«Sapeste la sorpresa e l’emozione che si
provano nel
ricevere a casa propria un’inaspettata lettera di un Papa»
Piergiorgio
Odifreddi (la Repubblica, 24.9.2013)
«Buongiorno, Santità, sono sconvolto, non
m’aspettavo
che mi chiamasse… Posso abbracciarla per telefono?»
Eugenio
Scalfari (la Repubblica, 1.10.2013)
Alcuni
giorni fa mi sono intrattenuto sulla πολεμική τέχνη, ho detto che può essere
considerata come la continuazione del duello con altri mezzi, ma che, col
differire il fine di annichilire il nemico in quello di dimostrare che l’avversario
ha torto, perde l’equipollenza geometrica che ha col duello nel punto della
contestabilità dell’esito, perché l’argomentazione ha un limite insuperabile
rispetto a quello della forza bruta, che sta nell’aleatorietà del suo successo,
sicché puoi avere i migliori argomenti contro chi ne ha di pessimi, e usarli nel
modo migliore, ma questo non ti assicura affatto che la vittoria ti sia
riconosciuta da chi è stato chiamato ad arbitrare la contesa, tanto meno
dal soccombente, se pure chi
arbitra la contesa l’abbia dichiarato sconfitto: a colpi di randello non c’è
discussione, in tutti i sensi.
Oggi
vorrei soffermarmi su quello che in buona evidenza è un paradosso: se deporre
il randello per impugnare l’argomento è da considerare un salto qualitativo sul
piano antropologico, com’è che il nuovo strumento si rivela meno efficace del
vecchio? La logica che muove l’evoluzione, qui, non è in favore della soluzione
migliore? In altri termini: abbiamo deciso di rinunciare all’inequivocabilità
dell’esito di un contenzioso risolto a colpi di randello solo per ridurre il
numero di teste fracassate? Se così fosse, si dovrebbe dedurre che la logica
che informa l’evoluzione, qui, mira a salvare teste piuttosto che a selezionare
quelle migliori. D’altra parte, non sarebbero quelle migliori ad essere
selezionate grazie al randello. E dunque: a cosa mira questa evoluzione?
Levandole
il connotato teleologico che qui le abbiamo appioppato solo per dare un
significato motivazionale a quella che abbiamo chiamato «logica», potremmo dire
che sostituire argomento a randello sposta l’arbitrato dalla
«natura»
alla
«società»
(e
metterle tra virgolette come ho fatto con «logica» mi auguro lasci intendere il
connotato che appioppo ai due termini).
La polemica come continuazione del duello con altri mezzi, infatti, ha il suo
prodromo storico nel duello che si svolge nell’arena, dinanzi a un pubblico. Quando
il pubblico comincia a cambiare, l’arena si trasforma in piazza e poi in foro
tribunalizio: a quel punto il salto è compiuto, e il duello affida l’esito del
cimento a un’opinione
«sociale» che si arroga una prerogativa prima «naturale». Siamo al punto in cui il duello, ormai già polemica, è sotto la stessa norma che informa l’opinione pubblica del momento storico in cui si consuma la contesa: non può che consumarsi entro la sfera in cui è la stessa opinione pubblica a darsi norma. La retorica, qui intesa come tecnica dell’argomentazione, diventa lo strumento che nel formare un’opinione pubblica pre-giudica il contenzioso, sicché la polemica comincia a diventare sempre più spesso il modo per saggiare la forza dei contendenti sul piano della
«logica» che informa
la «società»: le teste fracassate dai randelli cedono il passo agli argomenti che hanno il difetto di essere poco persuasivi.
Qui credo che non sia superfluo ripetere ciò che ho scritto in un altro post. Un buon
argomento –
scrivevo –
deve essere corretto, valido e persuasivo; è corretto quando poggia
su premesse incontestabili, valido quando non incorre in tautologie o
contraddizioni, persuasivo quando risulta efficace. Non basta che sia solo
efficace, dunque, a renderlo buono, perché la persuasività si può ottenere
anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che
prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza; né basta che sia valido,
perché il rispetto della logica proposizionale non assicura un risultato
accettabile partendo da false premesse; tanto meno basta sia corretto, perché
anche partendo da premesse autoevidenti si può arrivare a conclusioni errate
alterando il procedimento attraverso il quale l’argomento viene a costruirsi. (Sul fatto che la «bontà» del «buon» argomento non debba intendersi come qualità
morale, e perché, e cosa implichi il fatto, rimando al post in questione.) Il punto sul quale credo sia utile soffermarsi è che un argomento, pur valido e corretto, non è detto che sia necessariamente persuasivo. A costo di tediare il mio lettore, ripeto ancora:
la persuasività si può ottenere
anche con argomenti viziati da errori logici più o meno ben dissimulati o che
prendono le mosse da premesse salde solo in apparenza. E di cosa «vive» il «sociale», se non di quelle premesse che riescono ad apparire ben salde in un determinato contesto storico? Cosa
«muove»
il «sociale», se non la ricerca della più convincente dissimulazione dell’utile nel giusto, del senso comune nel vero e dell’acconcio nel bello?
Il luogo in cui si consuma la polemica, dunque, ne prefigura in buona misura
l’esito. E le tesi che scendono nell’agone, ancorché male argomentate, non vi scendono mai sguarnite dell’arma persuasiva che i contendenti ritengono più forte. Perciò
– scrivevo –
l’argomentare racconta storia e carattere di chi argomenta, non già del Logos che si incarna in chi ne racconta l’incarnazione: la teoria dell’argomentazione non è l’esegesi di una narrazione mitica, ma il tentativo di decostruire la metafisica. E cosa vuoi decostruire del cattolicesimo, cretino, se nell’accingerti a polemizzare con un Papa ti sdilinguisci in carinerie?
[...]
Questo è il commento che ho inviato a Odifreddi sul suo blog, in relazione all'argomento del post. Ovviamente, non ha ricevuto risposta.
RispondiElimina24 settembre 2013 alle 17:52
@–>Prof. Odifreddi
Ahi, ahi, ahi, Chiarissimo Professore.
Alla fine, s’è trovato un posto in banca pure Lei