sabato 22 giugno 2019

Recensione di una recensione


«Dopo aver accompagnato moglie e figlio alla stazione ferroviaria mandandoli in vacanza nel Maine per farli sfuggire allafa estiva metropolitana di Manhattan, Richard Sherman rincasa», così recita lincipit della trama di The Seven Year Itch (Billy Wilder, 1955), che in Italia arrivò sugli schermi col titolo Quando la moglie è in vacanza. Canovaccio in tutto simile a quello dello scorso venerdì, eccezion fatta per il rincasare: certo che Marilyn Monroe non potesse aver preso in affitto lappartamento sopra il mio, non mi sono affrettato e, bighellonando in auto per la città, mi son trovato nei pressi del Palazzo Serra di Cassano, sede dellIstituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove ho appresso si stesse tenendo la presentazione di un libro, Storia dellItalia corrotta di Isaia Sales e Simona Melorio, edito da Rubbettino.
Niente di comparabile allo spettacolo di una biondona che dà il fresco alle sue grazie su una grata daerazione, certo, ma la cosa si è rivelata dun certo interesse, sicché ho comprato il volume, un bel librone di 322 pagine che illustra tutti gli episodi di corruzione noti succedutisi in Italia dallUnità allaltrieri: doviziosa documentazione, ineccepibile trattamento delle fonti, insomma, un onesto lavoro di scavo, tanto più encomiabile per la cura riservata ai casi poco noti ai più, incontestabili sul piano degli elementi addotti a prova ed emblematici della diffusione del fenomeno proprio perché sottratti all’effetto mitopoietico della dimensione dello scandalo pubblico di più grande portata. Citarne qui qualcuno, se questa fosse una recensione di Storia dellItalia corrotta, potrebbe tornar utile a consigliarvene lacquisto, ma il titolo del post non lo concede: questa vuol essere la recensione di una recensione, quella che trovate a pag. 2 de Il Foglio di venerdì 21 giugno, a firma di Massimo Adinolfi (“La storia dellItalia corrotta” che non spiega niente della nostra storia).
Recensione oltremodo malevola, il che di per se stesso non sarebbe biasimevole, perché la stroncatura è quasi sempre un genere più interessante della marchetta, oltre ad essere assai più nobile. Il problema sta nel fatto che una stroncatura devessere argomentata in modo stringente, senza lasciare il ben che minimo appiglio al sospetto che la critica sia preconcetta o, peggio, sia piegata a un fine diverso da quello di dimostrare che il libro in questione non valga la pena di essere acquistato, mentre quella che Massimo Adinolfi riserva a Storia dellItalia corrotta è argomentata in modo così sgangherato da offrire innumerevoli appigli ad altrettanti sospetti. E non è tutto, perché questa sgangheratezza saddobba della sciagurata spocchia che pretende considerazione in cambio della ruminazione di qualche garzantina.
Quello che pare aver maldisposto Massimo Adinolfi nei confronti del libro, non sappiamo se impedendogli di andar oltre le prime quattro pagine, le uniche che prende in considerazione, è l’«accumulazione», figura retorica che si presenta in forma di elenco, e qui l’elenco è quello di «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» coinvolti in episodi di corruzione.
Non dovrebbe irritare il fatto che di questi episodi siano stati protagonisti uomini che, a vario titolo, erano tenuti alla tutela del bene comune, venendo poi meno a questobbligo istituzionale per perseguire, a discapito dellinteresse pubblico, quello privato, senza avere in alcun conto le leggi dello stato e quelle morali? No, quello che irrita Massimo Adinolfi è il fatto che la lista «viene giù fitta e insistente come una pioggia monsonica», anzi, come un «diluvio». Ma questa non è la sola «accumulazione» che lo irrita, perché c’è pure quella fastidiosa sequenza di «se», che apre ben 25 protasi («se le società, pubbliche e private... se i manager, pubblici e privati... se i grandi gruppi... se le grandi opere... se i concorsi... se i partiti... se le professioni... se le banche... se la magistratura...»), ma che gli pare «chied[a] di essere letto come un “se è vero, come è vero, che”», per arrivare ad insinuare in forma di domanda retorica un assunto che in realtà sarebbe fallace («come si può pensare allora che la corruzione non sia un dato capillare, un elemento di lunga durata della storia italiana, un problema del nostro stato nazione?»).
Neanche sarebbe un’«accumulazione», quest’ultima, perché in realtà è un’anafora, ma Massimo Adinolfi ne è comunque tanto disturbato da non riuscire a produrre neppure la schifezza della schifezza della schifezza di un’obiezione che sia degna di dirsi obiezione a quell’assunto, se non quella che, a fronte delle 322 pagine zeppe di fatti circostanziati e documentati, obiezione non è: tutta roba percepita, questa corruzione, e «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Cosa avrebbero dovuto fare per diminuirla? Probabilmente sfoltire, sfoltire, e su quello che restava essere più indulgenti, come solitamente sulla corruzione è Il Foglio, il cui fondatore ha sempre sostenuto che la corruzione è un ingrediente ineliminabile dalle forma di vita associata, concedendo possa essere combattuta, ma senza metterci troppa indignazione, arrivando addirittura a teorizzare che «in politica non si tratta affatto di avere la capacità di “ricattare” gli altri, di condizionarli ed eventualmente ricattarli, dove il termine va inteso in senso politico, paralegale. Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile»; in senso «paralegale», ovviamente, dove il «para-» sembra essere proprio il margine di indulgenza da concedere a una rete di rapporti che senza l’ineliminabile ingrediente della corruzione può addirittura correre il rischio di lacerarsi.
Prendete Micromega 1/2002 e andate a pag. 139-140, è il punto in cui, conversando con Piercamillo Davigo, Giuliano Ferrara illustra magistralmente questa sua teoria del «paralegale» come statuto della politica: «La politica è senza dubbio il regno dell’ambiguità. Si distingue dalla dimensione etica privata, personale, individuale, di coscienza. E si distingue anche da una concezione lineare e non ambigua della legalità. In altri termini: la politica, che è rapporto di forze, ricerca del consenso, una delle manifestazioni del modo di organizzarsi e convivere degli uomini, forse la più rilevante, è un’altra cosa rispetto alla concezione lineare e autoreferenziale della legalità». Riesponendoci alla «pioggia monsonica», diremmo che «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» sono in qualche modo a legibus soluti: sembra corruzione, quella in cui vengono sorpresi, quando accade che vengano sorpresi, ma la percezione è fallace, perché la rappresentazione è ben distante dalla realtà, e la realtà è che non è corretto calcare a forza sugli episodi di corruzione di cui si macchiano i parametri adottati per quelli di cui si macchiano i comuni cittadini. In questo, allora, sì, «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Ecco perché non è ricevibile la controbiezione che Simona Melorio anticipava venerdì scorso, quando teneva a far presente che nello scrivere Storia dellItalia corrotta si era deciso di rinunciare ad ogni approccio di tipo statistico, inevitabilmente soggetto alle inferenze di tipo percettivo: non è ricevibile perché è il semplice parlare di corruzione, ancorché documentata e relativa a casi reali, a mettere in discussione lo statuto che rende a legibus soluti chi è chiamato dalla politica a rivestire un ruolo istituzionale.
In tal senso, forse, andrebbe rivisto il senso della recensione di Massimo Adinolfi: più che una stroncatura di Storia dellItalia corrotta, è una marchetta alla teoria di Giuliano Ferrara, ovviamente col ritardo dovuto al fatto che fino a uno o due anni fa era consulente del Ministero della Giustizia. Questo consente, da un lato, di trovare appiglio a ogni sospetto e, dallaltro, di spiegare laltrimenti inspiegabile chiusa della recensione: «Rimane il fatto – scrive – che con la corruzione e il suo carattere endemico non si spiega quasi nulla della storia italiana: non si spiega né il fascismo né la democrazia, né la scelta atlantica né il terrorismo, non il miracolo economico e neppure le mafie. E allora a cosa serve questa percussiva “Storia dell’Italia corrotta”?».
In quale punto del volume è dichiarata l’intenzione di spiegare la storia italiana con la corruzione e il suo carattere endemico? Gli autori non si azzardano a farlo neppure in modo implicito, si limitano a considerare che i casi di corruzione trattati coprano un arco temporale coincidente a quello che va dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, senza lasciare buchi, quasi sempre con ampie aree di sovrapposizione ed intersecazione. Quando poi scrivono che la corruzione è da ritenersi «un elemento connaturato al senso prevalente dello stato che si è affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione», dove si legge, come crede di poter fare Massimo Adinolfi, che la corruzione ne sarebbe «costitutiva»? Costitutivo è ciò che concorre in modo essenziale alla formazione di qualcosa; connaturato è al più ciò che vi radicato dentro ab initio; insito ad essa, certo, ma donde se ne dovrebbe trarre che ne informa ratio e sviluppo?
Qui non possiamo glissare come abbiamo fatto sulla confusione tra accumulazione e anafora, qui di «percussivo» ci par essere solo la malafede di Massimo Adinolfi. Perché questa Storia dell’Italia corrotta ci racconta episodi di corruzione verificatisi negli ultimi 150 anni, ma in quale passaggio del libro si afferma che fu la corruzione a dare forma e/o sostanza a fascismo, democrazia, scelta atlantica, boom economico, mafia e terrorismo? E sì che in più di un caso alla tentazione si potrebbe anche cedere. L’assassinio di Giacomo Matteotti, che per consenso unanime degli storici segna una svolta dei tratti offerti dal fascismo, non si ebbe per impedirgli di rendere pubblica la tangente intascata dal fratello del Duce? Rompere l’alleanza di governo con comunisti e socialisti, in cambio di qualche milionata di dollari gentilmente offerti ad Alcide De Gasperi, non configura un atto corruttivo? Il denaro dato a brigatisti e camorristi perché fosse salvato il culo a Ciro Cirillo, e a meno di tre anni di distanza da quando con Aldo Moro era prevalsa la linea della fermezza, lo rubrichiamo a investimento pubblico?  

15 commenti:

  1. Direi che il caso di Ciro Cirillo, come altri analoghi, tipo Giuliana Serena, non si configuri come corruzione ma come malversazione.

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    1. Il solito perverso iPad ha reso Serena la Sgrena. Magari ci ha azzeccato.

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    2. Con “corruzione” Sales e Melorio non fanno stretto riferimento alla fattispecie giuridica, non a caso spesso il termine risulta interscambiato con quello di “corrosione”: corruzione, dunque, in senso estensivo.

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    3. Non voglio essere pignolo, ma se prendiamo “corruzione” in un’accezione estensiva, tipo “sperpero del denaro pubblico” temo che di pagine c’è ne vogliano 322.000.

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  2. mmmh, sembra strano che qualcuno, per puro sfizio teratologico, trovi interessante sapere che nel 1875 un certo sindaco di una tale città italiana si sia fatto corrompere. Che poi, per tale sfizio, gli toccherebbe pure irritarsi ad ogni pagina. E, dato il numero di pagine, rischia pure di rovinarsi l'estate. E per cosa ? No, via, il libro necessita di una lettura ideologica, i meri fatti (ammesso che esistano) sono la cosa meno interessante del mondo.

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    1. La sua posizione riguardo ai fatti (che, mi consentirà, o sono meri o non sono fatti) a naso sembra di altissimo livello filosofico, quindi mi deve dare un po’ di tempo per meditare una risposta adeguata. Se vedrà che non arriva, mi dia per annichilito.

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    2. Conosco due persone con il cognome Adinolfi e sono una peggio dell'altra: è un mero fatto.
      Mi pare interessante anche senza una lettura ideologica.

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    3. Strano, io trovo invece interessante che ci sia continuità dal 1875. Mi viene da pensare che da allora ci sia stato un ininterrotto passaparola su come funzioni il meccanismo, ad ogni subentro: poiché, sempre a scuola dal 1875, non mi pare che si sia insegnato. Corrompere e farsi corropmere è un mestiere, mica andare a fare la spesa.

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  3. Il libro è edito da Rubbettino, con due b.

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  4. Sì, ma siam sempre lì: il vero nome di Antelope Cobbler nel libro salta fuori?
    Sennò mica lo compro.
    Eh.
    Stia bene.
    Ghino La Ganga

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  5. A parte..

    A parte il teratologico..non è il caso di annichilirsi,poiché mi sembra che il soggetto nascosto possa fare il paio con il soggetto omesso.
    Infatti è l'oggetto che descrive bene il soggetto in questo caso.
    Letto l'ultimo libro di Concita De Gregorio, mi servirebbe un parere..

    caino

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    1. La trama non è malaccio, ma è maltrattata per servire la tesi di fondo: atrocità e miseria del potere, quello vero, cioè occulto. Qualche guizzo c'è (per esempio, nella descrizione del lavoro del centro studi in cui trova lavoro Nora), ma il risultato complessivo mi pare resti assai al di sotto delle ambizioni.

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  6. Di solito evito il Foglio, l'ultimo articolo che mi è capitato di leggere, su segnalazione di un amico sui social, è un breve sfogo di Camillo Langone contro il calcio femminile, "contro natura" a suo modo di vedere le cose.
    Direi che mi basta, anche se alla fine risulta più ridicolo che offensivo.

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  7. Concordo che ce ne sarebbe di che argomentare se dal connaturato si passi al costitutivo. Conosco la storia di un segretario comunale che durante il fascismo veniva spostato di sede in sede, poiché quello voleva fare il suo lavoro e trovava, puntuale, tutto ciò che non era in ordine. Corruzione che effettivamente, ad oggi, pare che sia ben proliferata durante il fascismo, poiché a quel punto senza neanche più indipendenza dei poteri, chi poteva più andare ad interferire? In fin dei conti, almeno implicitamente, che la corruzione sia costituiva non è proprio la tesi che si descrive essere quella di fondo a Il Foglio? Direi di sì, se detta tesi la definisce necessaria (non si potrebbe fare altrimenti). A me poi pare che quella forma antesignana della corruzione sia il modus operandi dell'italiano medio, laddove i rapporti determinano i favori, i quali a loro volta spesso anziché direttamente del denaro si servono del suo antesignano, il baratto (che ha pur sempre rilevanza economica). La corruzione è forse solo l'evoluzione di questo sistema quando dalla gestione del proprio si è incaricati della gestione dell'altrui.

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