Tutta
strumentale, da parte di Matteo Renzi, la scelta di Sergio Mattarella: pensata
per quello che doveva provocare, e in buona misura ha provocato, ma come sempre
accade per chi ha un’agenda svelta e corta, fitta di calcolo e di azzardo, malaccorta sugli effetti a distanza, che in questo caso saranno irrimediabili, il rischio incombe. Sarà un
nome che spariglia, Sergio Mattarella, senza dubbio, ma nel caso andasse al
Quirinale, e a questo punto è probabile che perfino i voti di Silvio Berlusconi
finiranno per unirsi a quelli di Nichi Vendola, sarebbe davvero un Presidente
della Repubblica comodo per Matteo Renzi? È in sonno da anni, questo è vero, ma
c’è indizio che faccia credere sia diverso da quello che è sempre stato? È un
moroteo, tutt’altra cosa che un fanfaniano. Ed è un professorone. Ha un’idea
della politica che è l’esatto contrario di quella fin qui mostrata da chi lo
candida a garante dell’unità nazionale: crede nella mediazione, nella
concertazione, e come tutti i democristiani che sono nati e cresciuti nell’Azione
Cattolica ha della sua missione politica una concezione quasi ieratica. In più,
è uno che crede nella Costituzione così com’è, ha palesato in più occasioni,
ancorché implicitamente, un animus ostile – garbatamente, ma fermamente ostile –
ad ogni forma di decisionismo, sempre in favore di scelte che in ambito partitico
e istituzionale privilegiassero il momento collegiale. Il Presidente della
Repubblica che può maggiormente somigliargli è un Oscar Luigi Scalfaro: se
provo a immaginare che tipo di rapporto ci sarebbe stato, nei passaggi istituzionali
che abbiamo avuto nell’ultimo anno, tra un tal genere inquilino del Quirinale e
l’attuale inquilino di Palazzo Chigi, vedo solo attriti e scintille. Credo,
insomma, che Matteo Renzi sarà il primo a pentirsi di essere riuscito ad
ottenere una maggioranza parlamentare su Sergio Mattarella, se ci riuscirà.
venerdì 30 gennaio 2015
giovedì 29 gennaio 2015
[...]
Quanto
il potere abbia capacità di subornare anche chi sembrerebbe dover essere del
tutto immune alle sue lusinghe, non già per l’aver fama di sapersene schermire,
ma perché ultimo tra quanti ci si aspetterebbe possa esserne fatto oggetto, ci
è esemplarmente dimostrato dalle dichiarazioni rilasciate da Magalli riguardo alla
sua candidatura al Quirinale che alcuni buontemponi hanno provocatoriamente lanciato
in rete, riuscendo a farne una felice parodia di plebiscito: Magalli sa che non
potrà mai essere Presidente della Repubblica, sa che si è trattato di uno
scherzaccio, ma pare seriamente intenzionato a prendersi quanto pensa che l’occasione
gli abbia offerto, e si mette a capo di un fantomatico partito che lo avrebbe
eletto a leader con un mandato ben preciso: denunciare la ridda che impazza
attorno alle elezioni per mandare al Quirinale chi torni utile alla Casta: in
sostanza, tirato in mezzo da sagoma di cartone, si mette a fare l’outsider.
Voilà, corrotto.
mercoledì 28 gennaio 2015
[...]
Un
po’ presuntuosetto, Tommaso Campanella: non a «pugnar», che già sarebbe da titano, ma addirittura a «debellar», certo di vincere. Sappiamo come andò: più
volte sottoposto a tortura, decenni e decenni di prigione, «tirannide, sofismi,
ipocrisia» più rigogliosi dopo che prima. E tuttavia campò più a lungo di
Torquato Accetto, quello che consigliava la dissimulazione, ancorché onesta.
martedì 27 gennaio 2015
[...]
Non
ha senso ricordare la Shoah ogni 27 gennaio senza aver ben chiaro chi siano
quelli che oggi compirebbero lo stesso crimine, o lascerebbero si compisse, poco
importa quanto soddisfatti o quanto indifferenti, tutt’al più cavillando se
siano stati sterminati ebrei, giudei o israeliti. Dura da millenni, cambiano le
facce, i moventi dichiarati e quelli reali, soprattutto cambiano i metodi, l’antisemitismo si fa mimetico, ma
il tentativo di annientarli non cede. Senza aver ben chiaro chi siano, è meglio
non commemorare niente.
[...]
«Di
fronte al fenomeno dell’autoproclamato Stato Islamico e al numero di coloro che
lasciano l’Europa per sposare il fanatismo omicida, l’Occidente dovrebbe fare
un serio esame di coscienza e chiedersi il perché di questo arruolamento
violento e suicida. Perché? Una ragione è che un certo islamismo fondamentalista
riempie il vuoto nichilista dell’Occidente. L’anima di un uomo, come di un
popolo e di uno Stato, non si può riempiere di dubbi e di cose materiali:
queste sono necessarie, ma non danno senso alla vita. Il senso si trova su un
piano diverso, qualitativo. Il mondo occidentale ha svuotato la coscienza collettiva
di valori spirituali e morali soffocandola di cose, ma non di bene, di verità e
di bellezza».
Probabilmente crede davvero in ciò che dice, il cardinale Angelo Bagnasco, qui nella sua ultima prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. Non possiamo esserne del tutto sicuri, perché quella qui esposta è la tesi che la macchina propagandistica ruiniana ha confezionato all’indomani dell’11 settembre 2001, e da allora non s’è avuto modo di rivederla, non se n’è trovata una meno sciatta. Può darsi, dico, che Sua Eminenza ripeta quello gli hanno dato da ripetere, ma in fondo sappia che è tesi rozza. D’altro canto, non è mai stato testa, ma solo braccio, dunque può darsi non lo sappia, può darsi ritenga sia davvero una spiegazione ragionevole del fenomeno, o può darsi che a forza di ripeterla abbia finito per crederci: «coloro che lasciano l’Europa per sposare il fanatismo omicida» lo fanno perché in occidente il cristianesimo non è più centrale; lo fosse ancora, non partirebbero per arruolarsi nelle milizie islamiste; giacché «l’anima di un uomo, come di un popolo e di uno Stato, non si può riempiere di dubbi e di cose materiali», togli il cristianesimo, e lasci spazio all’islam, anzi no, a «un certo islamismo fondamentalista». Regge?
Può reggere, ma solo se il cristianesimo, quello che trabocca «di bene, di verità e di bellezza», è alternativo al «fanatismo omicida», e viceversa: chi cerca l’uno, e non lo trova, si risolverebbe a cercare l’altro, trovandolo. Così equipollenti, dunque, «per l’anima dell’uomo»? Ma, poi, davvero non è dato, a chi voglia, essere un buon cristiano in una società che abbia «svuotato la coscienza collettiva di valori spirituali e morali»? In altri termini, occorre che questi valori nutrano la coscienza collettiva perché possano nutrire la coscienza di un individuo che altrimenti non trova adeguate motivazioni ad essere un buon cristiano e diventa un feroce islamista? Ma allora costui non cerca valori: cerca una società in cui dei valori, non importa quali, siano collettivamente condivisi, necessariamente condivisi. Costui non cerca un certo tipo di credo religioso, cerca un certo tipo di società. Cerca una società in cui è la fede a dare la cittadinanza: in realtà, dunque, non cerca una società, ma un’umma. E si può ben capire che, non trovando in occidente lo stato organico, lo stato etico, la società cristianamente intesa come corpo mistico, cerchi altrove e ovviamente possa trovare ciò che cerca solo nel peggior islam. E non è meglio perderlo, uno così?
Probabilmente crede davvero in ciò che dice, il cardinale Angelo Bagnasco, qui nella sua ultima prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. Non possiamo esserne del tutto sicuri, perché quella qui esposta è la tesi che la macchina propagandistica ruiniana ha confezionato all’indomani dell’11 settembre 2001, e da allora non s’è avuto modo di rivederla, non se n’è trovata una meno sciatta. Può darsi, dico, che Sua Eminenza ripeta quello gli hanno dato da ripetere, ma in fondo sappia che è tesi rozza. D’altro canto, non è mai stato testa, ma solo braccio, dunque può darsi non lo sappia, può darsi ritenga sia davvero una spiegazione ragionevole del fenomeno, o può darsi che a forza di ripeterla abbia finito per crederci: «coloro che lasciano l’Europa per sposare il fanatismo omicida» lo fanno perché in occidente il cristianesimo non è più centrale; lo fosse ancora, non partirebbero per arruolarsi nelle milizie islamiste; giacché «l’anima di un uomo, come di un popolo e di uno Stato, non si può riempiere di dubbi e di cose materiali», togli il cristianesimo, e lasci spazio all’islam, anzi no, a «un certo islamismo fondamentalista». Regge?
Può reggere, ma solo se il cristianesimo, quello che trabocca «di bene, di verità e di bellezza», è alternativo al «fanatismo omicida», e viceversa: chi cerca l’uno, e non lo trova, si risolverebbe a cercare l’altro, trovandolo. Così equipollenti, dunque, «per l’anima dell’uomo»? Ma, poi, davvero non è dato, a chi voglia, essere un buon cristiano in una società che abbia «svuotato la coscienza collettiva di valori spirituali e morali»? In altri termini, occorre che questi valori nutrano la coscienza collettiva perché possano nutrire la coscienza di un individuo che altrimenti non trova adeguate motivazioni ad essere un buon cristiano e diventa un feroce islamista? Ma allora costui non cerca valori: cerca una società in cui dei valori, non importa quali, siano collettivamente condivisi, necessariamente condivisi. Costui non cerca un certo tipo di credo religioso, cerca un certo tipo di società. Cerca una società in cui è la fede a dare la cittadinanza: in realtà, dunque, non cerca una società, ma un’umma. E si può ben capire che, non trovando in occidente lo stato organico, lo stato etico, la società cristianamente intesa come corpo mistico, cerchi altrove e ovviamente possa trovare ciò che cerca solo nel peggior islam. E non è meglio perderlo, uno così?
[...]
«Il voto per il Quirinale non è un referendum su
di me o sul governo», dice Matteo Renzi. Del voto per le Europee diceva la
stessa cosa, prima, ma è da otto mesi che spaccia quel 40,8% come un plebiscito
che lo legittimi a Palazzo Chigi, come non fosse noto come ci sia arrivato e
con quali mezzi ci resti. Farà lo stesso col Quirinale: se riuscirà a piazzarci
chi vuole, si intesterà la vittoria come l’ennesimo voto di fiducia strappato a
un Parlamento sotto ricatto. Bugiardo, sleale, arrogante, quintessenza di
volgarità e di supponenza, Matteo Renzi è il peggio che potesse capitare a
questo paese, che naturalmente se lo merita. Peggio di Silvio Berlusconi? Senza dubbio.
lunedì 26 gennaio 2015
Un omaggio all’innocenza
Vabbe’ che sono uno cui piace molto stare a
casa. Poi, certo, c’è che solo raramente leggo le pagine di cronaca locale ed è
già tanto se guardo un Tg Campania a settimana. Voglio dire: ammetto che non
sono molto attento a quello che accade quotidianamente nella città in cui vivo,
ma com’è possibile che a Napoli si sia tenuto un Forum Universale delle
Culture, sia durato un anno intero, ed io non ne abbia saputo niente? C’è una
spiegazione: il Forum c’è stato, ma è come se non ci fosse stato. Recupero dal
blog di Maria Lorenzi, Presidente della Commissione Cultura e Turismo del
Comune di Napoli, tutte le informazioni necessarie: l’evento è stato
organizzato a cazzo di cane, preceduto da sanguinose faide interne alle forze
politiche presenti in Consiglio Comunale e da un logorante braccio di ferro tra
Comune, Provincia e Regione su chi dovesse metterci le mani sopra, rimandato di
mesi rispetto alla data che era stata stabilita per l’apertura, presto ridotto
a un mucchietto di appuntamenti di scarsissimo interesse, senza un progetto che
desse loro un’articolazione decente, insomma, la solita occasione sprecata,
nella migliore delle ipotesi per incompetenza, nella peggiore per poterci
rubacchiare sopra. Andate a porgere una parola buona alla Lorenzi, fatemi ’sto
favore, ché se la merita. Nata in Piemonte e vissuta nel Veneto – recita la
scheda autobiografica – la signora è venuta a Napoli nel 1976 e, anche se vi è
restata il necessario per capire come vadano le cose da queste parti, si è
prestata alla politica con tanta buona volontà, probabilmente illudendosi di
poter essere utile. La sua amarezza ha un che di tragico e di nobile, e la sua
pertinacia sa di onestà e di coraggio. Se non le spareranno per come insiste a
chiedere un resoconto di come sono stati spesi milioni e milioni d’euro per un
Forum che ha lasciato come traccia solo qualche minuscola cagatina di mosca,
alle prossime elezioni, non importa in quale lista sarà candidata – se sarà
candidata – le do il mio voto. Un omaggio all’innocenza.
[...]
Francamente assurde, le pretese di Raffaele
Fitto. Sembra gli sfugga la ragione prima e ultima di Forza Italia, partito che
è proprietà privata di Silvio Berlusconi, fondato per tutelare i suoi
interessi. Lamenta «una resa incondizionata ai diktat di Matteo Renzi»,
Raffaele Fitto, e sembra non aver chiaro che il sì di Silvio Berlusconi a ciò
che Matteo Renzi chiede potrà far perdere altri voti a Forza Italia, forse, ma
torna utile a Silvio Berlusconi, senz’alcun dubbio. Il sì all’Italicum, col
premio di maggioranza attribuito alla lista e non più alla coalizione, coi
cento capilista bloccati: Raffaele Fitto lamenta che questo significa rendere
insignificante l’opposizione di Forza Italia, peraltro limitando enormemente il
numero dei deputati eletti con le preferenze. Appunto, no? Chi in Forza Italia
può contare su un consenso personale, per aver radicato bene sul territorio, lo
piglierà in culo e abbasserà la cresta. Un numero di parlamentari forzisti
assai più esiguo, poi, sarà un problema solo apparente: saranno sempre
abbastanza per tornar utili a Matteo Renzi, se le opposizioni interne al Pd
dovessero minacciare di far venir meno la maggioranza parlamentare. Raffaele
Fitto sembra non voler capire che, per tornare utile a chi ne è proprietario, un
partito non ha bisogno necessariamente di vincere le elezioni. Basta che torni
utile, meglio se indispensabile, a chi va al governo. Il patto del Nazareno, in
fondo, non è che questo: Silvio Berlusconi sfrutta al meglio la crisi di
consenso, e Matteo Renzi non può che accontentarlo, per poter fare del Pd un
partito personale, in cui le opposizioni interne contino meno di quello che
contano adesso, contino quanto Raffaele Fitto conta in Forza Italia. Se
stupisce che Raffaele Fitto non l’abbia capito, stupisce ancora di più non l’abbia
capito Daniele Capezzone, cui non dovrebbero essere ignote le logiche di un
partito personale: dovrebbe sapere che agli interessi personali del leader che
è proprietario del partito si può e si deve sacrificare tutto, anche il
consenso elettorale. Passi per Raffaele Fitto, che sembra non capirlo, e si
muove come un signorotto della Dc dei tempi andati: per Daniele Capezzone è
lecito pensare si tratti di stupidità, stupidità senza speranze.
domenica 25 gennaio 2015
«Che pretendi?», ho detto
L’odio è un sentimento
che si è soliti infamare, ma per mera convenienza, per quel debito di ipocrisia
che ci accolliamo per essere accettati in società. Non lo infamiamo solo per
offrire agli altri la faccia più gradevole, quella mansueta, quella non
pericolosa: quello che ci costringe a dire che siamo incapaci di odiare, o
almeno che evitiamo, e sempre con piacere, senza sforzo, fino al paradosso di
dichiarare che odiamo l’odio, è il fatto che, quando non produce gli effetti
voluti, spesso assai al di sopra delle nostre forze, l’odio rivela un nostro fallimento,
rendendoci ridicoli, e in società il ridicolo uccide. Questo accade pure con l’amore,
ma l’amore si accontenta d’essere ricambiato, mentre l’odio è sempre più
esigente, spesso chiede l’impossibile, soprattutto fa più fatica dell’amore ad
arrendersi, anzi, nel non trovare soddisfazione s’invigorisce, e non è affatto
raro che per trovare ristoro si ritorca su chi odia, infliggendogli una doppia
sconfitta, dunque rendendolo ancor più ridicolo. Chi odia, insomma, rischia di
più, molto di più. Si finisce per risolversi a non odiare, il che è disumano,
sennò a dissimulare l’odio al meglio, per lo più sublimandolo. Conveniente,
senza dubbio, ma profondamente ingiusto. C’è sempre un prezzo da pagare nel
rinunciare all’odio e spesso è sempre più salato del ridicolo che ci si procura
odiando senza riuscire a produrre gli effetti voluti. L’odio è un sentimento
forte, bello, nobile, tragico come tutti i sentimenti, e come tutti i
sentimenti va curato, certo, ma non corrotto.
Ogni
tanto prendo a caso uno dei tanti quadernetti riempiti in gioventù e rileggo
qualche pagina. Quella che ho ritrascritto qui sopra, mettendo solo un poco d’ordine
alla punteggiatura, reca la data del 6 luglio 1980: l’ho riletta stamane,
fumando la prima sigaretta della giornata. Ero più saggio allora, ho pensato. Forse
un po’ più goffo, com’è naturale quando si ha solo poco più di vent’anni, ma senza
dubbio assai più saggio. Nel fondo, mi son chiesto, queste cose non le pensi
anche adesso? E saresti capace di scriverle esattamente come le scrivevi allora?
Vabbe’, mi son risposto, che ci vuole? Copio e pigio «invia». E così mi ero
ripromesso di fare, ma poi all’ultimo momento ho constatato che in calce avevo
scritto «6.7.1980»: una vigliaccheria, tentavo di dissociarmi.
«Hai
visto?», m’ha chiesto il ventitreenne di allora. «La pensi come me, ma non
riesci a sottoscrivere quello che ho scritto senza prendere le distanze. E che
distanze! Ci metti in mezzo sette lustri e così salvi la faccia, fellone!».
«Che
pretendi?», ho detto.
«Che
ti prendi la tua parte di ridicolo: spara il nome di uno che odi. Ma di uno che
odi veramente, fino alla tua ultima cellula. Uno che, potendo, ti lavoreresti
di rasoio e fiamma ossidrica per secoli e secoli».
«Mi
vergogno», ho detto.
Mi
ha riso in faccia e ha detto: «Vabbe’, lasciamo perdere. Rimettimi nello
scaffale e cerca di non venire più a rompere il cazzo».
sabato 24 gennaio 2015
Al netto
Pensate
un attimo alla differenza che, almeno sulla carta, sta tra un matrimonio
religioso, che è un sacramento, e cioè un «segno
sensibile ed efficace della grazia, istituito da Cristo per la santificazione
dei fedeli», e un matrimonio civile, che invece è un negozio giuridico, e cioè
un «atto mediante il quale il privato è
autorizzato dall’ordinamento giuridico a regolare interessi individuali nei
rapporti con altri soggetti». Differenza enorme, senza dubbio, ma appunto
solo sulla carta, perché basta mettere a confronto Codice di Diritto Canonico e Codice
Civile per constatare che i diritti dei coniugi sono pressoché simili, e
così i doveri, sia quelli reciproci, sia quelli verso i figli. Ad
evitare che quanto affermo sollevi contestazioni, ripeto: diverso il
significato che i due codici danno al matrimonio, diverso l’apparato normativo
che ne regola la fattispecie, ma il carico dato ai coniugi è sostanzialmente lo
stesso, e ovviamente parlo dei codici attualmente vigenti.
Differenza enorme, tuttavia, sembrerebbe esservi nel fatto che il matrimonio religioso è indissolubile e quello civile no, ma anche qui solo sulla carta, mentre sul piano pratico l’annullamento, previsto dal Codice di Diritto Canonico, dà effetti sostanzialmente simili a quelli del divorzio, previsto dal Codice Civile. Cosa consenta il divorzio a chi si sia sposato con un matrimonio civile è noto, e altrettanto cosa consenta l’annullamento a chi si sia sposato con un matrimonio religioso: anche qui, sulla carta, sembrerebbero esservi enormi differenze, però, con una sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a riconoscere i casi in cui a uno o a entrambi i coniugi sarebbe mancata la consapevolezza riguardo agli impegni derivanti da un matrimonio religioso al momento di contrarlo, all’annullamento sia arriva anche più in fretta che al divorzio. In entrambi i casi, Chiesa e Stato prendono atto che quei due non possono più vivere sotto lo stesso tetto, e il fatto che la Chiesa ci aggiunga che non avrebbero mai potuto, perché il matrimonio è sempre stato nullo, fa differenza, certo, e anche bella grossa, soprattutto per quello che riguarda gli strascichi, ma in sostanza gli effetti finiscono per essere coincidenti. Anche qui: diverso il significato che i due codici danno al fatto che due coniugi non debbano più essere considerati tali, diverso l’apparato normativo che regola il come ci si arrivi, ma il carico dal quale vengono liberati è lo stesso. Anche qui: se parliamo dei codici attualmente vigenti.
Su quanto segue, invece, mi aspetto forti obiezioni. Affermo, infatti, che la sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a dichiarare la nullità di un matrimonio non sia altro che il tentativo – quanto conscio non saprei, ma azzarderei non troppo – di rendere competitivo il matrimonio religioso rispetto a quello civile: nell’impossibilità di poter rivedere il vincolo di indissolubilità, la Chiesa viene incontro alla crescente difficoltà di tenere in piedi un matrimonio religioso con la disponibilità a considerarlo nullo, poi vai a capire quanto entri in gioco la misericordia e quanto la santissima cazzimma. I matrimoni religiosi validi, dunque, sarebbero quelli che si mantengono in piedi, gli altri non lo sarebbero mai stati: un modo come un altro per ribadire il primato del matrimonio religioso in quanto sacramento.
Di qui il frequente tornare di Bergoglio sulla necessità che la Sacra Rota agevoli nei tempi e nei costi i procedimenti di annullamento: più sarà chiaro che il matrimonio religioso offre una via d’uscita più agevole del divorzio, più facile sarà invertire la tendenza che da decenni lo vede sempre meno favorito rispetto a quello civile. Anche in questo, come per il resto, Bergoglio rincorre il secolo, e con strumenti relativamente efficaci. Solo relativamente, però, perché, come per il resto, rischia grosso. Se, infatti, come ha affermato ieri, «il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata [perché] questa eventualità non va più ritenuta eccezionale come in passato, data la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa», la validità di un matrimonio religioso resta confermabile solo a posteriori, cioè se nessuno dei coniugi solleva la questione della sua invalidità col dichiarare l’esistenza a priori di una «riserva mentale circa la stessa permanenza dell’unione, o la sua esclusività». C’è bisogno di indicare dove si annidi l’insidia alla fede stessa?
Differenza enorme, tuttavia, sembrerebbe esservi nel fatto che il matrimonio religioso è indissolubile e quello civile no, ma anche qui solo sulla carta, mentre sul piano pratico l’annullamento, previsto dal Codice di Diritto Canonico, dà effetti sostanzialmente simili a quelli del divorzio, previsto dal Codice Civile. Cosa consenta il divorzio a chi si sia sposato con un matrimonio civile è noto, e altrettanto cosa consenta l’annullamento a chi si sia sposato con un matrimonio religioso: anche qui, sulla carta, sembrerebbero esservi enormi differenze, però, con una sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a riconoscere i casi in cui a uno o a entrambi i coniugi sarebbe mancata la consapevolezza riguardo agli impegni derivanti da un matrimonio religioso al momento di contrarlo, all’annullamento sia arriva anche più in fretta che al divorzio. In entrambi i casi, Chiesa e Stato prendono atto che quei due non possono più vivere sotto lo stesso tetto, e il fatto che la Chiesa ci aggiunga che non avrebbero mai potuto, perché il matrimonio è sempre stato nullo, fa differenza, certo, e anche bella grossa, soprattutto per quello che riguarda gli strascichi, ma in sostanza gli effetti finiscono per essere coincidenti. Anche qui: diverso il significato che i due codici danno al fatto che due coniugi non debbano più essere considerati tali, diverso l’apparato normativo che regola il come ci si arrivi, ma il carico dal quale vengono liberati è lo stesso. Anche qui: se parliamo dei codici attualmente vigenti.
Su quanto segue, invece, mi aspetto forti obiezioni. Affermo, infatti, che la sempre maggiore disponibilità dei tribunali ecclesiastici a dichiarare la nullità di un matrimonio non sia altro che il tentativo – quanto conscio non saprei, ma azzarderei non troppo – di rendere competitivo il matrimonio religioso rispetto a quello civile: nell’impossibilità di poter rivedere il vincolo di indissolubilità, la Chiesa viene incontro alla crescente difficoltà di tenere in piedi un matrimonio religioso con la disponibilità a considerarlo nullo, poi vai a capire quanto entri in gioco la misericordia e quanto la santissima cazzimma. I matrimoni religiosi validi, dunque, sarebbero quelli che si mantengono in piedi, gli altri non lo sarebbero mai stati: un modo come un altro per ribadire il primato del matrimonio religioso in quanto sacramento.
Di qui il frequente tornare di Bergoglio sulla necessità che la Sacra Rota agevoli nei tempi e nei costi i procedimenti di annullamento: più sarà chiaro che il matrimonio religioso offre una via d’uscita più agevole del divorzio, più facile sarà invertire la tendenza che da decenni lo vede sempre meno favorito rispetto a quello civile. Anche in questo, come per il resto, Bergoglio rincorre il secolo, e con strumenti relativamente efficaci. Solo relativamente, però, perché, come per il resto, rischia grosso. Se, infatti, come ha affermato ieri, «il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata [perché] questa eventualità non va più ritenuta eccezionale come in passato, data la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa», la validità di un matrimonio religioso resta confermabile solo a posteriori, cioè se nessuno dei coniugi solleva la questione della sua invalidità col dichiarare l’esistenza a priori di una «riserva mentale circa la stessa permanenza dell’unione, o la sua esclusività». C’è bisogno di indicare dove si annidi l’insidia alla fede stessa?
venerdì 23 gennaio 2015
[...]
In
Isole, il secondo dei capitoli di Caro Diario, c’è uno straordinario Renato
Carpentieri che interpreta Gerardo, «un amico
[di Nanni Moretti] che si è ritirato
lì [a Lipari] undici anni fa [e
che] da allora sta studiando solamente l’Ulisse
di Joyce». Gerardo vanta con orgoglio di non guardare mai la tv («Mai, sono trent’anni che non la guardo più»),
ma è accompagnando l’ospite in un giro per le Eolie, alla ricerca di un’isola
in cui poter lavorare in pace, che incappa in una puntata di Beautiful che fatalmente lo incanta da
un televisore acceso a bordo di un traghetto. Un Ulisse che cede al canto delle
Sirene, potremmo dire. In un niente, Gerardo diventa teledipendente, al punto
che alla fine dell’infruttuosa ricerca del posto giusto dove trovare un po’ di
concentrazione, approdando ad Alicudi, «l’isola
più lontana, l’isola più selvaggia», dove non arriva l’energia elettrica e
dunque neanche la tv, è preso da una violenta crisi d’astinenza, e fugge via, imprecando
contro Enzensberger e Popper: ma quale zero-medium,
ma quale unftaithful servant, la tv è
l’Omero dei tempi moderni.
Calcando
un po’ la mano, com’è naturale quando si vuole pungere sul vivo, Brunella mi ha
paragonato a Gerardo per l’attenzione che durante le vacanze di fine anno ho
dedicato alle dodici puntate di Gomorra,
la serie televisiva tratta dall’omonimo volume di Roberto Saviano, andata in
onda l’anno scorso su Sky Atlantic e
da me allora fieramente snobbata. È cominciato coll’incappare in una parodia
della saga dei Savastano (The Jackal),
la curiosità m’ha portato all’originale (su Youtube
ho trovato tutte le puntate della prima serie) che ho letteralmente divorato
con godimento non inferiore a quello provato qualche anno fa, quando m’incapricciai
della Congiura dei Pazzi sprofondandomi nella lettura di tutto ciò che ne era
stato scritto. Quando poi sono passato a colmare un’altra enorme mia lacuna tra
i fondamentali, guardando tutte le puntate della prima e della seconda serie di
Romanzo criminale, che fino a quel
punto avevo sempre evitato anche di striscio, ho avuto serio conflitto interno
e, temendo di scivolare sempre più in basso, semmai arrivando ai Sopranos, ad House of Cards e Dio solo sa a cos’altro, ho messo fine all’andazzo,
mi sono ricomposto e per punizione mi sono inflitto la rilettura dell’Estetica di Benedetto Croce.
E
però bisogna dirlo, Stefano Sollima è un gran figlio di puttana. Come sirena,
dico, ha un canto ammaliatore niente male. Un poco ti vergogni a dire che sa
cucinare intingoli da farti sbavare, anzi, te ne vergogni assai, ma, quando
capisci che devi cominciare a vergognarti, è tardi: l’hai fatto e t’è piaciuto.
E allora ti castighi considerando che «l’arte
contemporanea, sensuale, insaziabile nella brama dei godimenti, solcata da
torbidi conati verso una malintesa aristocrazia che si svela ideale voluttuario
o di prepotenza e crudeltà, sospirando talora verso un misticismo, che è
altresì egoistico e voluttuario, senza fede in Dio e senza fede nel pensiero,
incredula e pessimistica, e spesso potentissima nel rendere tali stati d’animo,
quest’arte che i moralisti vanamente condannano, quando sia poi intesa nei suoi
profondi motivi e nella sua genesi, sollecita l’azione, la quale non volgerà
certo a condannare, reprimere o raddrizzare l’arte, ma a indirizzare più
energicamente la vita verso una più sana e profonda moralità, che sarà madre di
un’arte più nobile di contenuto e, direi anche, di una più nobile filosofia»,
ma poi fanculo Benedetto Croce, che solo per il tempo che ti ha fatto perdere
dovresti spararlo in bocca.
giovedì 22 gennaio 2015
Il royal baby
Troverete
ben poca politica nel libricino scritto da Giuliano Ferrara (Il royal baby, Rizzoli 2014), anche se si
presenta come «breve conversazione sul
nuovo nato», e cioè su Matteo Renzi, a mo’ di instant book sul Patto del Nazareno. In realtà, si tratta di un monologhetto
dal quale si potrebbe trarre il testo d’una pièce teatrale, coll’io narrante in
proscenio e sul fondale, a scorrere, immagini d’archivio, quelle sì tratte
dalla cronaca politica, da quella più recente a quella che ormai data trent’anni.
La politica, insomma, sta dietro il discorso, che qui non è lectio e non è oratio, anche se assume la maniera qua dell’una e là dell’altra: va
in scena il caso umano, il personaggio che tira le somme della propria
esistenza, nella quale la politica – più che altro, i suoi rumori – hanno fatto
da colonna sonora.
In questo senso, l’incipit è onesto: «A me è necessaria la politica. Non posso vivere senza i suoi
travestimenti, le frodi, l’impostura, i segreti […] Non posso vivere senza
l’imprevisto, l’inimmaginabile, il callido. Ho bisogno della legge bronzea,
della forza che dispiega l’intelligenza di una cause célèbre, la controversia,
il bagno di odio metaforico, la violenza della rottura costruita con il compromesso
necessario». Della politica, in buona evidenza, qui si descrive l’atto, non
già il fatto – d’altronde non è escluso che per Giuliano Ferrara la politica
possa ritenersi puro atto (ovviamente cosa un po’ diversa dal gentiliano «atto puro», ma non troppo distante) – e
tuttavia che il fatto abbia una sua ratio,
di cui l’atto non è che rappresentazione, ci era sembrato non gli sfuggisse in
pagine più seriamente meditate, come nella prefazione a Scrittura e persecuzione di Leo Strauss (Marsilio, 1990) o in
quella a La saggezza della fronda. Massime
del Cardinale di Retz e di François de La Rochefoucauld (Giuseppe Laterza,
2001). Qui, no.
Qui, come in una fin de
partie, sembra che la categoria del politico
(schmittianamente inteso) riduca amico
e nemico a mere marionette di un
teatrino, svilendo la tragedia a dramma, a comédie
humaine, mentre l’Ausnahmezustand si
contrae in un eccitato stato d’ansia, che ci si sforza di sentire stuzzicante. Quanto possano aver giocato i recenti
problemi di salute e la severa dieta alimentare cui è stato sottoposto (al
momento con buoni risultati, nell’ultimo anno deve aver perso almeno venti
chili) è questione che andrebbe approfondita, sta di fatto che in questo
libricino (poco più di 120 pagine, di 21 righe ciascuna, per 50 battute a riga:
su Il Foglio sarebbe entrato tutto in
tre paginoni di inserto) c’è solo una patina di dottrina, e ad un colpetto d’unghia
salta, rivelando che sotto c’è solo umore, e solo in apparenza buono. Anche dove parrebbe dispiegarsi un metodo, nel tentativo di costruire un sistema, tutto abortisce nella provocazione, nel gusto un po’ malato di scandalizzare: «Quel
che serve non è un Paese migliore […] Quel che serve è una rete di interessi
corporativi combinati, che non esclude patti trasversali e inconfessabili
doppi, tripli giochi, sempre nascosti dietro la fiera denuncia dei patti col
demonio stipulati dagli avversari del momento». Così quando sembrerebbe stia prendendo avvio un ragionamento sulla natura del potere in era postdemocratica: «La leadership personale [...] è questo: non ci sono più partiti come sistema, non c’è un ceto produttivo e borghese, non c’è l’intellighenzia, non c’è la classe con la sua rappresentanza, il populazzo è come in Guicciardini “mille
volte uno pazzo”, si muove flessuoso tra un’elezione e l’altra, è disponibile all’avventura, al fidanzamento, non appartiene più, non resta che la persona, l’uomo solo al comando di se stesso che prova a manovrare il consenso diffuso dell’interdizione del mugugno, dell’influenza e della furbizia». Bene, e dunque? «In questo, Renzi, allievo naturale del suo venerato predecessore, è ben piazzato». Stop.
Nulla del
trattatello, dunque, anche se di tanto in tanto il tono fa il verso all’encomiastica
di certi scrivani del XVI e del XVII secolo, che tra un inchino e l’altro
infilavano un consiglio. C’è tanto di quell’io, in questo libricino, che Silvio
Berlusconi e Matteo Renzi sembrano maschere, e maschere sembrano i tanti citati
nelle ultime 20 pagine, dove l’io si veste addirittura di terza persona, per
una breve autobiografia che cede alla celebrazione e pecca di pesante
autoindulgenza, sebbene un po’ attenuata da qualche gigionismo e tante
strizzatine d’occhio. Per chi conosce i fatti come davvero sono andati (Pino
Nicotri, L’arcitaliano Giuliano Ferrara,
Kaos 2004), questa storiella, che negli ultimi dieci anni ci è stata riproposta
almeno cinque o sei volte, sembra un training autogeno. Così con Matteo Renzi,
che poi «non è nemmeno il mio tipo», ma è
che «volevo un vendicatore di questi vent’anni
[e] l’ho avuto». Non gli è difficile
convincersi che può dirsi soddisfatto del film che ha visto: ha vociato durante
la proiezione, la trama ha preso la piega che voleva, esce dal cinema con la
sensazione di aver concorso alla sceneggiatura. Non gli è difficile,
soprattutto, presentare Matteo Renzi come figlio naturale di Silvio Berlusconi:
stessa tecnica d’un Marco Travaglio, ovviamente rovesciando il segno.
Nulla di
nuovo, dunque, si tratta di un libricino pressoché inutile. Prezzo di copertina
15 euro, scontato del 25% già a due settimane dall’uscita, a presto sulle
bancarelle degli invenduti a 2 euro. Se volete comprarlo, vi conviene aspettare.
[...]
Guarda
un po’ a cosa ci riduce, l’andazzo dei tempi: siamo costretti a trovare sennate,
addirittura bene argomentate, perfino ottimamente espresse, le ragioni di un
Paolo Cirino Pomicino. Certo, conviene chiudere un occhio sulle cause che trova all’andazzo (tutto sarebbe dovuto allo smarrimento di una democristiana arte di governo) e alle soluzioni che prospetta (ci vorrebbe il presidenzialismo, ancorché con opportuno sistema di contrappesi), ma l’analisi non è corretta?
martedì 20 gennaio 2015
[...]
Tu dici: «In teoria,
possiamo dire che una reazione violenta davanti a una offesa o a una
provocazione – in teoria, sì – non è una cosa buona, non si deve fare. In
teoria, possiamo dire quello che il Vangelo dice: che bisogna dare l’altra
guancia». Ora, non è per impiccarti alle parole, che pure, essendo papa,
dovresti calibrare bene prima di lasciarle uscir di bocca, ma tu, nell’intervista
concessa all’andata, hai detto testualmente
che un cazzotto dato a chi ti offendesse mamma è «normale». Non so se a Buenos Aires il termine ha un significato
diverso, ma in italiano significa «regolare», «esemplare», «conforme», «logico», ed estensivamente «umano»,
«naturale», «comune». Tutto ciò, oggi, lo poni in antitesi alla «teoria» del
messaggio evangelico, e allora, scusa, fammi capire: starai mica a dire che, sul
come si deve reagire ad un’offesa, il Vangelo ci dà un precetto illogico,
innaturale e disumano? Sarai mica nietzchiano o anche stavolta ne hai sparate due così, tanto per dire, e ti son venute a carajo de perro?
Ma procediamo. Tu aggiungi: «In teoria, possiamo dire che abbiamo la libertà di esprimerci. E
questo è importante. Sulla teoria siamo tutti d’accordo, ma siamo umani e c’è
la prudenza, che è una virtù della convivenza umana. Io non posso insultare, provocare,
una persona continuamente perché rischio di farla arrabbiare, rischio di
ricevere una reazione non giusta. Ma è umano, quello». Anche qui,
consentimi, non ti seguo proprio. Tu dici che abbiamo libertà di esprimerci, e
su questo non puoi immaginare quanto io ti stimi, pensando a quelle merde dei
tuoi predecessori che sulla libertà di espressione avevano idee un pochino
diverse. Non so se ad ammettere che gli uomini abbiano la libertà di esprimersi
tu ci sia arrivato da solo o non abbia avuto bisogno di qualche aiutino da quei
pensatori che fino allo scorso secolo finivano all’Indice, ma qui non è il caso
di stare a sottilizzare: sappiamo che a suon di bastonate il mulo impara. La questione è un’altra: è che anche qui tu dici «in teoria», e solo per creare un’antitesi
tra ciò che è giusto «in teoria» e
ciò che «normalmente», «umanamente», smette d’esserlo. Fino a
quando lo fai con il Vangelo, cazzi tuoi. Ma affermare che la libertà di
espressione sia una cosa bella, buona e giusta, ma che debba fare i conti con
chi non lo pensa, e che a conti fatti debba trovare il modo di reprimersi sennò è «normale» debba aspettarsi una reazione violenta, beh,
non ci siamo proprio.
Non corro il rischio di averti capito male, perché
tu dici testualmente: «Per questo dico
che la libertà di espressione deve tener conto della realtà umana e perciò dico
che deve essere prudente». Sarà reticenza tutta ovattata, ma in
sostanza tu dici che, se con la mia libertà di espressione io do fastidio ad
uno che non la tollera, io devo rinunciarvi, sennò è «normale» ch’io mi pigli il cazzotto che chi è contrario alla mia
libertà di esprimermi possa ritenere giusto, a suo parere, io mi pigli. Dico: per caso usi un aereo che ha problemi di pressurizzazione?
Di là della questione posta in
generale, tuttavia, resta un problema: che fine fa il cazzotto che qualche
giorno fa tu minacciavi di dare a chiunque offenda tua madre? Voglio dire: tu sei
per la «teoria» che insegna il
Vangelo o per quella che a te pare «normalità»
se riferita a ciò che definisci «umano»?
In altri termini: quando parlavi di tua madre, il «tu» eri davvero tu o era un «tu»
impersonale? Essendo papa, non è questione da poco. Perché mettiamo che
domattina io mi svegli e decida di esprimere una libera opinione su tua madre o
sulla tua fede, che a torto o a ragione tu possa recepire come offesa, mi pare
sia fondamentale sapere se mi aspetta in risposta la «teoria» evangelica o la «normalità»
dell’uomo che si lascia andare a una «risposta
non giusta». Bada bene: la «risposta
non giusta» potrebbe essere «normale»
in risposta a qualcosa che risulti offesa a te, ma che in realtà lo sia solo a
voler dare per scontato, contro ogni «teoria»,
che la mia libertà di espressione debba fermarsi dinanzi a ciò che tu ritieni intangibile
al mio giudizio, se non positivo.
Ti faccio un esempio, via. Metti caso che domani, a reti unificate, sento dirti le solite cose, quelle indimostrabili, che o ci credi o no: che Dio esiste, che si è incarnato in un uomo detto Gesù, il quale è nato da una vergine che è rimasta tale dopo il parto, la quale l’avrebbe concepito senza aver avuto rapporti sessuali, e che ’sto Gesù poi è morto, ma è risorto, insomma, Bergo’, le solite cose, che a te sembreranno cose serie, ma a me fanno un po’ ridere e un po’ girar le palle. Bene, ho libertà di esprimermi e dire che sono stronzate? Comprendo che tu possa sentirla come offesa, ma dove va a finire la mia libertà di espressione se non ho il diritto di dire ciò che penso riguardo a ciò che tu ti senti in dovere di dire? Che fai, mi sferri un pugno come farebbe un islamista che ha lasciato a casa il kalashnikov o abbozzi? Capisci bene che la differenza è grossa, e
sta nel capire se giustifichi la «risposta
non giusta» in nome di un’«umanità» che ti apparenta all’islamista.
Ma tu
dici: «La prudenza è una virtù umana che
regola i nostri rapporti. Io posso fino a qui, di qua, di là. E questo volevo
dire, che in teoria siamo tutti d’accordo, c’è la libertà di espressione, una reazione
violenta non è buona, è cattiva sempre, tutti d’accordo, ma nella pratica fermiamoci
un po’, perché siamo umani e rischiamo di provocare gli altri. Per questo la
libertà deve essere accompagnata dalla prudenza. Quello volevo dire».
Perfetto, però ti rendi conto che, con questo bizzarro modo di intendere la
prudenza, il limite che separa il «di qua»
dal «di là» può deciderlo solo chi
eventualmente possa dare anche una «risposta non
giusta»? Ce n’è di che ritenere offensiva la sola presenza di un cristiano in terra d’islam,
e bruciarlo vivo sarebbe certamente una «risposta
non giusta», «in teoria», mentre
la prudenza necessaria consisterebbe, per il cristiano, nel fare bagagli e andare via: stride un
po’ col dichiararlo martire, se resta e lo bruciano vivo, non ti pare? Che facciamo in
questo caso: gli diamo dell’imprudente? A mio modesto avviso, Bergo’, hai le
idee assai confuse, come d’altronde è inevitabile accada quando si pretende di
trovare la quadra tra logica e senso comune, tra dottrina e vita,
tra principi e cazzi propri.
Così con la questione dei figli, che a farne
troppi il cristiano smetterebbe d’essere pecora, come dovrebbe, e diverrebbe
coniglio. A parte il fatto che un tizio con quattro, sei o dieci figli potrebbe
a buon diritto ritenersi offeso, scordarsi per un attimino ogni «teoria» e, consentendosi una «risposta non giusta», però «umana», sferrarti un cazzotto in piena
faccia: grondando sangue dal naso rotto, te la sentiresti di dire che tutto è
dovuto ad una tua imprudenza? Bergo’, fattelo dire: sei una frana.
lunedì 19 gennaio 2015
[...]
Molta
più gente fuori il Pirellone, a contestare, che dentro, al convegno di omofobi
già ampiamente pubblicizzato, le scorse settimane, da altre contestazioni. Legittimo
contestare queste merdacce, ma contestandole si fa loro il gran favore di
enfatizzarne la visibilità, per giunta consentendo possano assumere posa da
vittime. Comprendo quanto sia difficile non reagire a un certo tipo di
provocazioni, ma farlo è proprio quanto nel calcolo di queste insopportabili facce da
schiaffi. L’arma davvero micidiale è ignorarle del tutto, ma se si è miti, e ci
si accontenta di infliggere loro qualche ferita, può bastare il coro: «Sce-mi!
Sce-mi!». Senza rabbia, però, con un sorriso largo. Niente di più che «Sce-mi! Sce-mi!», e si vaporizzano in pochi mesi.
domenica 18 gennaio 2015
Una proposta
Ogni
volta che c’è da mandarne uno nuovo al Quirinale, è sempre la stessa storia: da
chi ha il pieno controllo su consistenti pacchetti di deputati e senatori a chi
non controlla bene nemmeno i propri sfinteri, tutti a puntare su un Presidente
della Repubblica di proprio gradimento. È umano, sia chiaro, ma l’esperienza
insegna che questo genere di scommessa è quasi sempre persa in partenza, e
tuttavia nessuno sembra capace di rinunciarvi. Non io. Fosse per me, ad
esempio, previo ritocco dell’acconciatura, al Quirinale manderei Luciano
Canfora, ma su di lui non scommetto neanche un euro, neanche avanzo la
proposta: un Presidente della Repubblica deve rappresentare l’unità nazionale e
un paese come questo non può affatto essere rappresentato da una persona tanto intelligente,
retta e signorile. La mia proposta è un’altra, ed è proposta che invece di
rincorrere i miei gusti personali vuol essere un concreto aiuto a chi tra
qualche giorno sarà chiamato a decidere: propongo Francesco Rutelli, che non ho in alcun
conto, né come uomo, né come politico, ma che – qui e ora – mi sembra il
candidato perfetto. Bella presenza. Cattolico. Amico di quasi tutti, ma non troppo. Mai avuta un’idea in vita sua, il che infonde tanta serenità. Da qualche tempo ai margini della vita
politica, il che fa tanto super partes. Uno splendido pendant tra due corazzieri, pensateci.
Insomma, signori deputati, signori senatori, rinunciando ad ogni personale gradimento, pensando unicamente al bene supremo della nazione, io propongo lui. A chi di voi avesse qualche dubbio faccio presente che, a
differenza di Romano Prodi, Giuliano Amato, Pietro Grasso e tutti gli altri
nomi che circolano in questi giorni, Francesco Rutelli sarebbe capace di
starsene buono buono per sette anni, tra vasellame e arazzi, senza colpi di
testa o entrate a gamba tesa. Pensate, poi, a una first lady come la
Palombelli.
venerdì 16 gennaio 2015
giovedì 15 gennaio 2015
Mamme
Bergo’,
io non conosco tua madre, quindi non posso parlarne, né male, né bene. Certo,
una mezza idea ce l’ho – me la son fatta proprio oggi, sai?, e grazie a te, grazie a
quella sparata da gradasso di suburra – però, ripeto, non la conosco e sospendo
il giudizio. Mettiamo caso, tuttavia, la conoscessi, avessi prova certa che da
giovane ne abbia combinate d’ogni genere e che oggi sia una vecchiaccia petulante
e ipocrita, un decrepito bagascione che si dà arie da gran signora, una pazza
fottuta che vaneggia senza posa per giunta pretendendo ossequio, pensi che
dirtelo in faccia sarebbe farti offesa? Sì, capisco, la mamma è sempre la mamma,
e poi tu vieni da uno di quei paesi dove la mamma, prima di essere la mamma, è
un’istituzione, un feticcio che concentra in sé ben altro, capisco che la
sentiresti come offesa e, almeno per quanto mi riguarda, sta’ sereno, io non
aprirei bocca. Tutt’è a intenderci, però, su un punto che a mio modesto avviso
è essenziale. Se tu una mammina così te la tieni chiusa in casa, nulla
quaestio. Se però la porti in giro, e la esibisci con orgoglio pretendendo che
tutti la considerino la migliore donna al mondo, e quando apre bocca vuoi che
tutti stiano a sentirla come fosse la quintessenza della saggezza, beh, fattelo
dire, fanculo a te e a tua madre: mi prendo la libertà di dire che lei è quello
che è e che tu sei suo degno figlio.
Oh, sia chiaro, metto in conto che tu mi
possa tirare il cazzotto che minacciavi oggi a chiunque ti sfiori mamma, ma tu
metti in conto il fatto che io mi possa difendere e romperti il culo. Poi ci
sarebbe un’altra questione, collaterale ma strettamente conseguente. Ad avere
una mamma impresentabile potresti non essere da solo. Qualcuno come te,
convinto che la sua sia la migliore mamma al mondo, potrebbe ritenere che
tenerla chiusa in casa sia proprio un peccato, che sia giusto portarla in giro,
sotto braccio, dicendo a tutti: «Questa è la mia mamma, donna eccezionale, pozzo
di sapienza e vetta di bontà. Fatele l’inchino, offritele dei fiori, ditele che
è bella, buona e tanto, tanto, tanto intelligente». Capisci bene dove sorga il
conflitto, no? A consentire questo a figli come voi, si sprecherebbero le occasioni
di fare a pugni, e a passare dai pugni al coltello quanto ci vuole? E dal
coltello alla pistola?
Ovviamente
si allegorizza, Bergo’, d’altronde quando dicevi «mamma» intendevi dire «credo»,
no? Bene, allora si dà il caso che su tua madre io non possa dire nulla, ma sul
tuo credo sì, e anche su quello dei terroristi che hanno fatto fuori la
redazione di Charlie Hebdo, ai quali oggi hai offerto una ragione di legittimo risentimento.
Oh, sì, hai detto che uccidere per difendere l’onore della propria mamma non è
bello, non si fa, ma occorre fare proprio a te la lezioncina sulla natura della
violenza, cazzotto o pallottola che sia? Credi davvero si possa far tutta
questa differenza – torno all’allegoria – tra quella gran zoccola di tua madre
e quella degli islamisti? Hai fatto cenno a quando era giovane: «Pensiamo alla
nostra storia – hai detto – quante guerre di religione abbiamo avuto! Pensiamo
alla notte di San Bartolomeo! Anche noi siamo stati peccatori su questo, ma non
si può uccidere in nome di Dio, questa è una aberrazione». Uccidere no, dunque,
o almeno non più, però cazzotti sì. E, di grazia, a cosa equivarrebbero i
cazzotti a chi fa satira mettendo a nudo le vostre mamme?
domenica 11 gennaio 2015
[...]
La
Costituzione recita che «il sistema tributario è informato a criteri di
progressività» (art. 53), dunque qualsiasi norma che non ne tenga conto è
incostituzionale, com’è nel caso di una legge che fissi per tutti i contribuenti,
indipendentemente da quale sia il loro reddito, la stessa soglia di rilevanza penale
alla percentuale di reddito evaso. Così è per l’art. 19 bis del decreto sul
fisco che il Governo annuncia per il 20 febbraio, e non sorprende che a rivendicarne
la paternità sia lo zotico che lo presiede, né che per farlo sfoggi la faccia di
cazzo con quale solitamente intende rappresentarci la fierezza d’essere zotico.
Ma
la Costituzione recita pure che spetta al Presidente della Repubblica «autorizza[re]
la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo [ed]
emana[re] i decreti aventi valore di legge» (art. 87). Così, il 20 febbraio, vedremo
il nuovo Presidente della Repubblica alla sua prima prova di garante della
Costituzione.
[...]
Gli
avanzi di banlieue che sublimano in jihad il proprio disagio esistenziale trovano
i loro migliori alleati in quanti ce li dipingono come avanguardie dell’attacco
che da qualche tempo l’islam avrebbe mosso all’occidente giudaico-cristiano. Si
dovrebbero portare in tribunale come complici dei terroristi, questi stronzi,
non importa se in buona o cattiva fede.
venerdì 9 gennaio 2015
Coda
Molte
email di protesta, alcune accompagnate da insulti, mi costringono a tornare su
quanto ho scritto in morte di Pino Daniele.
Se
uno ama la città in cui è nato, la lascia solo è costretto a farlo. La
lontananza gli causa nostalgia. Vi ritorna ogni volta gli sia possibile, anche
se solo per poco. Nulla di tutto questo nel caso di Pino Daniele. Lasciò Napoli
per sua scelta, appena ebbe modo di comprarsi una casa altrove. Su quella
decisione non tornò mai indietro, né diede modo di fare intendere gli fosse dolorosa.
Andò a vivere ad appena due ore di auto da Napoli, ma per anni e anni evitò di
metterci piede. Ancora nel 1993 diceva di non volervi neppure tenere un
concerto e, quando nel 1998 si decise a farlo, nelle due settimane di
preparazione all’evento, la sera preferiva tornare a dormire a Sabaudia. Poi,
certo, tutto sta nel metterci d’accordo su cosa significhi Napoli. La
sfogliatella di Scaturchio? Il Cristo velato del Sanmartino? Totò e il ragù? E
allora sì, possiamo dire che Pino Daniele amasse Napoli. Se invece per Napoli
intendiamo la stragrande maggioranza dei napoletani – il minimo comune multiplo
e il massimo comun divisore di quei vizi morali che ne fanno il carattere
trasversale alla più lercia plebe, alla più vile borghesia, alla più fatiscente
nobiltà – non possono esserci dubbi: Pino Daniele non la sopportava, non la
sopportava affatto. E teneva a marcare le distanze: «Io non sono figlio di
Napoli… È un popolo che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello» (Corriere
del Mezzogiorno, 3.6.2011). Più di tutto, odiava come questa Napoli le si
stropicciasse addosso e coi funerali in Piazza Plebiscito ha pagato con
interessi salatissimi l’averla tenuta a debita distanza. Quando diceva: «Io amo
e odio Napoli», parlava di due Napoli diverse: la prima era la città che non
avrebbe mai avuto il bisogno di lasciare, quella che forse immaginava fosse
esistita un tempo, e chissà quando, o quella che avrebbe potuto finalmente essere
(fidava in Antonio Bassolino, povero Pino Daniele!); la seconda era quella
reale, a cominciare dalla famiglia di provenienza. Coi funerali in Piazza
Plebiscito a Pino Daniele è stata inflitta la punizione che era impossibile
infliggergli da vivo: mummificarlo in icona della napoletanità, quel tappeto
sempre più logoro sotto il quale si continuano a nascondere secoli di sporcizia.
Un altro comodo pretesto di fierezza per gente che forse, e dico forse, avrebbe
una pur minima speranza di riscatto nel cominciare col vergognarsi di se stessa.
giovedì 8 gennaio 2015
«Non siamo e non saremo mai domati»
L’intervista
concessa da Vincenzo Gallo, in arte Vincino, a Eleonora Martini, per il manifesto di giovedì 8 gennaio, è assai
più divertente di tante sue vignette. «Continueremo
ad essere irriducibili… La satira non si ferma, non è addomesticabile… Seppure feriti gravemente, non siamo e non saremo mai domati…», cose così, come da
scampato per miracolo alla strage consumatasi ieri in rue Serpollet. Cosa abbia
a che fare, l’umorismo di Vincino, con la satira di Charlie Hebdo, difficile capirlo. Quando mai Vincino abbia sfidato chi davvero potesse fargli male, non si
sa. In quanto alla posa da duro e puro, sprezzante di ogni pericolo, che qui culmina
in un intenso «non fai questo mestiere
con la paura», corre alla mente la volta che lo vedemmo chinato a pecora non già davanti a un terrorista islamico, ma a un direttore, non già per aver offeso Allah, ma l’editore.
mercoledì 7 gennaio 2015
[...]
Un’altra
infornata di cardinali dalla quale resta fuori. Sapendo quanto tiene alla
porpora, starà soffrendo anche stavolta come un cane, poveraccio. Indispensabile, perciò, una parola buona. E dunque. Coraggio,
Rino, e sappi che ti son vicino. Se vuoi sfogarti un poco, non fare cerimonie, chiamami, ché due o tre belle bestemmie in circostanze simili sono liberatorie, e a me non fanno né caldo né freddo. Ciao.
martedì 6 gennaio 2015
[...]
Pino
Daniele odiava Napoli, almeno questo è quanto mi confessò nell’estate del 1976,
al termine di un concerto che tenne ad Ischia Ponte, davanti a non più di due
dozzine di spettatori, mi pare che il biglietto costasse tremila lire. Poi, sì,
l’odio è un sentimento ambivalente, e allora possiamo dire pure che l’amasse,
ma tacere dello schifo che provava per i peggiori difetti dei napoletani – basta
leggere come si deve Napul’è, ’Na tazzulella ’e cafè e Terra mia – significa fargli un grosso
torto, piacesse o non piacesse la musica che componeva. Pino Daniele apparteneva
a quella minuscola percentuale di napoletani che di Napoli non sono disposti a
sopportare quella rassegnazione, quel fatalismo, quella strafottenza, quella pusillanimità,
quella furbizia da servi e quel viscido sentimentalismo che taluni riescono
perfino a esibire con orgoglio come un carattere che esige uno statuto di
antica nobiltà: se ne hanno la possibilità, fuggono via, e appena poté farlo
Pino Daniele lo fece. Il fatto che usasse il dialetto napoletano significa poco
o niente, di fatto la sua musica non ha nulla di napoletano, né della tradizione
classica, né di quanto su quella è venuto a imbastardirla, per lo più
caricaturizzandone i tratti. Era un apolide, si era scelto un linguaggio fuori
d’ogni contesto regionale o nazionale, e in quanto al carattere, scontroso com’era,
più che napoletano lo si poteva dire abruzzese, friulano, tutto, ma non
napoletano. Vedere come Luigi De Magistris si avvoltola nel suo sudario, come a
farsene un tabarro, è spettacolo vomitevole. Ancor più, però, lo è il vedere
una città intera che fa finta di piangere – lacrime finte, di quelle vere non è
più capace da secoli – e del morto non aver capito un cazzo.
lunedì 5 gennaio 2015
Quando un’azienda dal marchio prestigioso... / 2
Con
quel «si sa che l’omosessualità è
creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non è naturale e non
è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi» (Il Foglio, 2.1.2015), deve aver avuto
qualche noia, e allora eccolo correre ai ripari. Il nodo della questione è quel
«non è naturale», che suonava come «non è fisiologico», dunque come «patologico», buono solo ad invischiare Il Foglio della merda che tra poco spargerà
La Croce. Ecco, allora, che Ferrara
si affretta a spiegarci la differenza che c’è tra lui e Adinolfi: l’omosessualità
è un peccato, pensare che sia una malattia è «una scemenza col botto», è «intolleranza
ignorante».
Ve l’avevo anticipato già a settembre, rammentate? «Quando un’azienda dal marchio prestigioso
scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti
– scrivevo – all’inizio solitamente
nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione
così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà
dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione
del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno
costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di
qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica
versione della fashion victim. Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre
meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un
problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. […]
È
solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a
farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi» (Quando
un’azienda dal marchio prestigioso... – Malvino,
16.9.2014). Ma era settembre, l’uscita de La
Croce era ancora lontana, e «non
siamo ancora a questo punto – scrivevo – con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in
provincia». Ora, invece, la cosa comincia a diventare imbarazzante, perché
il prodotto contraffatto non si limita a far concorrenza, ma minaccia di
svalutare l’originale. La dinamica di mercato è nota, gli esperti del settore
dicono che ne tocca un buon 20-30%: il rischio, in questo caso, è che l’omofobia
dozzinale di Adinolfi sollevi la questione di quanto veramente valga quella sofisticata
di Ferrara. Perché – avvisavo – «solo a
un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e
barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un
fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa
differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in
nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato [il
parallelo era con le borse di Louis Vuitton originali e quelle contraffatte]. È differenza che al momento si coglie al
primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi».
Si
preoccupa solo alla vigilia dell’uscita de La
Croce, Ferrara, e cerca di recuperare il ritardo, ovviamente con qualche
affanno. Ma quale malattia! L’omosessualità è peccato, sennò tutto è malattia,
e allora «tutti abbiamo bisogno di essere curati e soprattutto di essere
lasciati in pace». E poi, che cazzo, parlarne come di una
malattia non è «riportare la cultura
cristiana e cattolica dentro le ossessioni ideologiche del tempo, mettendo la
psicologia comportamentale e altre bellurie dentro la nuova evangelizzazione»?
E in fondo non erano ricchioni pure Socrate, sant’Anselmo e il cardinale
Newman? «Le tirate di san Paolo contro i
sodomiti sono le benvenute, perché parlano di peccato e non di malattia», ma,
per l’amor del cielo, si eviti «l’irrigidimento
caricaturale e clinicizzante dei materiali culturali non negoziabili che furono
lo stigma d’intelligenza di una lunga stagione cattolica e laica del
contemporaneo». Ecco, qui sta il punto: La
Croce è una caricatura de Il Foglio.
E questo l’avevamo intuito. Quello che ci sorprende è che Ferrara sia assai più
preoccupato di quanto fosse prevedibile aspettarsi. Come se Louis Vuitton volesse
innanzitutto convincere se stesso che il pregio di una sua borsa stia tutta nel
marchio, il che finisce per risultare ingeneroso verso la qualità dei materiali, che in questo
editoriale di lunedì 5 gennaio sono d’altronde esaltati in modo fiacco, quasi stanco. Ma
forse si riuscirà a fare di meglio nei prossimi giorni.
domenica 4 gennaio 2015
Un hombre vertical
18 febbraio 2014 «A
me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. Non posso e non voglio
passare dalla bicicletta all’auto blu»
3 gennaio 2015 «Gli
spostamenti aerei, dormire in caserma, avere la scorta, abitare a Chigi non
sono scelte ma frutto di protocolli di sicurezza»
sabato 3 gennaio 2015
venerdì 2 gennaio 2015
[...]
Tra
i riti che l’ipocrisia impone a chi vuol passare per personcina a modo c’è
quello di piangere sulla chiusura di un giornale, come in morte della libertà
di stampa e del pluralismo dell’informazione, anche quando il giornale che
chiude vendeva pochissime copie e si pappava una montagna di contributi
pubblici. Questo è il caso di Europa:
vendeva 1.500 copie al giorno e in dieci anni ha inghiottito 32 milioni di euro,
davvero vogliamo piangere? Pianga Menichini, via, ché può tornargli perfino
utile togliersi dal muso quel sorriso da furbetto. Noi, che vediamo la zecca
morta cascare giù dal ventre del cane, cerchiamo di essere solidali col cane:
ok, la zecca è morta, e meno male.
«Si sa»
Che
scenda dall’alto o che salga dal basso, la violenza che si fa autorità ha
bisogno di una legittimazione che abbia l’impronta del divino, sennò non regge
a lungo, tanto meno può diventare istituzione. Quando scende dall’alto, viene
da chi, per meriti particolari, anzi, potremmo dire peculiari, Dio avrebbe
investito di un potere speciale, assoggettarsi al quale sarebbe dunque cosa naturale,
visto che è Dio ad aver dato legge alla natura. Ma la regola vale pure per la
violenza che sale dal basso: anch’essa, per legittimarsi come autorità, deve
ammantarsi di divino («vox populi, vox
Dei»). C’è un punto, tuttavia, in cui la violenza che scende dall’alto s’incontra
con quella che sale dal basso per fondersi in quel «si sa» che introduce sia la fallacia ad auctoritatem sia quella ad
populum: «si sa» – dice chi, a
corto di argomenti, vuole infliggerci violenza nella sua forma più insidiosa,
che è quella dell’imbroglio – ma in realtà non si sa la cosa più importante,
cioè donde venga l’autorità dell’affermazione che segue, se da quanto Dio ha
concentrato nelle sentenze dei primi o da quanto ha diluito nei luoghi
comuni degli ultimi. «Si sa», dice, e
in questo modo non è neanche più tenuto a spiegare per quale via la verità gli
esca di bocca. «Si sa», e non si
capisce se quanto segue sia distillato della sapienza cumulata da dinastie di élites
o folgorante scintilla che sprizza del deposito
di buonsenso custodito nei secoli dalla plebe. A meno che non venga usato in
modo ironico – proprio a mettere in discussione l’autorità che non ammette
discussione – guardiamoci dal «si sa».
Esempio
(in coda ad una lunga lista di «si sa»
che stipano un editoriale su Il Foglio
di venerdì 2 gennaio): «Si sa che
l’omosessualità è creativa ed eccitante variante della condizione umana, ma non
è naturale e non è incline a stabilire solidi legami famigliari o educativi».
«Si sa» perché sta scritto nel Levitico o perché da che mondo è mondo si
pestano i ricchioni? Che importa, «si sa»,
e tanto basti a fare argomento.
giovedì 1 gennaio 2015
«L’invenzione di Aristotele»
La
logica è «invenzione di Aristotele»?
Così sull’ultimo numero di Domenica
de Il Sole-24 Ore (pag. 22), per
titolo a un articolo di Hilary Putnam. Titolo che, tutto sommato, non tradisce
il contenuto dell’articolo, nel quale non c’è scritto testualmente quanto nel
titolo, ma che «Aristotele ha inventato
le variabili [predicative]», e che
«ha studiato nei dettagli 256 inferenze
(dette “sillogismi categorici” o semplicemente “sillogismi”)» cui esse
possono dar vita, e che «ha fatto vedere come stabilire quali sono valide (24 lo sono) e quali sono invalide
(la gran parte)», e che così «ha inaugurato
il programma consistente nella creazione di un organo del ragionamento
deduttivo».
Se
la logica è questo, niente da dire. Di fatto, Aristotele preferisce parlare di
analitica, mentre alla logica assegna un significato assai più generico,
talvolta perfino deteriore, assai prossimo a quello che per lui ha la
dialettica: nei Secondi Analitici contrappone il λογικος συλλογισμος a quello
propriamente apodittico, e nei Topici
scrive che poggia su premesse ψευδων ενδοξων
δε come quello dialettico (che nei Primi
Analitici dice composto da προτασεις κατα
δοξαν), mentre in generale svaluta costantemente il λογικων θεωρειν, arrivando a definirlo vacuo (κενον) in Etica Eudemia.
Ma
la logica, poi, è mero dedurre? E, ammesso e non concesso che lo sia, si
possono trascurare gli studi di Lukasiewicz, Perelman, Viano, Calogero, giusto
per citarne qualcuno, che hanno per tempo smantellato la tesi qui riproposta da
Putnam, presa di peso dall’ormai logora lettura di Prantl? Più in generale, e
come sempre quando si ha a che fare con le semplificazioni giornalistiche, è il
caso di affibbiare ad Aristotele, che è del IV secolo avanti Cristo, il titolo
di inventore di una prassi di cui troviamo numerose tracce già nel secolo prima,
e già in Parmenide, già in Eraclito? Come si può ignorare che sotto e dentro la
logica dianoetica c’è la logica noetica?
Speriamo bene per l’anno nuovo
Il
primo pensiero del 2015 non può che andare a quanti stanotte hanno perso una
mano o un occhio per sparare i botti di fine anno. Si tratta per lo più di
poveracci – visto mai il presidente di una banca o l’amministratore delegato di
una multinazionale sparare botti? – e poveracci che per nessuna ragione al
mondo rinuncerebbero a spendere in polvere nera e miccia corta il poco che loro
resta della speranza solitamente spesa in Gratta&vinci. Poveracci due
volte, dunque, ma forse anche due, tre, quattro volte. E a chi rivolgere il
proprio pensiero, quando la retorica del momento preme, se non agli ultimi?
Veniamo
ai penultimi, ché la retorica del momento ancora preme, e cioè ai medici che
ieri sera hanno attaccato il loro turno al pronto soccorso e hanno passato la
notte a rappezzare monconi e a medicare ustioni. Costretti a farlo, prima che
per contratto, per quella nobile ragione che ormai suona come un peto di
Esculapio. A quest’ora staranno tornando a casa, Dio non voglia abbiano un
colpo di sonno al volante, sennò al pronto soccorso non troveranno neanche una
barella.
Terzo
pensiero a quelli che una volta si chiamavano spazzini ed oggi sono operatori ecologici,
che all’ingrato lavoraccio di rimuovere dalle strade tonnellate di cocci di bottiglia
dovranno anche quest’anno aggiungere il deprimente dato Istat che dai balconi
non si butta altro, finiti i tempi in cui si aspettava San Silvestro per liberarsi
di un De Chirico che non s’abbinasse bene al divano.
Quarto
pensiero, in attesa che la retorica del momento scemi, ai migranti sul barcone
di Capodanno che al primo botto sparato a Lampedusa avranno pensato al peggio, il
quinto al povero cardinal Bertone che ora tutti scansano come la peste e avrà
passato la serata solo soletto, giocherellando con il tappo, aspettando invano un
sms da Gianni Letta, e il sesto vada a chi sogna di andare al Quirinale e non
ci andrà.
Un
settimo pensiero vada – no, basta, finita la retorica del momento – il settimo pensiero vada a chi anche quest’anno non è morto e, che cazzo, avrebbe anche
potuto farci il piacere. Speriamo bene per l’anno nuovo.
Glaucoma, probabilmente
Vero
è che «senectus ipsa est morbus», ma nel
suo discorso di fine anno Giorgio Napolitano ha fatto cenno, seppur vago, a
specifiche «limitazioni e difficoltà», dicendole «crescenti»,
sicché è del tutto naturale che uno si chieda quali possano essere. Io tenderei
ad escludere problemi al sistema nervoso centrale, peraltro tanto comuni alla
sua veneranda età: tranne qualche inceppamento nell’eloquio, che capita pure ai
trentenni, m’è sembrato un poco affaticato, ma discretamente lucido. Io direi
si tratti di glaucoma, la patologia che porta a una progressiva riduzione del
campo visivo periferico. In pratica, il soggetto affetto da glaucoma vede bene
solo ciò che è al centro del suo campo visivo, e tutto attorno è come non ci
fosse niente. La cosa dev’essere iniziata fin dal giorno che ha messo piede al
Quirinale, nel 2006, almeno così pare suggerirci quando rammenta che ha sempre
avuto come primario interesse «il
reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto tra gli opposti schieramenti, il
confrontarsi con dignità nelle assemblee elettive, l’individuare i temi di
necessaria convergenza nell’interesse generale». Nel 2006, si sa, il campo
visivo di un soggetto sano era quasi interamente occupato dal centrodestra e
dal centrosinistra, ma presto il bipolarismo è andato a farsi fottere, e i due
schieramenti si sono sempre più ristretti. E più si restringevano, più si accostavano.
E più si accostavano, più si restringevano. E nel farlo, come è naturale per
una destra che si voleva centrodestra e per una sinistra che si voleva
centrosinistra, convergevano entrambe al centro, sempre bene in vista al nostro
amato Presidente della Repubblica, cui il glaucoma non consentiva di vedere che
intanto astensionismo, M5S e Lega riducevano il Pd e Forza Italia a poco più di
un terzo degli aventi diritto al voto: niente, tutto lo scenario politico che
rientrava nel suo campo visivo – maggioranza e minoranza – erano il Pd e Forza
Italia, gli «opposti schieramenti». Nessuna
perplessità sul fatto che gli accordi sottobanco non li rendessero poi tanto «opposti», se non in favore delle
rispettive tifoserie. Nessuna preoccupazione riguardo al fatto che oltre a «riconoscimento, rispetto e ascolto» finissero
addirittura a raggiungere l’orgasmo simultaneo nel realizzare pezzo dopo pezzo,
qui con reciproca desistenza, lì con accordo bipartisan, il Piano di rinascita democratica di Licio
Gelli. Gli «opposti schieramenti»
erano quelli, e tutto attorno zero, il buio, il niente. Sia chiaro, non è che,
oltre al Pd e a Forza Italia, d’attorno ci fosse e tuttora ci sia poi chissà cosa.
Ammesso e non concesso, tuttavia, sia solo cacca, è cacca che comunque non puoi
far finta non esista, dovendo rappresentare l’unità della nazione. Ti è toccato
in sorte di dover rappresentare l’unità di una nazione che per un buon 70% è
cacca, sia, ma non puoi limitarti a rappresentare solo l’unità di quel 30% che sta
al centro del tuo campo visivo, che poi finisce per diventare il 20% a non veder
più nemmeno le fronde interne a Pd e a Forza Italia, ai margini. Deve averlo
capito, finalmente, e prima di finire a rappresentare solo il governo, di volta
in volta dato a questo o a quello, a sua piena discrezione, in pratica a rappresentare solo l’unità di se stesso, avrà detto: «Basta,
nasino mio bello, andiamocene ad Anacapri». Della signora Clio, ormai, riesce a
vedere solo quello.
Iscriviti a:
Post (Atom)