membro della Trilateral e del comitato esecutivo dell’Aspen Institute, oltre che insignito delle più alte onorificenze della nostra amata Repubblichetta. Superfluo dire, dato il profilo, a quale fazione il buon Massolo offra i suoi preziosi servigi: da quando virologi, epidemiologi e pneumologi hanno lasciato il posto a generali, esperti di geopolitica e di relazioni internazionali, è tra i più assidui tra gli ospiti di quei talk show monotematici, che tra un blocco pubblicitario e l’altro, anima e scheletro verace dello spettacolo che cannibalizza la realtà espellendo immagini, quasi sempre corredate da pregnanti soundtrack di sottofondo, assicurano al cittadino trasformato in spettatore il bolo della cosiddetta informazione. Filogovernativo, il buon Massolo, anzi filissimo, e ovviamente pro-Usa e pro-Eu, a dispetto dei contrasti di interesse ormai sempre più evidenti tra Usa ed Eu, e però pro-Nato, a tappeto sotto cui celare i contrasti, perché la sala del trono d’Occidente risulti pulita e linda.
Nel corso dell’ultima puntata di DiMartedì (La7, 26.4.2022), a Fulvio Grimaldi e ad Alessandro Dibattista che agli Usa rinfacciavano d’essersi macchiati, in largo e in lungo per il mondo, degli stessi, e anche peggiori, crimini oggi imputati alla Federazione Russa, col che all’ambasciator toccava portar la pena di double standard addebitato all’Occidente tutto, il buon Massolo ha replicato: «Il mondo non è fatto come noi lo vorremmo, ma è fatto così come è fatto. Bisogna ammettere che il double standard esiste e quindi è molto difficile paragonare le singole situazioni, perché ogni situazione riflette quello che è un contesto delle relazioni internazionali, dove non esistono le buone intenzioni, ma esistono degli interessi che si contrappongono o si sposano».
Lessico convoluto solo allo sprovveduto, ma franco e schietto, nei limiti ovviamente posti nel porgerlo come perla nel bivalve grigiume della diplomatica ostrica: sì – ha ammesso – accusiamo Putin degli stessi crimini commessi dagli Usa da Hiroshima in poi, e Putin lo vogliamo condannato, e gli Usa assolti, e sì, questa è doppia morale, oltre che morale doppia, ma non starò qui a dire che agli Usa l’assoluzione è dovuta perché l’impero americano rappresenta il Bello, il Buono e il Giusto; no, vanno assolti perché ne abbiamo sposato gli interessi, che oggi si contrappongono a quelli russi.
A fronte delle patetiche macchiette che ci rifilano la solita e ormai logora bubbola di un matrimonio stretto per affinità elettive, viva Massolo, che dice chiaro e tondo che quello con gli Usa è un matrimonio d’interesse. Via le bellurie di libertà e democrazia, ché più le guardi da vicino e meno le trovi dove i gonzi sostengono stiano: siamo tenuti alla fedeltà nuziale, perché ci conviene; e, in subordine, perché sennò lo sposo ci mena; di divorzio neanche a parlarne, quand’anche il comune interesse scemasse, sennò, oltre a menarci, lo sposo ci ammazza, o eventualmente ci fa ammazzare, assoldando un sicario.
È così che andrebbero condotti i talk show: un Dibbattista, un Orsini o un Canfora a lamentare il double standard, e un Massolo a ribattere: «Sì, è un double standard, embè?»; e fine lì. Ma non si può: ne soffrirebbero i blocchi pubblicitari.

giovedì 3 febbraio 2022

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Il fatto che nel Novecento la dittatura abbia assunto quasi ovunque la forma del totalitarismo ci rende assai difficile, oggi, avere idea di quale sia la sua reale natura, che non è necessariamente totalitaria, non fossaltro perché listituto della dittatura nasce nella Roma del V secolo a.C., mentre il totalitarismo nasce solo ventiquattro secoli dopo: in questi ventiquattro secoli la dittatura non ha mai mostrato il ben che minimo interesse ad avere quel pieno controllo sullinterezza dellindividuo che il totalitarismo mostra di avere sulla sua vita pubblica e su quella privata, sul suo agire e sul suo pensare, con quella pervasività che è suo più precipuo carattere e che infatti, non a caso, troviamo anche in un ambito non propriamente politico, come quello religioso (si prenda a esempio un papa come Pio XI, il quale afferma che, «se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è la creatura del buon Dio»). La ragione sta nel fatto che non si può avere totalitarismo prima che la storia abbia prodotto il concetto di individuo, e lindividuo, come ci ha insegnato Durkheim, è prodotto che non data più di due o tre secoli, nasce nel momento in cui la società occidentale lo configura come entità autonoma, slegata dall’appartenenza a quei gruppi (famiglia, corporazione, classe, etnia, ecc.) in cui prima era dato indistinto, conferendogli uno statuto morale e giuridico proprio: solo da quel momento in poi diventa, insieme, soggetto e oggetto politico; solo da quel momento in poi può agire ed essere agito negli ambiti del costituente e del costituito.
Lesperienza del totalitarismo ha di fatto reso impossibile, almeno ai più, di cogliere la reale natura della dittatura, che è quella di istituto. Le cose, daltra parte, non vanno molto meglio neppure a voler far distinzione, come sennatamente raccomandato da alcuni, tra totalitarismo e autoritarismo: anche se la dittatura, infatti, è sempre autoritaria, non sempre lautoritarismo assume forma di dittatura. È di piana evidenza, dunque, che anche con la dittatura è accaduto quel che accade spesso quando laccezione di qualcosa diventa metonimia di qualcosaltro: perde il suo significato originario e recuperarlo finisce per assumere carattere velleitario, in qualche modo antistorico, quasi a voler cristallizzare un concetto nel momento che lo ha prodotto o in uno dei passaggi storici che gli hanno conferito un significato diverso da quello che esprimeva originariamente, ma nel quale ha assunto caratteri grazie ai quali è stato più frequentemente riconoscibile di lì in poi, non di rado metonimizzando uno o più tratti della sua metaforizzazione. È inevitabile, così, che il termine in oggetto finisca per veicolare un concetto che trova definizioni diverse, ambigue, spesso controverse, come è dato rilevare in una locuzione come «dittatura sanitaria». Vedremo per quali ragioni, essa è corretta per definire quel che è accaduto dal marzo del 2020 ad oggi, ma non lo è affatto per significare linstaurazione di un regime totalitario, come lascia intendere chi ne fa uso per contestare le politiche di contrasto allepidemia di Covid-19 e chi, a questi opposto, ritiene che la locuzione sia impropria anche a definire misure che di fatto hanno sostanziato listituto dittatoriale. Dittatura, infatti, non è nientaltro che sospensione dello stato di diritto in ragione di uno stato di eccezione: definizione che impone un chiarimento riguardo a cosa siano lo stato di diritto e lo stato di eccezione, ma anche il senso di una locuzione come «in ragione di».
Facciamoci aiutare da Carl Schmitt: «Ciò che negli Stati del continente europeo, a partire dallOttocento, si è chiamato Stato di diritto era in realtà soltanto uno Stato legislativo, e precisamente Stato legislativo parlamentare. […] Uno Stato legislativo è un sistema statuale dominato da normazioni di contenuto misurabile e determinabile, impersonali e perciò generali prestabilite e perciò pensate per durare: uno Stato in cui legge e applicazione della legge, legislatore e organi esecutivi sono separati. In esso regnano le leggi, non uomini, autorità o magistrature. O meglio: le leggi non regnano, valgono semplicemente in quanto norma. Dominio e potere in quanto tali non esistono più. Chi esercita il potere e il dominio agisce in base a una legge o in nome di una legge» (Legalità e legittimità, 1932). La dittatura non è altro che la sospensione dello stato di diritto e si sostanzia, come Schmitt chiarisce altrove (La dittatura, 1921), in quel «tipo di ordinamento che prescinde in linea di principio da un’intesa e da una consultazione con chi la deve subire e tantomeno ne attende l’approvazione». Perciò non deve necessariamente attendersi resistenza, per quanto sia costretta a metterla in conto. Il suo rapporto col consenso, dunque, è disarticolato, sia sul piano causale, sia su quello temporale, e questa è un altro elemento che la caratterizza rispetto al totalitarismo, che invece nel consenso, e incondizionato, ha il fine primo e ultimo. Di qui, il trovare la dittatura anche dove parrebbe non esservi, e cioè in tutti quei momenti in cui lo stato di diritto cede allo stato di eccezione nella modalità del commissariamento.
Le pagine di Rousseau al riguardo sono illuminanti: «L’inflessibilità delle leggi, che impedisce loro di adattarsi agli eventi, può in certi casi renderle dannose e causare, per opera loro, la rovina di uno Stato in crisi. L’ordine e la lentezza delle procedure richiedono uno spazio di tempo che qualche volta le circostanze rifiutano. Si possono presentare mille casi ai quali il Legislatore non ha provveduto; e costituisce una previdenza quanto mai necessaria quella di essere consapevoli che non si può prevedere tutto. Non bisogna dunque voler irrigidire le istituzioni politiche fino a sottrarsi il potere di sospenderne l’effetto. Anche Sparta ha lasciato dormire le sue leggi. Ma esclusivamente i più grandi pericoli possono bilanciare quello di alterare l’ordine pubblico e si deve sospendere il sacro potere delle leggi unicamente quando si tratta della salvezza della Patria. In questi casi rari e manifesti si provvede alla sicurezza pubblica attraverso un atto particolare, con cui se ne affida la responsabilità al più degno. Questo mandato si può conferire in due modi, secondo il genere di pericolo. Se per porvi rimedio è sufficiente accrescere l’attività del governo, lo si concentra in uno o due dei suoi membri; così non si incide sull’autorità delle leggi, ma soltanto sulla forma della loro amministrazione. Se invece la minaccia è tale che l’apparato delle leggi costituisca un impedimento a garantirsi da essa, allora si nomina un capo supremo che faccia tacere tutte le leggi e sospenda provvisoriamente l’autorità sovrana; in un simile caso la volontà generale non è dubbia ed è chiaro che la prima intenzione del popolo è che lo Stato non perisca. In tale maniera la sospensione dell’autorità legislativa non l’abolisce assolutamente: il magistrato che la fa tacere non può farla parlare e la domina senza poterla rappresentare; può fare tutto salvo che delle leggi» (Il contratto sociale, 1762).
Non deve, dunque, lasciare sgomenti il fatto che nello stato di diritto vi sia sempre un punto in cui la gravità (qui da intendere in tutte le sue accezioni) possa aprirsi in un buco nero. Spingersi a dire che tra democrazia e dittatura vi sia isomorfismo di potere forse è troppo, di fatto ogni costituzione liberaldemocratica prevede, ancorché implicita, la possibilità di una sospensione dello stato di diritto. Occorre, tuttavia, che vengano tirati i fili fin qui descritti come sostanza dell’ordito. La traccia da seguire, credo, sta nella stranezza di ciò che accade per il corso che Foucault tiene al Collège de France nel 1978-79 e a cui dà per titolo Naissance de la biopolitique: non si parlerà altro che di ordoliberismo, il neoliberismo di scuola tedesca. Alla fine del corso, Foucault ammette: «Il corso di quest’anno, alla fine, è stato interamente dedicato a ciò che doveva essere soltanto l’introduzione. Il tema in origine stabilito era dunque la biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze... Mi è sembrato che questi problemi non potessero essere dissociati dal quadro della razionalità politica entro cui sono apparsi e hanno assunto il loro rilievo, vale a dire il liberalismo, dal momento che è in rapporto a quest’ultimo che essi hanno assunto l’aspetto di una sfida...». La tesi di fondo è che l’ordoliberismo non si è limitato a chiedere «meno stato, più mercato», ma, dovendo conservare allo stato le funzioni minime che anche il più sfrenato liberismo gli riconosce, ha finito per risolversi a chiedere di trasferire allo stato le regole del mercato. Ed è così che prende forma il dispositivo.

[segue]

martedì 1 febbraio 2022

Una premessa



 

Il σύν- che rende sinonimi gli -ονόματα dà ragione del fatto che essi hanno in comune un significato primario, accanto al quale ciascuno ne ha altri, accessori, che nellinsieme gli sono unicamente propri, il che dà fondamento allassunto che la sinonimia assoluta non esiste.
Sulla natura di questi significati accessori (per meglio dire, sulla natura del rapporto di questi distinti e specifici insiemi di significati accessori che ogni -όνομα ha con il significato primario comune ad altri -ονόματα) i dizionari sono assai vaghi, risolvendosi a considerarli «sfumature» (Garzanti), differenze di «tonalità» (Palazzi), variazioni dell«uso espressivo e stilistico» (De Mauro), «caratteristiche e valori differenziati» (Treccani), «stratifica[zioni] dal punto di vista degli affetti, della cultura, ecc.» (Devoto-Oli): necessariamente vaghi, occorre dire, perché il significato primario condiviso da una serie di sinonimi è mobile in relazione al contesto nel quale ogni -όνομα è chiamato a co-incidere con altri -ονόματα, mosso dal contesto in cui è pienamente efficace, e la ragione che lo muove e il modo in cui vi giunge variano da caso a caso.
Ora, considerando una serie di termini che tra loro sono sinonimi, il loro comune significato primario è da intendere come un minimo comune multiplo o come un massimo comun divisore degli insiemi di significati ascrivibili a ciascuno? Per poter essere comune (condivisibile) a tutti i termini che tra loro sono sinonimi, insomma, questo significato primario deve essere riconoscibile in tutti gli -ονόματα come elemento che soddisfa la condizione minima o quella massima del loro essere significanti?
Sarà il caso di ricorrere a un esempio. Si consideri la seguente serie di sinonimi: detto, massima, motto, sentenza, adagio, proverbio, apoftegma. Ora è chiaro che «fa quel che devi, accada ciò che può» sia più massima che proverbio, che «in dubio pro reo» sia più sentenza che motto, che «tra moglie e marito non mettere il dito» sia più proverbio che detto, che «perinde ac cadaver» sia più motto che sentenza, che «io so io e voi non siete un cazzo» sia più apoftegma che adagio, ma dove cercare il significato primario che rende sinonimi questi termini? È nel loro minimo comune multiplo di enunciato breve fino allellittico o nel loro massimo comun divisore di decreto ingiuntivo? Per la serie di sinonimi presi a esempio possiamo senza dubbio dire che il loro comune significato primario è il massimo comun divisore dei diversi insiemi di significati ascrivibili a ciascun termine: detto, massima, motto, sentenza, adagio, proverbio, apoftegma co-incidono nel contesto in cui a parlare è lautorità che decreta, ciascun termine dà ragione solo del tipo di autorità che decreta (il giudice, il saggio, il dotto, il potente, ecc.).

È questo che in qualche modo spiega perché per molti di questi enunciati brevi fino allellittico lattribuzione sia quasi sempre controversa. Risalendo lungo la catena di comando che trasmette il decreto, infatti, capita spesso di poter ipotizzare un antecedente, e non è affatto raro che la fonte data per certa non ne riveli traccia, se non in forma tanto diversa da snaturarne il senso. Non cè da stupirsene, perché questi sono gli ostacoli che normalmente si pongono in ogni studio genealogico dellautorità e, in generale, in ogni forma dindagine che miri a scoprire la scaturigine prima del potere. Di qualunque tipo di potere, che è a fondamento di ogni autorità. Questa, daltronde, è la vera ragione che rende arduo il definirne la natura: agisce – nel caso della serie dei sinonimi qui presi in oggetto, ingiunge – ma non si sa da dove giunge: quando sembra di aver capito da dove si è mosso, c’è sempre il sospetto che quella fosse una tappa intermedia (è il caso del concetto di «teologia politica»); quando se ne afferma il vettore verticale, si è costretti a fare i conti con la sua «microfisica», che ne rivela la struttura «reticolare»; per tacere del suo presunto «isomorfismo», che parrebbe farne un precipitato storico dai cieli del teoretico.
Non è questa la sede per affrontare questi problemi, qui l’intenzione è solo quella di appuntare l’attenzione su quello che è difficile capire se sia più detto o sentenza, apoftegma o proverbio, massima o adagio, e parlo del decreto che ci ingiunge: «primum vivere, deinde philosophari». Porsi questo problema mi pare possa tornar utile a far chiarezza sul tipo di autorità che dichiara il primato della mera vita, che è pura astrazione, sulla vita qualificata, che è risultato del processo storico. Quando e perché nasce questa autorità?
Ma questa non è la sede neppure per affrontare questi problemi: qui, risolta la questione del quando nasce l’attenzione del potere alla mera vita dell’uomo, il problema è di ripercorrere – in breve – lo sviluppo di questa attenzione in biopolitica, per cercare di capire quali linee direttive le sono possibili, al netto delle resistenze.

Si è soliti affermare che «primum vivere, deinde philosophari» sia frase attribuibile a Thomas Hobbes; di fatto, almeno in questa forma, non è rintracciabile in alcuna delle sue opere. È assai probabile che gli sia attribuita al pari di come si attribuisce «il fine giustifica i mezzi» a Machiavelli, che in realtà non lha mai scritto: sarebbe l’enunciato breve fino all’ellittico che intende proporsi a epitome del suo pensiero politico. Ogni ellissi, si sa, è una forzatura che deve necessariamente rinunciare all’argomentazione rimandandola a un atto di fede, che qui, come dovunque la fede dispiana la sua pretesa, dovrebbe essere compiuto per cieca obbedienza: «primum vivere, deinde philosophari» decreta in forza di una presunta autoevidenza che rende superflua largomentazione. In più, decreta in una lingua con la quale la legge a lungo ha amato esprimersi, e questo invita a credere che abbia lontani antecedenti: massima e sentenza insieme, dunque, comè per tutto ciò che diventa legge per il solo discendere dalla tradizione. Si spiega, allora, il tentativo di cercare un antecedente di «primum vivere, deinde philosophari». Tentativo sempre risultato vano, perché tutta la produzione sapienziale dellantichità, senza eccezioni, ha sempre ribadito la superiorità dellanima sul corpo, del pensiero sullazione, ecc., e così tutte le fonti che di solito sono presentate come antecedenti di «primum vivere, deinde philosophari» (Focilide, Platone, Aristotele, Cicerone, Orazio, Seneca, Lattanzio, ecc.) di fatto smentiscono lassunto di un primato della materia sullo spirito, del provvedere al procurarsi i mezzi che assicurano la mera sussistenza in vita sulla cura delle virtù morali e intellettuali, il che trova ragione nel fatto che, sia il mondo greco, sia quello romano, reggevano sul lavoro degli schiavi, che assicuravano salda base al «vivere» di chi era chiamato a «philosophari»: è per questo che quello dello schiavo era lo statuto della cosa e dellanimale, e la sua era una mera vita, una ζωή; altra cosa rispetto al βίος, e cioè alla vita qualificata, quella del πολιτικόν ζώον (lanimale fatto uomo dal suo essere prodotto storico, relazionale, politico). E così sempre a Hobbes si è dovuti ritornare. Con quanto ne consegue, a mio modesto avviso, sul punto che divide Foucault da Agamben, dando ragione al primo: la biopolitica nasce nel secolo in cui Hobbes scrive il Leviatano, tutto ciò che sembra configurarla prima è artefatto metafisico retroproiettato, vedere il soggetto così realizzato nella modernità dove non ve ne era che lembrione.

[segue]

giovedì 9 dicembre 2021

“Molti altri tacciono per evitare conseguenze”



Carlo Lottieri, docente di Filosofia del Diritto, intervistato da Pietro Salvatori per huffingtonpost.it (9.12.2021).



Professore, dunque cosa ci faceva ieri a Torino insieme a Cacciari, Mattei e Agamben?

Da qualche tempo penso che stiamo assistendo a un cambiamento istituzionale, sociale e politico che sta restringendo le libertà individuali in nome di un appello all’emergenza, e ritengo questo che esiga una reazione. Siamo persone che hanno trascorsi diversi e idee anche contrastanti, ma che si trovano d’accordo di fronte all’esigenza di tutelare l’inviolabilità del corpo umano, opponendosi all’isteria alimentata dal potere attuale. Di fronte al Leviatano sanitario serve una coalizione che difenda la libertà di pensiero. Mi piace il fatto che si parli di noi come di “renitenti”, come di coloro che nella Prima guerra mondiale si rifiutavano di uccidere e di morire.

Ma la vostra libertà mette in pericolo la libertà altrui. Rifiutate di uccidere o morire ma aumentate il rischio per chi vi sta attorno. C’è una dimensione collettiva della libertà, non può non tenerne conto.

Non è così. O i diritti fondamentali esistono e sono inviolabili, oppure non esistono per nulla e sono mere concessioni del potere. Né penso difendibile la tesi secondo la quale la scelta di non vaccinarsi comporterebbe un danno per gli altri. Il grande equivoco è che o sosteniamo che vaccini sostanzialmente funzionano, o riteniamo che non funzionano. Se ti vaccini e hai una copertura dal virus, cosa temi dagli altri? Una persona protetta dal vaccino – che ha meno probabilità d’infettarsi e se questo avviene molto spesso non deve affrontare gravi conseguenze – ha davvero poco da temere da un non vaccinato. C’è un brocardo che recita: “De minimis non curat praetor”. Il comportamento di chi non si vaccina non può essere considerato lesivo dei diritti altrui, e infatti in vari Paesi non lo è.

Ma i vaccini sono un argine alle ospedalizzazioni, agli ingressi in terapia intensiva, agli stessi decessi.

Questo non lo discuto. Non siamo contro i vaccini. Chi vuole può tutelarsi con questo strumento e dovrebbe anche avere il diritto di poter scegliere quale tra i molti vaccini disponibili, senza per forza farsi iniettare un farmaco scelto da altri. Mia madre è vaccinata e mia figlia lo è, e mi fa piacere che lo siano.

Lei no?

Io no.

Ma se non è contro i vaccini!

Ho scelto di non vaccinarmi per una questione di principio: etico-giuridica, non sanitaria. Tutti gli anni tengo un corso sull’obbligo politico (cercando di mostrare come sia illegittimo che alcuni uomini dispongano di altri uomini), e sarei stato incoerente se avessi subito chinato la testa: accettando senza la minima reazione la condizione di suddito.

Ma perché suddito, scusi?

Perché quando qualcuno impone qualcosa a qualcun altro, il secondo non è più un uomo libero. E perché c’è stata una scelta politica precisa: quella di puntare solo su una delle varie risposte possibili. Ma la medicina deve essere tarata su persone tra loro molto diverse. In ragione di un ben preciso calcolo politico, ci considerano tutti identici, e in tal modo si sta scivolando verso logiche totalitarie giustificate da quella che viene chiamata “la scienza”. La ricerca scientifica autentica, invece, vive di dibattiti e cresce attraverso autentiche rivoluzioni, come furono quelle di Galileo oppure Einstein, che dissero cose del tutto eretiche rispetto alle opinioni degli altri studiosi in quel momento.

Ma ci sono già almeno 10 vaccini obbligatori per i bambini nel nostro paese, e nessuno ha mai posto di questi problemi.

Non è vero: c’è chi giustamente ha protestato e ha alzato le barricate! È vero che l’Italia ha una storia profondamente illiberale da questo punto di vista. Fra un po’ imporremo pure le trasfusioni ai testimoni di Geova…

Non mi dica che è d’accordo con Agamben quando introduce analogie tra Draghi e il nazismo.

Abbiamo alle spalle cinque secoli di storia dello stato moderno: un’istituzione che non riconosce nulla sopra di sé. Queste cose le dicevano Bodin, Hobbes e Rousseau, non io. Come europei, dobbiamo sapere che abbiamo costantemente nella nostra storia il rischio totalitario: non è un qualcosa venuto dal nulla e che si è esaurito nella Germania degli anni ’30 e ’40.

Dunque mi faccia capire: pensa che oggi ci siano elementi per poter fare dei paralleli con le leggi razziali, o con l’eliminazione dei disabili portata avanti da Hitler…

Penso che siamo in presenza di forme sottilmente totalitarie. Hannah Arendt sostiene che nei regimi totalitari il potere non si limita a comandare, ma punta a conquistare il cuore e la mente dei suoi cittadini. Il vero trionfo del potere non è la passiva obbedienza, ma l’attiva partecipazione. In questo senso il green pass è cruciale, perché chiede un’adesione attiva. D’altra parte, quella libertà di pensiero che storicamente era associata alla tolleranza – qualcosa che sembrava ormai acquisito – è oggi sempre più limitata. Si pensi alla difficoltà di ragionare seriamente sugli eventi avversi. Siamo di fronte a una prospettiva dogmatica e bigotta, che condanna sul piano morale ogni dissenziente.

Non sarà anche lei sostenitore del Great Reset o di questo tipo di tesi complottiste?

Quello che penso è che vi una generale convergenza sul piano ideologico e degli interessi: burocrati, politici, organismi internazionali, imprese, sindacati, chiese e via dicendo convergono in maniera naturale a protezione del nuovo potere. Non c’è quasi più spazio per un’economia libera, così come si restringe la possibilità di un pensiero indipendente e scettico. Non c’è allora bisogno di un disegno, perché ci sono tanti interessi sintonizzati tra loro e c’è una comune visione ideologica nelle élites. Ed è già pronto quel che verrà dopo.

E cosa verrà dopo?

La crisi climatica sarà la nuova emergenza, utile a distruggere ancor più il diritto e le libertà individuali.

Aspetti un attimo, cosa c’entra?

La dissoluzione del diritto troverà una straordinaria opportunità su quel versante, e può già contare su un consenso costruito nel corso di decenni. Perché vede prima che vi fosse un’offerta di pandemia c’era una domanda di pandemia.

Ma che significa una “domanda di pandemia”?

Per i governi e le élite a loro connesse la pandemia è stata una straordinaria opportunità: tanto più che abbiamo visto una società che ha chiesto solo di essere guidata, timorosa di morire di Covid e dominata da un’isteria irrazionale. Dal coprifuoco dopo le 10 di sera alle mascherine all’aperto, abbiamo aderito a misure senza senso.

Mi perdoni: quindi secondo lei da Biden a Putin, da Draghi a Merkel, da Aifa a Ema, sono tutti d’accordo in un grande piano interconnesso per controllarci?

I governi esistono e contano molto, le lobby egualmente, e le élite pure. Poi per fortuna c’è qualche defezione: dalla Svezia alla Florida. Ma noi italiani purtroppo abbiamo fornito lo standard, essendo stati il primo paese occidentale a essere stato colpito. E non è un caso che abbiamo prima dato il fascismo all’Europa e poi per decenni abbiamo avuto il partito comunista più grande dell’intero Occidente.

Volete fare un partito anche voi?

Personalmente penso che sarebbe disastroso. Abbiamo idee molto diverse, anche se siamo uniti in difesa dei diritti fondamentali, della libertà di cura e della difesa del pluralismo. Credo che servirebbe una serie di realtà politiche molto diverse, ma in grado di allearsi. Un comitato chiamato a restaurare il diritto e la libertà di espressione.

Ma libertà d’espressione è garantita. Le vostre tesi sono sui giornali, io la sto intervistando, andate in tv.

In genere sono trappole. Basti dire che siamo definiti “negazionisti”, un termine che nacque per chi negava la Shoah, e che poi usato per il clima. Qualunque cosa pubblichiamo su Fb ci becchiamo una sospensione. C’è un’evidente alleanza tra politica, scienza, finanza, media.

Ma nel regime autoritario che denuncia lei è libero di sostenere queste posizioni!

Quanti come me esprimono queste tesi possono farlo, ma sanno che pagheranno un prezzo. Un mio collega, a Verona, è stato allontanato dopo due minuti in televisione. Molti altri quindi tacciono per evitare conseguenze. A me questo non sembra normale.

venerdì 12 novembre 2021

mercoledì 19 maggio 2021

Povero Zoro!

 



Non guardo Propaganda live da mesi, dunque ho dovuto recuperare su rivedila7 la puntata andata in onda venerdì 14 maggio, che solo grazie ai commenti di chi seguo su Twitter ho appreso fosse stata disertata da Rula Jebreal, invitata a parlare dellennesimo riacutizzarsi del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi, ma non più disposta a farlo dopo aver saputo di essere la sola donna ad essere ospitata in quella puntata. Impegnato comero in un delizioso weekend su unisoletta covid free, però, non ho potuto recuperare la puntata prima di lunedì sera, e qui non metterebbe conto di parlarne, se non fosse che quanto è parso interessante a me, ascoltando il monologo di Diego Bianchi che apriva la serata, non è parso degno di nota a chicchessia.
Si è rilevato, infatti, che il suo imbarazzo fosse assai piccato, e che solo il rispetto per la propria reputazione, così faticosamente costruita con tanti furbi ammicchi e tante sapienti leccatine, lo trattenevano dal dare della stronza alla Jebreal.
Non è sfuggito, parimenti, quell«a me non piacciono i social», che, detto da chi ci costruisce sopra tre quarti di trasmissione, suonava alquanto grottesco. Tutto giusto, certo, ma non mi è parso sia stato questo lessenziale.
Lessenziale, a mio modesto avviso, è stato che lincidente ha finalmente sciolto tutte le ambiguità sulle quali Diego Bianchi ha saputo fino a quel punto reggere da scaltro equilibrista. Rivelatori, in tal senso, sono stati alcuni termini cui è ricorso in quegli otto lunghissimi minuti di excusatio.

Ha esordito in questo modo: «È stata una settimana decisamente pesante, impegnativa, sul fronte degli avvenimenti, della storia che si fa, e anche di chi ovviamente cerca in qualche modo, con gli strumenti che ha, di raccontarla. Noi ci siamo preparati per tutta la settimana, come sempre, per questa puntata, e poi, a un certo punto, è successo che, nellassurdità del momento, oggi la notizia siamo diventati noi, e questa cosa francamente sorprende. Diciamo che a noi piace rincorrere le notizie, scoprire le notizie, dare le notizie: essere la notizia già meno».
Mettendo da parte lepica che accomuna, nella fatica, «la storia che si fa» e chi la racconta, Propaganda live ha mai dato una notizia? Ne ha mai «scoperta» una? Le «rincorre», questo sì, e, soprattutto, le commenta. Per meglio dire: fa suo il commento che su una data notizia dà il volto noto che è ospitato dalla trasmissione o il tweet scelto nella marea di tweet che l’hanno commentata. Nell’uno e nell’altro caso, come è ovvio, la scelta è legittimamente insindacabile, d’altronde, almeno fino a quando l’ho seguita io, Diego Bianchi ha più volte tenuto a far presente: «Questa trasmissione è mia»; anche in questa occasione, peraltro, ha precisato: «La scelta dei nostri ospiti non è mai neutra. Su questo palco non salgono i politici, per determinati motivi, ma soprattutto non salgono neppure certi pensieri che voi vedete giustamente rappresentati nei talk show».
Una trasmissione, dunque, che, seppure con l’espediente di dar voce a questo e a quello, sostanzialmente esprime una linea editoriale e una linea politica. Fin troppo manifeste, direi, oltre che fortemente motivate, visto l’armamentario messo in campo contro gli avversari, offerti a un pubblico assai fidelizzato come oggetto di esecrazione, differita in feroci prese per il culo, che quasi sempre mirano a farsi tormentoni, per acquistare la viralità del meme.

Una trasmissione propagandistica, dunque, come d’altronde il titolo rivendica, e con fierezza si potrebbe dire, se non fosse che, a suo tempo, quando Gazebo si spostò da Rai3 a La7, la scelta di chiamarla Propaganda live, fu dichiaratamente ironica, a rigettare l’accusa che proprio in quel senso le era stata mossa: «Per non dare ragione a Salvini – disse Diego Bianchi – si fa quello che vuole Salvini». Aveva ragione Matteo Salvini, dunque, ma doveva aspettare quattro anni per vedersela pienamente riconosciuta da un Diego Bianchi senza più alcuna possibilità, e forse neppure voglia, di schermirsi schernendosi. Senza più neppure necessità di farlo, poi, visto che la sua trasmissione ora va in onda da un’emittente privata, e col tempo ha maturato i crediti di cui gode ogni marchettificio culturale del Belpaese, protetto dalla rete di interessi in cui è riuscito a crescere e irrobustirsi.
Interessi che qui sono riusciti a estendersi in più campi: Propaganda live può promozionarti il libro o il disco, se sei un vip, ma può pure darti quindici secondi di notorietà, se sei un anonimo account su Twitter; può promuovere ad opinionista un comico e ripescare dal dimenticatoio un cantante in voga mezzo secolo fa; può preparare il ritorno in campo di Enrico Letta facendogli fare il Vaso degli Esteri e creare il clima più favorevole al giudizio che un tribunale dovrà emettere su Mimmo Lucano; può strizzare un occhio ai centri sociali con un’intervista a Zerocalcare e fare una leccatina al culo di Sergio Mattarella con una striscia di Makkox, il genio. Scampoli di potere, è ovvio, peraltro esercitato in una nicchia relativamente angusta, ma quanto basta a nutrire ambizioncine e carrierucce, rafforzando la certezza di essere referenti di unarea.

Quale sia larea di cui un Diego Bianchi può avere avuto modo, più o meno a buon diritto, di credersi referente, non è un mistero: è quella che, pur con sempre minor consenso in Italia, esprime la ben nota presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra, che proprio a questa sua irrinunciabile presunzione deve le sue più cocenti sconfitte.
Accade, infatti, che si inviti in trasmissione il sindacalista di colore che si batte contro lo sfruttamento di immigrati pagati poco e in nero per raccogliere pomodori in Puglia, e a chiudere lintervista ci sia lo stacchetto musicale della band il cui leader è quel ristoratore che fa lavorare una ragazza senza un regolare contratto e, quando quella ha da ridire, la liquida con lepiteto di «pazza incattivita dalla vita».
E lì, a «rincorrere la notizia» trovi un altro, e la notizia sei tu, e a contorno ti stanno gli artisti che hai promozionato, qui in riconoscente difesa del musicista-ristoratore, uno dei «tre o quattro amici» che alla tua trasmissione collaborano da anni, e che dunque della trasmissione sono espressione almeno quanto te: puoi cavartela dicendo che questo ti «piace meno»?

Poi, e sè già detto: «A me non piacciono i social». Paradossale, sè già detto pure questo, ma perché? In sostanza, perché dei social non puoi sempre servirti come vuoi. E qui la riflessione è costretta a esorbitare in domande che su queste pagine ho già posto, e che oggi ritornano: ma un vip che twitta, che apre una pagina su Facebook o su Instagram – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web? Non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta.
Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non sta sui social per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi. E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, quando lavora, anche così, a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato, ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto, si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.

Mera ingordigia di attenzioni, si direbbe, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan. Salvo imprevisti, tuttavia, comè nel caso in cui larea di cui ti credevi referente si spacca, e una parte, dimprovviso, trova condivisibili le ragioni che hanno portato Rula Jebreal a rifiutare il tuo invito, e poco convincenti le tue spiegazioni.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.

giovedì 13 maggio 2021

Un’allegoria inservibile

 

Davide Racca, Descrizione del dispositivo (partic.) *


 
«Al condannato viene scritto sul corpo,
con lerpice, il comandamento che ha infranto»
Franz Kafka, Nella colonia penale (1914)


«La similitudine non è più la forma del sapere,
ma piuttosto loccasione dellerrore»
Michel Foucault, Le parole e le cose (1966)




1. Michel Foucault apre Surveiller et punir (1975) con la descrizione che la Gazzetta di Amsterdam del 1° aprile 1757 dà del supplizio subìto pochi giorni prima da un tal Damiens, parricida: tenaglie gli strappano brani di carne; nelle ferite così aperte vengono versati piombo, pece e zolfo fusi; poi è smembrato; i suoi pezzi vengono bruciati; le ceneri sono sparse al vento.
È uno degli ultimi supplizi che, nei secoli precedenti, un po dappertutto in Europa, si sono tenuti sulla pubblica piazza: pochi decenni ancora – dice Foucault – e «il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, [sarà] scomparso» da quella piazza, perché «la meccanica esemplare della punizione [ha dintanto] muta[to] i suoi ingranaggi: la giustizia non si addossa più pubblicamente la parte di violenza che è legata al proprio esercizio», e, «per effetto di questo nuovo ritegno scrive, dando qui esemplare saggio di cosa sia il «metodo genealogico» di cui è debitore a Nietzsche – tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori».
Certo, ora la pena mostra «meno crudeltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto, maggiore “umanità”», ma è solo perché, insieme al dispositif punitif che la somministra, è mutato «loggetto stesso dell’operazione punitiva»: «non è più il corpo, è l’anima» («alla espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità»). Diremmo che ora il comandamento non si accontenta più di sanzionare la sua violazione, ma vuole essere inciso a fondo in chi lha violato, vuole che il condannato labbia impresso in sé per sempre, che in lui possa essere leggibile a tutti.
Scorrono le pagine, si chiude il primo capitolo (Il corpo del condannato), si apre il secondo (Lo splendore dei supplizi), e il lettore si aspetta che da un istante allaltro, come allegoria di questo dispositif, gli si pari innanzi lApparat, la Maschine, che In der Strafkolonie di Franz Kafka uccide il condannato dopo avergli inciso a fondo nella carne, per dodici lunghe ore, il comandamento che ha violato. Non accade.
Per meglio dire: accade, ma a posteriori. Accade, cioè, che il racconto di Kafka appaia foucaultiano, per esempio, a Edson Passetti (Kafka-Foucault, sem medos – Ateliê Editorial, 2004), a Stefano Marchesoni (Parrhesia e forma-di-vita Nóema, IV-1, 2013), a Micaela Latini (Scrivere la colpa Baig VII, febbraio 2014), a Davide Racca (Nota al testo per la sua traduzione del racconto – Zona Contemporanea, 2015), a Nicolas Bareït (Reading Kafka after Foucault: “In der Strafkolonie” – Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, II, 2, 2016), a Gabriella Calcagno (La condanna di avere un corpo – operavivamagazine.org, 6.4.2016), ad Alessandro Baccarin (Colonia penale archeologiafilosofica.it, luglio 2017), e chissà a quanti altri, sfuggiti alla mia peraltro rapida ricerca, che ha mosso i passi dal constatare che anche in chi ha più fatto uso della «cassetta degli attrezzi» di Foucault qui in Italia – e parlo di Giorgio Agamben – non vi è alcun cenno a In der Strafkolonie: lungo le 1367 pagine che raccolgono la sua produzione (Homo sacer. Edizione integrale 1995-2015 – Quodlibet, 2018), Kafka viene citato una dozzina di volte, senza che mai neppure un cenno richiami il suo racconto.
Come mai? Non per un rigetto della chiave allegorica come metodo danalisi, evidentemente, perché Agamben la usa spesso, e Kafka non gliene offre poche: con Der Prozeß, con Vor dem Gesetz, con Die Acht Oktavhefte, perfino con i Briefe an Milena. Impensabile, poi, che non abbia letto In der Strafkolonie o che, avendolo letto, possa averlo trovato allegoricamente inerte.
Stessa cosa può dirsi per Foucault, che Didier Eribon ci dice leggesse Kafka «enthusiastically», per giunta in tedesco, accomunato a lui dallinteresse per «the same topics, including alienation, institutional power, the phenomenon of the body, death and authorship, the limitations of literature and language» (Michel FoucaultTheory and Society, XXII, 3, 1993).
Se poi torniamo a Surveiller et punir, dove abbiamo già visto che il dispositif punitif ha una «meccanica» e degli «ingranaggi», troviamo che Foucault insiste pure sulla sua natura «tecnica», tiene a sottolineare che ha lo scopo di essere «marchiante», che il procedimento cui dà vita ha una modalità «rituale», che la sua azione vuole essere «clamorosa»: non vi è piena corrispondenza con la descrizione che Kafka ci dà della Maschine? Dando per scontato che non si tratti di un atto mancato per rimozione, cosa rende inservibile a Foucault (e ad Agamben) lallegoria kafkiana? Per cercare una risposta occorre spostare lattenzione dalla Maschine alla vicenda che le si consuma dattorno. Ma prima, forse, è il caso di chiarire perché fin qui si è preferito parlare di allegoria piuttosto che di metafora.
Entrambe, infatti, si servono dellanalogia per dare unimmagine concreta a unastrazione, ma, a differenza della metafora, lallegoria concretizza questa immagine su un piano che non è quello del mero sensibile: lallegoria mira ad animare lanalogia, a darle una struttura razionale, a conferirle movimento in un contesto narrativo (apologo, favola, mito, parabola), sicché sul piano dellargomentazione, dove è spesa come figura retorica, ovviamente allo scopo di persuadere, lallegoria regge dove la metafora cade. Ma regge se il contesto narrativo le consente il movimento. Bene, la Maschine di Kafka regge come metafora, ma come allegoria cade a tre quarti del racconto, e probabilmente è per questo che Foucault e Agamben rinunciano ad evocarne limmagine: funziona come un dispositif solo fino a un certo punto, poi non più.


2. La Maschine – ha spiegato l’ufficiale al visitatore – «è uninvenzione del nostro vecchio comandante. Io ho collaborato ai primi esperimenti e poi presi parte a tutti i lavori, fino alla fine. Il merito dellinvenzione, però, spetta solo a lui. Ha sentito parlare del vecchio comandante? No? Ebbene, non credo di esagerare, affermando che lorganizzazione di tutta la colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, cui è nota la complessa organizzazione della colonia, ci rendemmo conto, alla sua morte, che il successore, anche con mille nuovi piani in testa, per parecchi anni non avrebbe potuto cambiare nulla di ciò che era stato fatto. Le nostre previsioni si sono avverate: il nuovo comandante ha dovuto riconoscerlo».
L’ufficiale è, così, garante di una organizzazione di cui la macchina è solo lemblema. Quando infatti il visitatore chiede se il condannato conosca la condanna, l’ufficiale risponde: «Inutile comunicargliela, la conoscerà sul suo stesso corpo»; e quando gli si chiede: «Ma saprà almeno che è stato condannato?», risponde: «Neppure questo»; e ancora, incalzato riguardo a come il condannato abbia avuto modo di potersi difendere: «Non ha avuto nessuna possibilità di difendersi»; e chiarisce: «La cosa sta così. Nella colonia penale, nonostante la mia giovane età, svolgo le funzioni di giudice, perché ho sempre collaborato col vecchio comandante in tutte le questioni disciplinari, e conosco la macchina meglio di ogni altro. Il principio secondo il quale io giudico, è questo: la colpevolezza è sempre indubbia. Altri tribunali non possono seguire a questo principio, perché sono composti da diverse persone, e sono sottoposti a istanze superiori. Ciò non avviene qui o almeno non avveniva quando cera il vecchio comandante. Quello nuovo ha provato a intervenire nella mia attività di giudice, ma finora sono riuscito a tenerlo lontano, e spero di riuscirci anche in seguito».

Il dispositif ha la stessa impenetrabile trama del disegno che nella macchina fa da guida allerpice che incide nella carne del condannato il comandamento che egli ha violato: tanto è intricato il primo, quanto evidente dovrà essere il secondo, ma cè una ratio che sostiene la relatio, ed è quella del potere cieco, ab-soluto, che fa da primum movens alla catena gerarchico-burocratica che lo amministra. «Lautorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto», ci avverte Carl Schmitt (Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft, 1950), ma Max Weber ci fa presente che «lesercizio di ogni dominazione, che esiga unoperazione continua di amministrazione, ha bisogno da un lato dellazione umana sottoposta agli ordini di coloro i quali pretendono di essere investititi del potere legittimo, e, dallaltro, di disporre, mediante questa subordinazione, [...] di un corpo di amministratori e dei mezzi materiali per lamministrazione» (Politik als Beruf, 1919). Lufficiale incarna appunto questa inderogabile istanza: è Apparat non meno di quanto lo sia la macchina. Ma cosa accade nel racconto di Kafka?
«Il processo e lesecuzione che lei ha loccasione di ammirare dice lufficiale al visitatore – non trovano più, nella nostra colonia, un solo aperto sostenitore. Io sono il loro unico difensore e insieme lunico legatario delleredità del vecchio comandante». Col nuovo comandante è tutta unaltra storia, lufficiale ne è cosciente, e sa cosa aspettarsi. «Ieri le ero vicino, quando il comandante la invitò. Sentii le parole dinvito. Conosco il comandante, capii subito a cosa mirava. Benché abbia autorità sufficiente per agire contro di me, ancora non ha avuto il coraggio di farlo. Vuole invece sottopormi al suo giudizio, al giudizio di un illustre straniero. Il calcolo è sottile: lei si trova nellisola da due giorni, non conosceva il vecchio comandante né il suo modo di pensare; ragiona secondo i princìpi europei, magari è un deciso avversario della pena di morte in generale e di simili esecuzioni meccaniche in particolare [...] Considerato tutto questo, pensa il comandante, è molto probabile che lei non approvi il mio procedimento. E se non lapprova, continua a pensare il comandante, non passerà la cosa sotto silenzio, perché lei è un uomo che ha il coraggio delle sue opinioni. Ha visto e imparato a rispettare i costumi di molti popoli, non si esprimerà contro questo procedimento con la violenza di cui darebbe prova nel suo Paese: ma il comandante non chiede tanto. Basta lasciarsi andare una parola di sfuggita. Non è necessario che risponda alle sue convinzioni, basta che sembri favorire la sua tesi. Sono sicuro che linterrogherà ricorrendo ad ogni astuzia. [...] Lei dirà, mettiamo: “Da noi la procedura è diversa”, oppure: “Da noi si usa interrogare laccusato, prima di condannarlo”, oppure: “Da noi ci sono altre pene oltre a quella di morte”, oppure: “Da noi le torture sono esistite solo nel medioevo”. Considerazioni, ai suoi occhi, tanto rispondenti a verità quanto naturali, considerazioni inoffensive, che non toccano il mio sistema. Ma come le interpreterà il comandante? Mi sembra di vederlo, il buon comandante, respingere la sedia e correre al balcone [...], mi sembra di sentire la sua voce: “Un grande esploratore dellOccidente, incaricato di studiare lordinamento giudiziario dei vari paesi, ha detto un momento fa che i nostri provvedimenti giudiziari sono inumani. In seguito al giudizio di una tale personalità non mi è più possibile, naturalmente, tollerare questa procedura. Da oggi in avanti ordino...”. [...] Arrivati a questo punto, le chiedo: mi appoggi nei confronti del comandante!».

L’appoggio che l’ufficiale chiede al visitatore è in apparenza anodino, ma in realtà mira a depotenziare la funzione di pretesto che il visitatore può dare al comandante: «Io non le chiedo di mentire, nemmeno per idea. Basta che lei risponda con poche parole, per esempio: “Sì, ho visto lesecuzione”, oppure: “Sì, ho ascoltato tutte le spiegazioni”. Solo questo, niente di più». Ma il visitatore si dichiara indisponibile: «Sono un avversario di questa procedura. Prima ancora che lei mi provasse la sua fiducia, fiducia di cui non abuserò in nessun caso, mi ero chiesto se avevo diritto di intervenire contro questa procedura, e se il mio intervento aveva una probabilità, sia pur minima, di successo. Non avevo dubbi sulla persona alla quale dovevo prima rivolgermi: era il comandante, naturalmente. Lei mi ha solo confermato nel mio convincimento, ma, ripeto, ero deciso in precedenza: lonestà delle sue idee mi tocca, anche se non può distogliermi dal mio proposito. [...] Dirò al comandante il mio pensiero sulla procedura, non in una riunione, ma a quattrocchi», con ciò sottintendendo: eviterò che ciò che penso possa essere usato contro la procedura (offrendomi al comandante come pretesto per abolire ciò che fin qui non ha voluto abolire pur avendone il potere); ma eviterò anche che ciò che penso possa essere usato in favore di essa (facendo in modo che la mia indifferenza costituisca un ulteriore freno).
È qui che la possibile allegoria implode, con una delle improvvise e sconvolgenti torsioni che Kafka imprime così spesso alla sua narrazione: lufficiale grazia il condannato e, dopo aver riprogrammato il comandamento che lerpice dovrà incidere (stavolta è «Sii giusto»), si stende sul lettino della macchina e le dà avvio. Ma qui, allimplosione dellallegoria corrisponde lesplosione della macchina, dalla quale quasi subito schizzano fuori ad una ad una le ruote degli ingranaggi, fino a quando «lerpice si alzò di fianco, con il corpo trafitto, come faceva soltanto nella dodicesima ora». Così, «il movimento conclusivo [quello programmato a scaricare il cadavere nella fossa destinata ad accoglierlo] non riuscì, il corpo non si staccò dai lunghi aghi; il sangue continuava a fluire, e quello rimaneva sospeso nella fossa, senza cadere. Lerpice sembrò voler tornare nella sua posizione normale, poi, quasi sentisse di non essere ancora liberato del suo carico, rimase sopra la fossa»; e lì il cadavere resta, inchiodato allApparat cui era tanto affezionato, con un comandamento inciso addosso che il sangue non consente di leggere.


3. Pare evidente che non è questo il modo in cui funziona un dispositif punitif: non si ha contraddizione interna al suo impianto; la linea gerarchico-burocratica che lo amministra non ha inerzie; a un ufficiale addetto al suo funzionamento non capiterà mai un infortunio da arroseur arrosé. Come metafora, la Maschine funziona; come allegoria, no. E probabilmente è questa la ragione per la quale in Foucault (e in Agamben) non se ne ha traccia.




* Come molte altre immagini riprodotte su questo blog, anche questa è tratta da una pagina Internet (https://www.nazioneindiana.com/wp-content/2015/08/Descrizione-del-dispositivo.jpg): qualora la sua riproduzione violasse eventuali diritti dautore, prima di far calare lerpice, si abbia la grazia di comunicarmelo (luigicastaldi@gmail.com) e sarà prontamente rimossa.